domenica 27 settembre 2015

Intervista a Jean Pierre Lebrun a cura di Emanuele Montorfano


Vivere insieme senza L'altro?
E’ ancora possibile ritessere il discorso collettivo?

Intervista a Jean Pierre Lebrun
a cura di Emanuele Montorfano

 

Non è certo una novità proporre l'idea che assistiamo ad un mutamento marcato, per certi versi, inedito del legame sociale e del discorso sociale che lo forgia. Se da un lato non possiamo non fare riferimento alla crisi congiunturale in cui ci troviamo, che preclude la disponibilità di risorse materiali e l'esercizio di diritti ereditati da ormai altri tempi, d'altro canto non possiamo arrestare la nostra analisi su questo punto. In questa intervista JPL ci invita a considerare che ciò che si presenta come critico non è da cercare solo nell'indisponibilità della risorsa, dell'oggetto, ma piuttosto nel particolare tipo di rapporto che il soggetto attuale intrattiene con l'oggetto di soddisfazione e nelle conseguenze che questo nuovo tipo di rapporto genera nello psichismo individuale.

martedì 8 settembre 2015

Processo alla piscologia

Pubblichiamo qui di seguito un breve articolo di Massimo Recalcati, La Repubblica del 07 Settembre, a commento di un corrispondente articolo che riassume i risultati di uno studio, coordinato dal gruppo Open Science Collaboration e pubblicato sulla rivista Science, che evidenzia la notevole mutabilità degli esperimenti condotti nell'ambito di ricerche psicologiche. In questa disciplina solo il 36% degli esperimenti ripetuti ha ottenuto risultati analoghi agli originali, i quali spesso erano stati utilizzati per sostenere affermazioni e teorie psicologiche. La fragilità degli esperimenti condotti in campo psicologico (ma non solo, la stessa incertezza sperimentale vale per altre discipline quali, ad esempio, la medicina) cozza  con il principio fondamentale degli esperimenti in campo scientifico: la riproducibilità. Ciò che vale per le scienze "dure", fisica e chimica, non sembra essere applicabile alle discipline "umanistiche". La psicologia deve allora essere posta sotto processo in quanto "antiscientifica"? La questione è ovviamente complessa e si collega ad un dibattito che da sempre anima il campo dell'epistemologia (studio sui metodi e sui principi della conoscenza). Questa che segue è la replica "a caldo" di Recalcati
 
Ma la vita psichica non si spiega con i numeri
IL nostro tempo è assillato dal culto della cifra: tutto dovrebbe essere misurato, pesato, tradotto in numeri, quantificato. Il mito dell'oggettività al di là di ogni interpretazione non anima solo alcune recenti correnti filosofiche, ma sembra essere diventato una sorta di imperativo "morale" diffusosi in tutte le aree del sapere. Nemmeno la psicologia può sfuggire a questa tendenza. Anzi, essa sembra sposare con sempre più determinazione l'idea propria delle scienze "dure" — come la matematica o la fisica — che una ricerca per essere considerata degna di scientificità non solo debba galileianamente essere riproducibile in termini sperimentali ma, soprattutto, produrre numeri, percentuali, cifre attendibili. Nemmeno la dimensione labirintica della vita psichica deve costituire una eccezione al nuovo impero dell'oggettività. L'impeto della valutazione — oggi diffuso in tutti gli ambiti del sapere — sospinge gioco forza la psicologia verso la psicometria: misurare atteggiamenti, conoscenze, abilità, credenze, sentimenti, personalità. L'intera classificazione delle malattie mentali proposta dai vari Dsm, per esempio, si fonda su un principio descrittivo basato su ricorrenze statistiche. Nelle Università, non solo italiane, la psicologia tende sempre più ad abbandonare il campo delle cosiddette scienze umane per scivolare verso quello delle scienze obbiettive, ispirate al criterio della quantificazione dei risultati. Una tesi di laurea che non sia corredata da sequenze di numeri, grafici matematici, curve statistiche, oltre che da "inglesismi" di ogni genere, viene ormai considerata, a priori, come una tesi di serie B. Anche il fenomeno che più di tutti esalta la soggettività umana, com'è quello dell'innamoramento, viene spiegato dalle neuroscienze come un fenomeno determinato dall'effetto biochimico dell'azione della dopamina su alcune zone del cervello e destinato fatalmente a spegnersi tra i sei e gli otto mesi. In un recente congresso scientifico interazionale sui disturbi dell'alimentazione al quale ho partecipato ho ascoltato esterrefatto relazioni di colleghi nord-americani che avevano letteralmente dissolto la soggettività del paziente in dati statistici, numeri, procedure anonime, percentuali. Del paziente, della sua anamnesi, della sua storia clinica, delle sue particolarità più proprie, non restava più nulla. Il feticismo della cifra e della generalizzazione protocollare aveva semplicemente inghiottito quello che ogni scienza medica dovrebbe invece rispettare: l'incomparabilità assoluta del soggetto. Il problema è scottante: esiste davvero la possibilità di misurare la vita psichica? E come non vedere che questa domanda trascina con sé la tendenza insidiosa — segnalata con forza da Michel Foucault e da Franco Basaglia — di una medicalizzazione violenta della vita umana? La spinta feticistica alla misurazione vorrebbe, infatti, cancellare il carattere singolare e irripetibile della soggettività umana segregando come "vita malata" quella che si trova fuori dalla media statistica stabilita che definisce la normalità. È questa la dimensione più politica che è al fondo della riduzione della psicologia alla psicometria: quello che devia da una supposta normalità è una deviazione statistica che deve essere trattata affinché ritorni nel suo alveo mediano. E se allora si gettasse nel lazzaretto dell'anormalità anche il pensiero critico, non omologato, quello deviante dalla universalità della norma? Ma, ancora, non è forse in questa devianza che dovremmo definire l'unicità irripetibile dell'esistenza come tale? L'esistenza, in altre parole, non è sempre una deviazione dalla norma?
La psicoanalisi offre alla psicologia un modello di scienza che non può essere ridotto al furore scientista della quantificazione. Ogni caso è per lo psicoanalista unico, non riproducibile, non comparabile. Eppure la pratica clinica della psicoanalisi non può essere senza principi, non è una improvvisazione irrazionale. Essa offre, piuttosto, il modello di una pratica epistemica che invita a diffidare di ogni generalizzazione per considerare l'"uno per uno", la singolarità deviante della vita umana.

martedì 1 settembre 2015

La parola del mese - SETTEMBRE 2015


LA PAROLA DEL MESE

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
SETTEMBRE 2015

politically correct
 
 
politically correct = locuzione angloamericana. (traducibile con «politicamente corretto»), usata in italiano come aggettivo e sostantivo maschile
1. Con uso attributivo, e in senso proprio, di discorsi e comportamenti improntati al rispetto delle minoranze e dei gruppi sociali più deboli e discriminati
2. Come sostantivo
a. Movimento politico nato nelle università statunitensi verso la fine degli anni ’80 del Novecento per rivendicare una maggiore giustizia sociale e per la difesa e il pieno riconoscimento delle minoranze oppresse (gruppi etnici, omosessuali, donne, ecc.). Per estensione la rivendicazione, da parte di gruppi minoritarî, del riconoscimento anche giuridico della propria identità culturale
b. Con significato più generico, atteggiamento di apertura e attenzione verso i problemi delle minoranze e di quelle categorie che non hanno spazî adeguati d’espressione nella società.
L'espressione politicamente corretto designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona. L'uso dell'espressione nell'accezione corrente può essere ricondotta agli ambienti di intellettuali statunitensi di sinistra d'ispirazione comunista degli anni trenta, sebbene riguardo alle origini del concetto di "politicamente corretto" vi siano altre ipotesi. Politically Correct è anche il successivo movimento di idee d'ispirazione liberal e radical delle università americane (in particolare nella University of Michigan ad Ann Arbor, Michigan) che alla fine degli anni ottanta si proponeva, nel riconoscimento del multiculturalismo, la riduzione di alcune consuetudini linguistiche giudicate come discriminatorie ed offensive nei confronti di qualsiasi minoranza per cui: afro-americans (afro-americani) sostituisce blacks, niggers e negros (negri), gay sostituisce i molti appellativi riservati agli omosessuali, diversamente abile sostituisce varie espressioni che erano politicamente corrette in passato (minorato, l'anglicismo handicappato, poi portatore di handicap, disabile), disoccupato sostituisce nullafacente. Il movimento nacque in risposta al rapido aumento di episodi di razzismo tra gli studenti, furono così approntati ed imposti dei codici di condotta verbale (speech cdes) con i quali si voleva scoraggiare l’uso di epiteti offensivi; il ripetuto mancato rispetto di questi codes veniva sanzionato con richiami ufficiali che avrebbero potuto influire negativamente sulla carriera accademica.