domenica 29 novembre 2015

A spasso tra i rifiuti - Libro di Gianluca Cuozzo (sintesi di Enrica Gallo)


Gianluca Cuozzo:
Docente   di Filosofia Teoretica  presso   l’Università di Torino.

 “A spasso fra i rifiuti”
                                                                                                                                                        
                                

Presentazione:
E’ una passeggiata davvero singolare, quella che l’autore ci invita a compiere con alcuni inediti “angeli delle obsolescenze” - dal robottino Wall-E  a Walter Benjamin, da Italo Calvino ai personaggi che animano le storie di Ted Botha e di Michel Tournier.
Sarà con essi che entreremo, con Gianluca Cuozzo in funzione di novello Virgilio, in luoghi sicuramente “reali” (le discariche urbane in cui giacciono gli scarti della nostra società dei consumi, vera controparte immobile, oscura, notturna della produzione giornaliera senza sosta delle merci) che assumono peraltro in questo testo tanto rapido quanto appassionato un valore potentemente allegorico e potenzialmente salvifico.
Sta infatti nel residuale, secondo l’interpretazione dell’autore, la sola speranza di una trasformazione profonda e redentrice dell’esistente. Solo volgendo lo sguardo tanto a ciò che abbiamo lasciato indietro nella vita personale, in nome della coerenza e della continuità dei vissuti, quanto a quello che abbiamo sacrificato come civiltà in obbedienza al mito di un progresso inesauribile, solo cercando fra le pieghe della memoria e dell’immaginazione potremo scorgere quelle alternative respinte, e pur tuttavia ancora attualizzabili, che ci permetterebbero di modificare profondamente i nostri vissuti e le nostre scelte di vita, fermando il piano inclinato su cui la nostra civiltà sta scivolando verso la propria  autodistruzione.
Cap. 1 -  DALL’ ANGOSCIA PARALIZZANTE DA SPREAD  ALLA SPERANZA NEL RESIDUALE
Cap. 2 -  DELL’ ALTRO  ME  STESSO, O  DEL  MIO  “DOPPIO  PATTUMIERA”
elogio della “melancolia” come risvolto interno di un’utopia realizzabile
Può sembrare a prima vista sconcertante, che un testo intitolato “A spasso tra i rifiuti” inizi con un elogio della malinconia (anzi, della “melancolia”, perché Cuozzo usa questo termine più desueto).
Se peraltro seguiamo con attenzione le argomentazioni poste con appassionata abilità discorsiva e con riferimenti che spaziano in molte direzioni, questo accostamento verrà ad apparirci come perfettamente coerente con la tesi di fondo dell’autore, che considera il residuale come la sola speranza di una trasformazione positiva dell’esistente.
La sua riflessione parte da alcune considerazioni sulla società dei consumi, che nel momento del suo apogeo esibiva, come motivo conduttore, una sorta di  variante capitalistica del discorso del Grande Inquisitore dostoevskiano in cui si celebra l’indulgenza verso ogni debolezza umana come strumento di potere: essa aveva infatti come scopo dichiarato quello di suscitare i desideri, garantendone la soddisfazione  indefinita – o almeno, illudendoci rispetto a questa possibilità.
 Non era certo vista di buon occhio, allora, la riflessione ponderata e critica da parte di chi, dice Cuozzo, “si rifiuta di considerare necessario ciò che esiste solo per il fatto che esiste”, per sbagliato o ingannevole che possa sembrargli, e sicuramente la melancolia non trovava posto fra gli atteggiamenti considerati consoni allo spirito del tempo.  Nondimeno, la crisi economica di questi ultimi anni ha drammaticamente interrotto questa specie d’incantamento, ridando spazio a quella “insofferenza melancolica” che nell’interpretazione dell’autore non si configura come una rassegnazione fatale, destinata ad inibire l’azione e a rendere sterile ogni progetto, ma piuttosto come uno sguardo rivolto all’indietro, verso ciò che pur essendo possibile non è stato realizzato (uno sguardo dunque simile a quello di Baudelaire, per cui la melancolia assume la forma di un “radioso rimpianto”,  di un “anelito all’inversione del tempo” da cui  emerge il ricordo dell’inadempiuto).
Sottolineiamo quest’ultima parola, che nella riflessione dell’autore assume un’importanza centrale, perché  a suo giudizio è solo a partire dall’inadempiuto  che si può configurare un’utopia concreta, non disgiunta dalla realtà, in quanto basata su di un residuo di realtà da portare all’esistenza; solo facendo dell’inadempiuto una chance, dice, noi potremo pensare alle alternative possibili di un mondo in cui l’economia sembra essere diventata un’entità mitica su cui si fonda l’intero ordine dell’universo, e in cui le uniche speranze di futuro vengono riposte in una crescita orientata all’infinito.
Ora capiamo dunque perché l’autore abbia dato così importanza all’atteggiamento melancolico: la melancolia si configura appunto in questa accezione come una specie di risvolto interno del nastro dell’utopia, volto a cogliere i punti di svolta,  i luoghi  dove altre scelte erano possibili.
Sappiamo bene infatti come ogni percorso umano sia fatto di scelte: scelte compiute per continuità con l’esistente, per non variare quello che ci sembrava assicurare l’ordine del mondo, scelte scartate perché considerate non coerenti col nostro generale sistema di senso e che spesso tendiamo a dimenticare, ma di cui invece dobbiamo tenere conto dal momento che ogni progetto umano lascia sempre dietro a se un reietto, un residuo, uno scarto.
il residuale come “perturbante”  che apre alla possibilità del cambiamento
Soffermiamoci pertanto su quest’ultima parola, che assume nella riflessione dell’autore una duplice valenza, fisica e metaforica. Sono estremamente fisici e concreti, infatti, gli scarti della società dei consumi, che riempiono ormai le nostre discariche fino a saturarle testimoniando l’incapacità di scelte consapevoli e responsabili (scarti che non possiamo non osservare con la stessa malincolia di Wall-E, il robottino spazzino ideato dalla Pixar Animation, testimone della tragica insipienza umana che ha devastato il pianeta riducendolo ad un cumulo di rifiuti. Lo sguardo compassionevole che esso sembra posare su alcuni oggetti che affiorano qua e là ci fa  pensare, dice Cuozzo, all’Angelo della storia di Beniamin, che guarda un mondo ridotto a mero “deserto senza grazia” dello stato creaturale…). 1*
Ma sono anche scarti, pur appartenendo alla sfera psicologica dell’umano, le alternative di vita che abbiamo lasciato via via cadere, ripudiando le possibilità di cui avrebbero potuto essere portatrici in nome della coerenza e della continuità dei vissuti. E come a volte dalle nostre discariche deborda e fuoriesce un liquame scuro, denso e maleodorante, che ci pone di fronte drammaticamente ed   angosciosamente alle nostre responsabilità inevase di fronte al pianeta in quanto casa comune, così ciò che abbiamo scartato e rimosso nella nostra vita personale, e che pur tuttavia non ci ha abbandonati - rimanendo affiancato a noi come un’Ombra o un temibile Doppio - può riemergere all’improvviso come il perturbante freudiano, determinando una sensazione angosciosa e spiazzante, ma potenzialmente liberatoria.
Il rimosso ci ricorda infatti quello che avremmo potuto essere, ci costringe a scavare nelle pieghe della memoria e dell’immaginazione, l’unico luogo da cui può emergere, secondo Cuozzo, una visione emancipatrice che peraltro non comporta necessariamente un cambiamento plateale.
Così come nella vita di un individuo basta a volte un piccolo aggiustamento, perché la realtà interna si riassesti, così portare all’esistenza una virtualità finora inoperante può pregiudicare, secondo Cuozzo, il mondo intero, riconfigurandolo senza bisogno di una trasformazione violenta (come farà il Messia ipotizzato da Benjamin, che ritornerà nel mondo non per operarvi un’ immane apocatastasi ma soltanto “per aggiustarlo di pochissimo”…).
Se diamo spazio a questo sguardo sul residuale, prosegue Cuozzo, sarà come entrare nel Palazzo dei Destini immaginato da Leibniz: in esso si raccolgono tutte le virtualità dell’esistenza, così che ciascuno di noi vi può contemplare le trame di vita che avrebbe potuto imbastire in un mondo del tutto simile al nostro, da cui ci separa solo un lievissimo scarto - sufficiente peraltro per renderlo totalmente Altro – e da cui possiamo attingere la forza per ripensare alla nostra vita e trasformarla.
Una simile visione naturalmente ha senso solo se intendiamo, come Leibniz, che le possibilità siano qualcosa che attiene al reale, pensabile dunque senza contraddizione (mentre per Hegel nel percorso dello Spirito razionale ogni ulteriorità, anche solo virtuale, resta esclusa dalla storia e dall’ irrevocabilità del destino). Saremo infatti pronti a fare spazio ad un’alternativa già respinta ma ancora pronta a rivendicare i suoi diritti solo se ipotizziamo che nel mondo possano esistere il caso, la possibilità, la contingenza, i resti di senso, solo se consideriamo lecito ripensarli nella direzione di un cambiamento praticabile nel momento in cui il sistema globale, chiuso in una logica asfittica, si avvicina al punto di non ritorno, solo  se non pensiamo al presente come ad una struttura mitica da accettare così com’è, nonostante le sue ingiustizie (con un atteggiamento, dice Cuozzo, simile a quello di Esther, la ragazza amata dal protagonista del bel romanzo distopico di Michel Houellebecq “La possibilità di un’isola”,  che vive il presente con innocenza animale, badando solo ad estrarne il massimo del piacere possibile).
fra Michelangelo e Leonardo: il gesto che dà forma separando, il pennello che rivela lo scarto
Se assumiamo lo scarto nel significato di separare, togliere, rifiutare, possiamo identificarlo nel gesto emblematico di Michelangelo, che presagendo con l’audacia dell’immaginazione la figura che verrà, toglie con il suo scalpello quello che ad essa è estraneo, superfluo, inservibile, facendo affiorare dal marmo grezzo la forma (venendo così a ripetere col suo gesto secolarizzato, osserva Cuozzo, il “Fiat” divino, che separa la luce dalle tenebre, la terra dalle acque…).
Solo in Dio peraltro questo gesto non contempla alcun pentimento che modifichi il progetto originale di senso: non così per l’uomo, in cui ogni togliere e scartare vuol dire lasciare da parte un’ alternativa che resta sempre operante, anche se respinta, anche se apparentemente dimenticata. In ogni vita riuscita accade infatti quello che possiamo vedere nei dipinti di Leonardo, che osservati al microscopio lasciano ancora scorgere i pentimenti e le trasformazioni del progetto originario….
 Cap. 3  - ITALO CALVINO E  WALTER  BENJAMIN:  IL VALORE PROFETICO DELLE PAROLE MAI SCRITTE, DELLE PAGINE MAI PUBBLICATE
la costruzione  dell’identità attraverso la separazione:
In questo capitolo Cuozzo, facendo intervenire due “testimonial” d’eccezione, approfondisce il tema della costruzione dell’identità attraverso un processo di separazione. Riprende pertanto la metafora dello scultore, ritenendola quanto mai adatta a rappresentare quel processo che l’esistere, l’uscire dall’indifferenziato (esisto = ex- sisto) impone all’uomo, obbligandolo a definirsi attraverso un instancabile togliere da sé quello che non gli sembra coerente con l’immagine che vuole presentare al mondo.
Un processo in cui gli scarti, le spoglie di ciò che non abbiamo voluto essere vengono gettate, come il marmo in eccesso, in una sorta di pattumiera  - la “poubelle agréée”, come la chiama Calvino in un suo scritto  originale, sottilmente ironico e pur tuttavia profondo 2* - che  rappresenta a suo giudizio “ la parte del nostro essere e avere che devo quotidianamente sprofondare nel buio perché un’altra parte del nostro essere e avere resti a godere la luce del sole” : del resto è solo grazie alle tenebre, aggiunge, che la luce della conoscenza illumina. Soltanto buttando via noi possiamo infatti erigere un confine fra ciò che siamo e ciò che percepiamo come estraneità irriducibile, e lo compiamo infatti senza stancarci mai, affidando pezzi della nostra vita al sacrificio domestico e municipale della spazzatura…
Lo stesso processo avviene per la creazione letteraria: anche la scrittura, come la vita - è sempre Calvino a parlare - è fatta di scelte “selettive e luttuose”, di parole e di pagine cancellate, di storie che non abbiamo scritto per far posto ad altre, e che talvolta escono dal mondo infero dove le abbiamo confinate a reclamare il loro diritto ad esistere...
Parimenti accade, dice Beniamin, con le pagine bianche di un diario, in cui c’è il silenzio di una vita mai vissuta, di un tempo che non abbiamo consumato, anche se resta ancora a disposizione della memoria. Ed è proprio lì, commenta Cuozzo, fra le pieghe del mai scritto, del mai pronunciato, del mai vissuto, in quelle possibilità esistenziali che abbiamo giudicato improprie al fine di dire “Io Sono”, che sta la nostra immagine controfattuale: un Alter-Resto che può uscire dai recessi tenebrosi della psiche e fare breccia fra le sedimentazioni di ciò che siamo diventati, dandoci la possibilità di una autentica metamorfosi.
 un viaggio salvifico nella  “discarica del dimenticato”:
Ma perché questo accada, perché la chance rappresentata dall’incompiuto possa realizzarsi, trasformandosi da virtualità in realtà e producendo un tempo altro, un tempo redento che nasca da quel “non ancora”, occorre essere disposti a pagare lo scotto per ciò che abbiamo sacrificato, ponendosi nell’ottica di una vera e propria conversione, di un “reversement créateur”– che ridesti le promesse mancate, trasformandole in altra cosa (come quello che accade non già negli inceneritori, dove ogni memoria delle scorie viene perduta, ma nel riciclaggio intelligente che riutilizza, trasformandoli, i materiali affidati alla discarica). In altre parole dobbiamo diventare, secondo  Cuozzo, rigattieri di noi stessi, ad imitazione del Dio del salmo 88, che rovista nelle pieghe di ogni anima alla ricerca di ciò che manca alla salvezza.
E’ davvero un viaggio, quello che l’autore ci invita a compiere per raggiungere un luogo che definisce, utilizzando una felice immagine di L.B. Alberti, “la discarica del dimenticato” (il luogo, posto sulla faccia nascosta della Luna, dove le anime giungono nel sogno e in cui giacciono tutte le cose rimosse e perdute, da cui si irradia la promessa di una felicità mai data ma che rappresenta la variante salvifica del nostro esistere nel tempo) 3*.  Un viaggio certamente non facile, ma che dobbiamo compiere, dice Cuozzo, perché come noi abbiamo lasciato in nome della nostra coerenza interna infiniti atti mancati che ci hanno impoverito, così in nome della stessa coerenza senz’anima anche il nostro mondo sta scivolando verso l’apocalisse, appiattito com’è su di una visione del progresso che si è imposta come razionale ed efficiente, ma che in realtà si affida sempre più ai tratti di irrazionalità di una visione mitica.
Potremo peraltro approfittare dell’aiuto di coloro che Cuozzo presenta come degli inediti  “angeli delle obsolescenze”: oltre a Walter Benjamin – già più volte citato, il cui pensiero è teso a demistificare la struttura mitica della nostra visione storica, Michel Tournier e Ted Botha, che in modi diversi hanno rivolto la loro attenzione alla possibilità di cercare la salvezza fra i detriti del tempo. A questi due autori sono pertanto dedicati gli ultimi due capitoli del testo.
 Cap. 4  -  IL DANDY  DEL  PATTUME: COME  VIVERE  IN  UN  MONDO  ALLA  ROVESCIA
Cap. 5  -  LE  AVVENTURE  DELL’IMMONDIZIA:  AURA  E  SALVEZZA  NELLA  SPAZZATURA
Allo sguardo compassionevole del robottino Wall-E e dell’angelo di Benjamin, che scorge nelle spirali di macerie alte fino al cielo i cascami di una storia dell’uomo cui  solo per un errore prospettico, dice Cuozzo,  noi diamo il nome di “progresso”,  si aggiungono ora altri sguardi, decisamente originali, che offrono nuova linfa alla tesi del libro facendo un più preciso riferimento al titolo. Veniamo infatti invitati ad andare letteralmente “a spasso fra i rifiuti” con Alexandre, il protagonista di un libro del 1975 di Michel Tournier (Les metéores), che girovagando con l’andamento languido ma con la vista acuta  di una sorta di dandy esteta e filosofo fra le discariche urbane – ricevute inopinatamente in eredità per via della morte del fratello - riesce a cogliere l’ oscura e pur tuttavia molto espressiva  trama rovesciata  della nostra società dei consumi. Al suo sguardo attento si offre infatti, come in uno specchio, l’immagine distorta di un mondo votato allo spreco, e pertanto  sul punto di essere sopraffatto dai propri scarti, che rivela nell’ombra la sua vera essenza.
Come per Alexandre, anche per Cuozzo le discariche rappresentano un luogo privilegiato in cui possiamo leggere, ancora più che nel mondo diurno e solare della produzione, un’idea di benessere che sta mettendo a repentaglio la vita stessa del nostro pianeta. Nondimeno, a suo giudizio, c’è negli scarti un potere salvifico che potrebbe attualizzarsi, se facciamo tesoro di questo sguardo approfittando dell’immobilità in cui stanno le cose quando escono dal ciclo frenetico della produzione e del consumo, se facciamo nostra l’attitudine di certi personaggi che Alexandre incontra via via e che popolano anche un libro di Ted Botha (Mongo) 4*: cenciaioli, rigattieri, antiquari, collezionisti, che dalle discariche non distolgono il volto come noi tendiamo a fare, ma anzi in esse lo fissano alla ricerca dei loro tesori, comportandosi come veri e propri “redentori delle obsolescenze”. 
I collezionisti descritti da Botha raccolgono infatti gli oggetti più disparati, cogliendo in essi una storia di cui portano ancora le impronte e da cui emana una sorta di richiamo a cui sono sensibili. Può sembrare in molti casi un po’ folle, questa loro ricerca: e però, osserva Botha, nella loro ossessione, assai più della possibilità di prendere qualcosa che non costa nulla, forse è presente  l’idea che si possa dare un assetto diverso al mondo, soprattutto quando con questi oggetti riciclati si costruiscono nuove e originali cose - nella critica in controluce al consumismo imperante c’è indubbiamente un potenziale sovversivo - e c’è anche una sorta di tensione alla permanenza dell’essere che può avere un afflato quasi religioso.
Può sembrare eccessivo, parlare di tensione religiosa in un discorso sulle discariche: eppure, dice Cuozzo facendo suo un pensiero di Philip K. Dick  (Valis), è possibile che il divino abiti anche lì,  che  lì si mimetizzi “come un seme nascosto in una massa irrazionale”, aggredendoci e ferendoci nel suo ruolo di antidoto contro l’illusione tecnocratica di una società che corre  verso la propria distruzione.
Note:
1* = Nel testo “ Sul concetto di storia” Benjamin fa riferimento ad un acquerello di Paul Klee, “Angelus novus”. Benjamin scrive che l’angelo di Klee dà le spalle al futuro, mentre il suo sguardo triste e malinconico è volto alle macerie della storia poste davanti ai suoi occhi: vorrebbe forse redimerle,  riconnettendone gli sparsi frantumi, ma viene impedito da un forte vento che lo spinge lontano, verso un futuro che non conosce.
2* = La novella “La poubelle agrééé”  è contenuta nella raccolta “ La strada di San Giovanni”
3* = Il testo cui si fa riferimento  è  “Le intercenali”  (IV 1 Somnium)
4* = “Mongo” è un termine tipicamente newyorkese che viene usato per definire gli oggetti che dopo essere stati buttati via vengono raccolti, ritrovati, salvati

Dopo i tragici fatti di Parigi - Intervento di Edgar Morin


Questo testo è l’intervento che l’autore ha tenuto al convegno internazionale di Rimini organizzato da Edizioni Erickson.........
 
 
Per capire cosa succede nel mondo islamico è necessario avere una cultura storica: senza storia infatti non può esserci alcuna comprensione degli avvenimenti  Bisogna sapere, per esempio, che nell’antico Califfato c’era piena libertà religiosa sia per i cristiani che per gli ebrei, mentre l’intolleranza più cieca riguardava solo il mondo cristiano: basti pensare alle Crociate, all’Inquisizione, alle persecuzioni anti- ebraiche.
In realtà il vero problema del mondo arabo è stata la sua colonizzazione durata secoli, dalla fine del 400 dopo Cristo alla decomposizione dell’Impero ottomano. Da queste macerie nacque un sogno: il sogno di ricostruire e unificare il mondo arabo, il sogno di Lawrence d’Arabia. Un progetto che però si è andato a infrangere contro le mire egemoniche di paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia, che per perseguire i propri interessi nazionali in Medio Oriente “crearono” paesi tra loro diversi: la Siria, il Libano, l’Iraq. Ed è stato un peccato, perché una nazione unificata araba avrebbe potuto svilupparsi in senso multietnico, visto che in ognuno di quei territori avevano sempre convissuto islamici, cristiani ed ebrei. Questa nazione avrebbe potuto consolidarsi, svilupparsi in un clima di libertà religiosa.
Le cose sono andate diversamente. Prima con la frantumazione in Paesi differenti, ognuno inserito in una differente sfera d’influenza. E poi, molto più recentemente, con gli effetti della strategia americana, con la seconda guerra del Golfo che è servita solo a distruggere lo stato iracheno. Ora da una parte c’è la componente sciita; dall’altra quella curda, decisa a diventare indipendente; e infine quella sunnita.
In questo contesto esplosivo — e con le conseguenze di una serie di fenomeni storici come il fallimento del socialismo arabo, il fallimento delle nuove democrazie, il problema palestinese irrisolto, il sottosviluppo economico e un sentimento diffuso e generalizzato di umiliazione collettiva — si è arrivati alla situazione attuale. In cui perfino nei “laici” Territori occupati la radicalizzazione del conflitto e la disperazione hanno portato a una crescita del potere dei fattori religiosi. A questo punto, serve in primo luogo una risposta di tipo culturale. Dobbiamo introdurre nei nostri paesi l’insegnamento delle religioni, non del cattolicesimo ma di tutte le diversità: perché la religione non è, come pensava Voltaire, un’invenzione della cura, ma, come diceva Karl Marx, è il sospiro della creatura infelice. In altre parole, è l’infelicità umana che alimenta la religione. In secondo luogo, per favorire l’integrazione degli studenti musulmani, bisogna mostrare come la Francia — proprio come l’Italia, o la Spagna — sia in realtà una nazionale multiculturale. In Italia ad esempio non ci sono solo discendenti dei latini, è una nazione composta da popoli diversi, siciliani, piemontesi, trentini. E ci sono molti ebrei. L’Italia insomma non ha una razza unica, ma tante diverse, con lingue diverse che col tempo si sono integrate. È la vera eredità dell’universalismo dell’impero romano. La storia insomma deve aiutare anche i giovani a capire come l’integrazione, nel tempo, sia possibile.
Terzo tema: cosa fare oggi con la parola “terrorismo”? Una parola che in realtà non è quella giusta, perché è vuota. Una parola che non contiene in sé una vera fede, una vera passione, ma solo un mondo dalla realtà rovesciata. Era così anche in fenomeni terroristici di altro tipo, come le Brigate Rosse e l’eversione nera in Italia. Le persone non nascono terroriste, si comincia magari per seguire un qualche ideale di salvezza. Come succede con l’Is: dal disagio storico e sociale si passa a pensare di essere al servizio di Dio. E nel caso degli estremisti islamici, il fuoco, il carburante che alimenta la loro follia è la questione irrisolta del Medio Oriente. Questo fuoco è come un cancro, che fa metastasi ormai nell’intero pianeta. Ecco perché bisogna risolvere una volta per tutte il problema mediorientale. Imponendo la pace a tutti le componenti che alimentano questa guerra civile. È questo l’unico modo per isolare il fanatismo di Daesh e del sedicente Califfato.
Ma come fare? A questo punto, ricostruire l’integrità della Siria e dell’Iraq appare impossibile. L’unica soluzione allora è riprendere, tornare a far vivere il sogno di Lawrence d’Arabia, promuovendo una grande Confederazione del Medio Oriente in cui sia ripristinata la libertà di culto. Se decidiamo che è davvero questo lo scopo da raggiungere, allora possiamo portare avanti una grande coalizione che promuova la pace. Solo così quel concetto vuoto che chiamiamo “terrorismo” potrà essere progressivamente liquidato. Questa è una missione vitale, non solo per i francesi o gli europei, ma per tutta l’umanità.
 

domenica 22 novembre 2015

Commenti a margine della conferenza sulla Bosnia


Mercoledì 18 abbiamo ascoltato con molto interesse l’intervento della dott.ssa Donatella Sasso su “Il caso Bosnia” di cui i media parlano assai raramente. Abbiamo apprezzato la chiarezza con cui sono stati affrontati temi assai complessi resi ancora più ostici dalla nostra scarsa conoscenza delle dinamiche politiche e culturali dell’area balcanica. Partita da un doveroso inquadramento storico Sasso si è soffermata sui protagonisti: Milosevic, Tudjman e Izetbegovic accomunati dalla medesima appartenenza alla nomenclatura di regime. Quindi non uomini nuovi per una rifondazione della ex Iugoslavia, ma uomini noti, che secondo l’interpretazione proposta, hanno cercato una ricollocazione negli spazi di potere lasciati liberi dalla crisi interna e internazionale del comunismo. Costoro con l’aiuto del revisionismo storico non hanno esitato a cavalcare la tigre del nazionalismo identitario che tanti lutti ha prodotto in una terra ricca di intrecci etnici in cui nei precedenti 40 anni i matrimoni misti erano stata realtà piuttosto diffusa. L’ultima parte dell’intervento è stata dedicata alla presentazione dell’attuale Bosnia Erzegovina per come quest’ultima è uscita dagli accordi di Dayton del 21 novembre 1995. Gli accordi, che hanno portato la pacificazione, hanno nello stesso tempo introdotto in una Costituzione, che si definisce democratica, un principio di rappresentanza su base etnica che oltre a ledere i diritti di cittadinanza, che dovrebbero essere universali, rende farraginosa e inefficiente la macchina della politica ed eccessivo il peso della burocrazia. In questo quadro le tensioni e i conflitti vecchi e nuovi si riaccendono. Su questa ultima parte sarebbe interessante continuare l’approfondimento perché la conoscenza di un modello identitario fallito può metterci in guardia rispetto a coloro che vedono nello stato identitario/etnico la soluzione di tutti i mali che ci affliggono, intrecciando questa prospettiva con uno spunto fornito da Claudio Vercelli su cosa significhi essere uno stato democratico al tempo delle società multietniche prodotte dalla globalizzazione.

lunedì 16 novembre 2015

Elogio della noia - Massimo Recalcati

Se ne parla in un altro post, eccolo per chi non ha finora avuto la possibilità di leggerlo
 
ELOGIO DELLA NOIA
Articolo di Massimo Recalcati
 La Repubblica del 15/11/2015
 
I pomeriggi assolati dove non c'era «neanche un prete per chiacchierare», elevati da Paolo Conte alla dignità metafisica di un caracollare esistenziale senza «né fine, né meta», hanno dipinto per molti di noi estati dove le città erano davvero deserte e la solitudine di chi restava davvero esposta all'esperienza assoluta dell'assenza. Il nostro tempo non conosce più quelle sane oasi di noia: l'imperativo della connessione perpetua ha frastornato sia il prete che colui che ne ricercava invano la parola. Adesso, anziché tagliare le rose nel giardino per resistere ad un tempo che non passa mai, siamo a rincorrere un tempo in fuga perpetua che cancella tutti gli spazi vuoti. Ogni interstizio temporale deve essere riempito da un febbrile attivismo o dalla violenza rabbiosa di chi, in modi diversi, non si trova immerso nel grande fiume dell'esistenza iperattiva, in permanente "mobilitazione totale". Li ricordiamo ancora i ragazzi delle pietre lanciate dai cavalcavia delle autostrade? Il loro teppismo sciagurato non denunciava forse l'impossibilità di sostare nel vuoto, nel deserto di una vita di provincia che probabilmente non era così diversa da quella cantata da Conte? Ammazzare per gioco, non era forse un modo (assurdo) per ammazzare il tempo? Non accade anche oggi? In disuso, se Dio vuole, il gesto orrendo della pietra scagliata al passare anonimo delle automobili, la noia continua a foraggiare passaggi all'atto erratici che segnalano quanto insopportabile essa sia divenuta per noi occidentali: la violenza gratuita e vandalica, l'abbruttimento del consumo delle droghe, l'abuso compulsivo degli oggetti tecnologici, l'incentivazione di sensazioni sempre più inebrianti e assordanti hanno spazzato via l'immagine pastorale dell'oratorio deserto di Paolo Conte. La noia non accompagna solamente il vuoto d'essere di chi si sente tagliato fuori dalla corsa all'affermazione della propria vita, ma anche chi in questa corsa si è affermato come primo. È quello che Kirkegaard, in pagine sublimi, descrive come l'ombra melanconica dello sguardo di Nerone che, nella leggenda, proprio per noia brucia la città di Roma. Anche il nostro tempo che sembra ipnotizzato dal culto del Nuovo rivela la stessa melanconia inquietante: tutto deve restare sempre acceso (I Phone, I Pad, social networks, televisione, ecc.), così freneticamente acceso che, come direbbe Didi-Huberman lettore di Pasolini, la flebile luce delle lucciole — che alludevano ad un tempo dove la noia non era ancora vissuta come un demone cattivo ma come un momento necessario alla vita -, si è definitivamente estinta.
Se la noia è divenuta oggi solo esperienza del tempo che gira su se stesso in una ripetizione priva di vita, i primi prigionieri di questa gabbia sono innanzitutto coloro che vivono facendo di tutto per sfuggirgli: l'euforia del Nuovo ricercato a tutti i costi svela, infatti, sempre la stessa identica insoddisfazione. Tuttavia, come sa bene lo psicoanalista, il Nuovo che vorrebbe evitare la noia non è mai realmente Nuovo, ma solo un suo cattivo antidoto che finisce, in realtà, per potenziare quella stessa noia che vorrebbe invece contrastare. Lo psicoanalista raccoglie dietro alle quinte dello spirito libertino del nostro tempo fatto di Aperi-cene e di Feste, la delusione annoiata che accompagna inesorabilmente i suoi protagonisti felliniani di cui La Grande Bellezza di Sorrentino ci ha dato un ritratto irresistibile. Non è questa una lezione della quale si dovrebbe tenere conto? Se al fondo della grande giostra dell'Occidente ritroviamo lo spettro della noia non è forse perché abbiamo frainteso profondamente il suo significato? Può la noia non essere solo l'esperienza soggettiva di qualcosa che si è semplicemente esaurito, che ha finito di essere vivo spegnendosi inesorabilmente, come in un rapporto di coppia sfiancato dal tempo o come nell'ascoltare un vecchio comico che ripete sempre lo stesso, ormai logoro, repertorio? Nella noia, è vero, tutto si appiattisce, diventa grigio, ripetitivo, scontato. I padri della Chiesa, non a caso, la reclutano tra i sette vizi capitali sotto il nome di "accidia": è il peccato della caduta del desiderio e del suo sfinimento, è il peccato che fa venire meno il miracolo stesso del mondo. L'annoiato, infatti, sembra non riesca più a fare alcuna esperienza "religiosa" del mondo perché niente lo colpisce, lo entusiasma, lo scuote più. Tutto appare piatto, prevedibile, già visto, già saputo, già fatto. È il carattere evenemenziale del mondo che viene meno e riduce la vita stessa a un ingranaggio anonimo che non riserva più alcuna sorpresa. L'annoiato sa che non ci sarà più niente capace di toccarlo, di farlo vibrare, di sorprenderlo; la noia accompagna il disincanto ipermoderno (cinico-materialistico) per il mondo. Il quartetto perverso che organizza il godimento più depravato e anarchico nel Salò di Pasolini è, innanzitutto, annoiato dal mondo. La loro apatia inquietante traduce la caduta verticale del senso autenticamente erotico della vita: nel nostro tempo non c'è più spazio per la meraviglia nei confronti dell'apparizione miracolosa del mondo. Ma la noia è davvero solo il nome di questa malattia? La sua lezione non ci insegna forse anche qualcos'altro? La noia è il "desiderio dell'Altrove", ha affermato una volta Lacan associandola stranamente alla rivolta, alla preghiera e all'attesa. Perché? Cosa hanno in comune queste esperienze apparentemente così diverse? Esse indicano la necessità della vita umana di allargare sempre l'orizzonte del proprio mondo, di spostare in avanti i propri limiti. L'annoiato è a prima vista colui che incontra il mondo come un orizzonte chiuso, ristretto, soffocante. Ma la noia non registra solo la chiusura del mondo; essa agisce anche come una spinta a riaprire, a rinnovare il suo orizzonte. L'annoiato è esausto del mondo così com'è, è sfinito dalla presenza oppressiva di questo mondo, ma non del Mondo come tale! Egli è come chi si rivolta ai padroni del mondo, come chi attende l'arrivo dell'Altro che gli porti un annuncio di vita nuova, come chi si inginocchia pregando e invocando l'Altro. La noia mostra che questo mondo, il mondo visibile, il mondo come pura presenza, non è mai davvero tutto il Mondo. Essa trapela nello sguardo del bambino che per resistere al sapere asfissiante che la maestra gli propina non può che sbadigliare senza scampo. La sua testa cadrebbe pesantemente sul banco, se la sua noia, anziché ripetere sempre lo stesso mondo, come accade per la maestra, non ne invocasse l'esistenza di un altro. Lo sguardo del bambino si stacca dal banco e dai suoi quaderni, dalla lavagna tetra e dallo sguardo vuoto della maestra per rivolgersi finalmente Altrove. Dove? Fuori, via da lì, all'aperto, verso un altro mondo, Altrove; verso il glicine viola, il campo di calcio, la bambina che cammina con la sua veste rossa per strada, la neve che copiosa scende sul cortile. Non è forse questa la lezione più positiva della noia? La noia del bambino è sempre una rivolta, una attesa, una preghiera.

Articolo di Bernard Henry-Levy sui fatti di Parigi


Articolo di Bernard Henry-Levy sui fatti di Parigi, apparso oggi, 16/11/2015, sul Corriere della Sera

Commento “forte”, provocatorio, in linea con lo stile di Henry-Levy, ma sicuramente una voce diversa che, con innegabile intelligenza e sostanza, pone questioni su cui riflettere, magari per non condividere

Ebbene, la guerra. Una guerra di nuovo tipo. Una guerra con e senza frontiere, con e senza Stato, una guerra due volte nuova perché mescola il modello deterritorializzato di Al Qaeda e il vecchio paradigma territoriale al quale l’Isis è tornato. Ma comunque una guerra.
Di fronte a una guerra che né gli Stati Uniti né l’Egitto né il Libano né la Turchia né oggi la Francia hanno voluto, una sola domanda è valida: che fare? Come rispondere e vincere, quando questo tipo di guerra vi cade addosso? Prima legge. Dare un nome. Dire pane al pane, vino al vino. E osare formulare la terribile parola «guerra» che ha la vocazione, quasi la proprietà e, in fondo, la nobiltà e al tempo stesso la debolezza di essere respinta dalle democrazie oltre i limiti delle loro facoltà, dei loro punti di riferimento immaginari, simbolici e reali. Siamo a questo punto. Pensare l’impensabile della guerra. Accettare quell’ossimoro che è l’idea di una Repubblica moderna costretta a combattere per salvarsi. E pensarlo con tanta più pena in quanto nessuna fra le regole stabilite, da Tucidide a Clausewitz ai teorici della guerra, sembra applicarsi a questo Stato fantoccio che porta il conflitto tanto più lontano in quanto i suoi fronti sono incerti e i suoi combattenti hanno il vantaggio strategico di non fare alcuna differenza fra ciò che noi chiamiamo vita e ciò che loro chiamano morte.Le autorità francesi l’hanno capito, al livello più alto. La classe politica, unanime, ha avallato il loro gesto. Restiamo noi, il corpo sociale nel suo insieme e nel suo dettaglio: ciascuno di noi che, ogni volta, è un bersaglio, un fronte, un soldato senza saperlo, un focolaio di resistenza, un punto di mobilitazione e di fragilità biopolitica. È sconfortante, è atroce, ma è così e occorre urgentemente prenderne atto.
Secondo principio. Il nemico. Chi dice guerra dice nemico. E il nemico bisogna trattarlo non solo come tale, cioè (lezione di Carl Schmitt) come una figura con cui si può, secondo la tattica adottata, giocare d’astuzia, fingere di dialogare, lottare senza parlare, in nessun caso transigere, ma soprattutto (lezione di Sant’Agostino, di San Tommaso e di tutti i teorici della guerra giusta) bisogna dargli il suo nome vero e preciso. Questo nome non è il «terrorismo». Non è una dispersione di «lupi solitari» o di «squilibrati». Quanto all’eterna cultura della giustificazione che ci presenta gli squadroni della morte come gente umiliata, ridotta allo stremo da una società iniqua e costretta dalla miseria a uccidere dei giovani il cui unico crimine è di aver amato il rock, il football o la frescura di una notte autunnale in un bar, è un insulto alla miseria non meno che alle vittime. No. Gli uomini che ce l’hanno con il dolce vivere e con la libertà di comportamento cara alle grandi metropoli, i mascalzoni che odiano lo spirito delle città come - è infatti la stessa cosa - lo spirito delle leggi, del diritto e della gradevole autonomia degli individui liberati dalle vecchie sudditanze, gli incolti cui bisognerebbe contrapporre, se non fossero loro estranee, le così belle parole di Victor Hugo quando gridava, durante i massacri della Comune, che prendersela con Parigi è più che prendersela con la Francia, perché significa distruggere il mondo: costoro conviene chiamarli fascisti. O meglio: islamo-fascisti. Meglio ancora: il frutto di un punto di incrocio che un altro scrittore, Paul Claudel, vede prospettarsi quando il 21 maggio 1935 nel suo Diario scrive, in uno di quei lampi di genio di cui solo i grandissimi hanno il segreto: «Discorso di Hitler? Si sta creando al centro dell’Europa una sorta di islamismo...».
Il vantaggio dell’atto di nominare? Mettere il cursore dove conviene. Ricordare che con questo tipo di avversario la guerra deve essere senza tregua e senza pietà. Poi, costringere ciascuno, dappertutto, cioè nel mondo arabo-musulmano come nel resto del pianeta, a dire perché combatte, con chi, contro chi.
Questo non significa naturalmente che l’Islam abbia, più di altre formazioni discorsive, una qualche affinità con il peggio. E l’urgenza di questa lotta non deve distrarci dalla seconda battaglia, essenziale, anche vitale, che è quella per l’altro Islam, per l’Islam dei Lumi, per l’Islam in cui si riconoscono gli eredi di Massud, di Izetbegovic, del bengalese Mujibur Rahman, dei nazionalisti curdi o di un sultano del Marocco che fece l’eroica scelta di salvare, contro il regime di Vichy, gli ebrei del suo regno. Ma ciò vuol dire due cose, o piuttosto tre. Innanzitutto, che le terre dell’Islam sono le uniche al mondo dove - poiché si reputa che la tormenta fascista degli anni Trenta non abbia oltrepassato il perimetro dell’Europa - ci si è dispensati dal fare il lavoro di memoria e di lutto che hanno compiuto i tedeschi, i francesi, gli europei in generale, i giapponesi.In seguito, che bisogna far apparire nettamente la separazione decisiva, primordiale, che contrappone le due visioni dell’Islam impegnate in una guerra mortale e che è, tutto considerato, e se si vuole mantenere assolutamente l’uso della formula, la sola guerra di civiltà che valga la pena.
Infine, che la linea lungo la quale si affrontano gli affiliati di un Tariq Ramadan e gli amici del grande Abdelhawahb Meddeb, la verifica su ciò che, da un lato, può in effetti alimentare il «Viva la muerte» dei nuovi nichilisti e, dall’altro, del tipo di lavoro ideologico, testuale e spirituale che basterebbe a scongiurare il ritorno o l’entrata dei fantasmi, tutto questo deve essere prioritariamente opera degli stessi musulmani. Conosco l’obiezione. Sento già i benpensanti gridare che il fatto di invitare bravi cittadini a dissociarsi da un crimine che non hanno commesso significa supporli complici e, dunque, stigmatizzarli. Invece no. Infatti, quel «non in nostro nome» che aspettiamo dai nostri concittadini musulmani era quello degli israeliani che si dissociavano, quindici anni fa, dalla politica in Cisgiordania del loro governo. Era quello delle folle di americani che nel 2003 rifiutavano l’assurda guerra in Iraq. Era il grido, più recentemente, di tutti i britannici, fedeli o semplici lettori del Corano, i quali si addossarono la responsabilità di proclamare che esiste un altro Islam - dolce, misericordioso, amante di tolleranza e di pace - rispetto a quello nel cui nome si poteva pugnalare un militare in mezzo a una strada. È un bel grido. È un bel gesto. Ma soprattutto è il gesto semplice, di una buona guerra, che consiste nell’isolare il nemico, staccarlo dalle sue retrovie e far sì che non si senta più come un pesce nell’acqua in una comunità di cui, in realtà, egli è la vergogna. Infatti, chi dice guerra dice ancora, inevitabilmente, identificazione, emarginazione e, se possibile, neutralizzazione di quella parte del campo avverso che opera sul suolo nazionale. È quel che fa Churchill mettendo in prigione, quando la Gran Bretagna entra in guerra, oltre duemila persone, talvolta molto vicine a lui, come un suo cugino, numero due del partito fascista inglese, Geo Pitt-Rivers, che egli considera nemici interni. Ed è, fatte le debite proporzioni, quello che bisogna decidersi a fare bloccando, per esempio, i predicatori di odio; sorvegliando ancora più da vicino le migliaia di individui schedati «S», cioè sospetti di jihadismo; o convincendo i social network americani a non lasciare che gli appelli all’omicidio kamikaze prosperino all’ombra del primo emendamento.
Il gesto è delicato. È sempre sull’orlo della legislazione d’eccezione. Per questo è essenziale non cedere né sul diritto né sul dovere di ospitalità che si impone, più che mai, di fronte all’ondata di rifugiati siriani in fuga, giustamente, dal terrore islamo-fascista.
Continuare a ricevere i migranti e nello stesso tempo rendere inoffensivo il più gran numero di cellule pronte a uccidere... Accogliere a braccia aperte chi fugge dall’Isis e contemporaneamente essere implacabili con quelli fra loro che traessero vantaggio dalla nostra fedeltà ai nostri principi per infiltrarsi in terra di missione e commettervi i loro misfatti... Non è contraddittorio. È l’unico modo, innanzitutto, per non offrire al nemico la vittoria che si aspetta, cioè di vederci rinunciare al modo di vivere insieme, aperto, generoso, che caratterizza le nostre democrazie. Ed è, lo ripeto, il modo di procedere inerente a ogni guerra giusta che consiste nel non lasciare amalgamare ciò che ha vocazione ad essere diviso; e nella circostanza mostrare alla grande maggioranza dei musulmani di Francia che non solo sono nostri alleati, ma fratelli concittadini. Poi, l’essenziale. La vera fonte di questo orrore dilagante. Lo Stato islamico che occupa un terzo abbondante della Siria e dell’Iraq e che offre agli artificieri dei possibili, futuri teatri Bataclan le retrovie, i centri di comando, i campi di addestramento. È come un tempo a Sarajevo, come all’epoca in cui i sedicenti esperti agitavano lo spettro di centinaia di migliaia di soldati che si sarebbero dovuti impiegare sul terreno per impedire la pulizia etnica, mentre in realtà basteranno, giunto il momento, poche forze speciali e qualche attacco aereo: sono convinto che le orde dell’Isis siano molto più coraggiose quando si tratta di far saltare il cervello a giovani parigini inermi rispetto a quando bisogna affrontare veri soldati della libertà, e penso dunque che la comunità internazionale si trovi di fronte a una minaccia che, se lo vuole, ha tutti i mezzi per fermare. Perché non lo fa? Perché dosare tanto meschinamente il nostro aiuto agli alleati curdi? E quale è la strana guerra che l’America di Barack Obama per ora non sembra voler davvero vincere? Lo ignoro. Ma so che la chiave del problema è qui. E che l’alternativa è chiara: «no boots on their ground» equivale a «more blood on our ground».

domenica 15 novembre 2015

Bizzarrie editoriali (accostamenti schizofrenici ed emblematici)

La Repubblica
di Domenica 15 Novembre 2015


Difficile evitare un moto di sbalordimento: lette con il dovuto coinvolgimento le venticinque pagine, giustamente dedicate ai drammatici e sconvolgenti avvenimenti parigini, che raccontano, commentano, riflettono e fanno riflettere, aprono e riaprono scenari che impongono, oltre alle indispensabili considerazioni politiche e culturali, di rivedere sotto una luce diversa stili di vita, i nostri standard esistenziali, poche pagine dopo ci si imbatte in un articolo di Massimo Recalcati dal titolo “Elogio della noia”, che affronta, in modo peraltro interessante, il diffondersi nel nostro mondo occidentale dell’antico sentimento dell’accidia, del distacco emotivo da quanto si vive.

Bizzarria editoriale, forse. Ma diventa, quand’anche non voluto, un ottimo spunto di riflessione in più, in diverse direzioni. Provate, proviamo, a individuarne qualcuna. Ad esempio: ma la noia, questa noia occidentale, non è forse un lusso che non possiamo più concederci?

 

venerdì 13 novembre 2015

I difficili percorsi della migrazione - Claudio Vercelli

I difficili percorsi della migrazione
             Claudio Vercelli


Il contesto 1
• Crescita numero di persone che vivono in un paese diverso da quello di origine: 154 milioni nel 1990, 232 milioni nel 2013 (3,2% della popolazione mondiale)
• Paesi a maggiore ricezione: Usa e Federazione russa (Italia all’undicesimo posto)

Il contesto 2
• I profughi – fuggitivi dai luoghi di origine – erano circa 60 milioni nel 2014 (40 milioni nel
2000); 8,3 milioni in più rispetto al 2013
• Gli apolidi sono stimati  in 10 milioni
• I rifugiati politici sono 14 milioni
• I “rifugiati ecologici” sono 50 milioni

Il contesto 3
• In Europa la pressioni immigratoria si è così articolata:
• Anni Ottanta: 5,3 milioni di immigrati
• Anni Novanta: 9,6 milioni di immigrati
• Primo decennio del Duemila: 18,7 milioni di immigrati
• Si è passati, nell'incidenza sulle popolazioni autoctone, dal 6,8% del 1990 al 9,8% del 2013
Il convitato di pietra: la quarta globalizzazione?
• Nel 1950 i turisti oltre frontiera nel mondo erano 25 milioni, nel 2013 erano 1,1 miliardi e nel 2030 si calcola diventino 1,8 miliardi
• Nel 1990 i cinesi che viaggiavano fuori dal paese erano circa un milione, nel 2013 cento volte tanto
• Nel 2015 tre miliardi di persone (41% popolazione mondiale) utilizza il Web; 2,1 miliardi (29%) un social network; 3,6 miliardi (51%) ha un cellulare

I termini 1
• È migrante colui che lascia il suo luogo di origine sulla base di un progetto di trasformazione delle proprie condizioni di vita
• Fattori “push” (spinta): scelta volontaria e/o elementi oggettivi provocato da cause esterne (pestilenze, guerre, carestie, disoccupazione)

I termini 2
• È pròfugo. [dal lat. profŭgus, der. di profugĕre «cercare scampo», comp. di pro-e fugĕre «fuggire»] la persona costretta ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi
I termini 3
• È rifugiato l’individuo che, per ragioni essenzialmente politiche, ma anche economiche e sociali, è costretto ad abbandonare lo Stato di cui è cittadino e dove risiede, per cercare rifugio in uno Stato straniero.
• Esistono i “rifugiati in orbita” > ossia gli itineranti permanenti poiché non accolti Così come esistono gli Internal Displaced Persons, persone costrette a fuggire senza potere espatriare
Questioni importanti
• È migrante chi lascia la sua terra d'origine, non solo chi abbandona lo Stato-nazione di nascita (migrazioni interne ed esterne)
• La migrazione è sempre un fenomeno selettivo, che annuncia un'incipiente modernizzazione del paese che si lascia,  piuttosto che essere causata solo da un cronico sottosviluppo
• La selettività riguarda il fatto che partono quanti hanno le risorse per farlo (età, salute, istruzione, denaro), non la parte restante della popolazione
• L'emigrazione si accompagna sempre a momenti di transizione e a congiunture critiche che cambiano i paesi d'origine ma anche quelli di accoglienza
• La migrazione segna l'integrazione dei paesi di origine e di approdo nelle traiettorie della globalizzazione
• L'immigrazione irregolare (= fuori dalle norme di legge previste, non necessariamente clandestina e/o criminale) deriva da più fattori tra i quali:
1. quadro normativo nazionale e continentale incoerente
2. rete delle organizzazioni criminali specializzate nel “commercio di persone”
3. diffusione economia sommersa, irregolare, informale > precarizzazione e destrutturazione rapporti di lavoro > accettazione “culturale” del lavoro nero

Il contesto 4
• La direttrice di flusso Sud-Nord costituisce un terzo delle migrazioni globali
• Ma > a ricevere la grande massa di migranti/rifugiati/profughi sono per l’86% i Paesi in via di sviluppo (PVS). Di essi, i più poveri raccolgono un quarto delle migrazioni.
• In sostanza: i flussi migratori riguardano essenzialmente i PVS

Il contesto 5
• Gli immigrati sono protagonisti della internazionalizzazione dell'economia > città globali (che incorporano funzioni strategiche per il funzionamento e il governo dell'economia globale) > li vedono come operatori ai massimi livelli o lavoratori di servizio, alla base della piramide sociale

Il contesto 6
• Il principale paese di ricezione è attualmente la Turchia (1,59 milioni, 2014), seguito da Pakistan,
Libano, Iran, Etiopia e Giordania
• I tre paesi che più facilmente abbandonati sono la Siria, l’Afghanistan e la Somalia
• I paesi che debbono sostenere l’onere maggiore e i pesi più robusti sono quelli confinari alle grandi aree di crisi

Il contesto 7
• L’esplosione delle migrazioni in massa ha una fondamentale radice geopolitica: la
decomposizione degli Stati postcoloniali tra Medio Oriente e Africa e l’Europa sud-orientale
• Gli epicentri sono la Siria, l’Iraq, l’area del Sahel e l’Ucraina orientale insieme alle zone caucasiche

Le questioni 1
• Italia > transizione migratoria, da nazione di origine a paese di destinazione
• Mancanza di politiche di sostegno alla natalità
• Tasso di natalità stranieri = 2,06%
• Tasso di crescita naturale stranieri = 10,6%
• Tasso di natalità italiani autoctoni = 0,89%
• Tasso di crecita naturale autoctoni = - 0,9%
• Tasso di mortalità stranieri = 0,12%
• Tasso di mortalità italiani = 0,99%

Le questioni 2
• Con il XXI secolo straordinaria accelerazione della mobilità
• È in atto una nuova immigrazione > globalizzazione dal basso
• Tre globalizzazioni storiche.
• 1. XV-XVIII secc., avvio colonizzazione Americhe + schiavismo;
• 2. seconda metà Ottocento > migrazione Europa-Americhe;
• 3. Africa e Asia verso Europa e Stati Uniti

Le questioni 3
• Labour Migrations > UE
• I saldi migratori positivi costituiscono la componente più significativa dell'evoluzione demografica continentale
• Si è creata una condizione di multiculturalismo de facto
• Cosa implica ciò?
• Paesi d'origine < > diaspore
• Paesi d'arrivo < > mutamento composizione socio-demografica
Le questioni 3 bis
• La variabile demografica > Europa vecchia, Mediterraneo e Medio Oriente giovani (pochi giovani, molti anziani)
• Trend di crescita popolazioni autoctone e allogene:
• 1945-1980, la popolazione continentale (Russia compresa) cresce del 33%, da 524 a 695 milioni con un saldo migratorio in parità;
• 1981-2015, la crescita è solo del 7% (siamo a 743 milioni), con 40 milioni di immigrati (saldo positivo)
• Previsioni: 2015-2050, previsione di decrescita al -12% (87 milioni in meno) senza nuova immigrazione
Le questioni 3 tris
• La variabile demografica > è preferibile una tregua demografica? Il problema è lo scompenso tra classi di età!
• Nel periodo 1980-2015: il 7% della crescita è così composto:
+21% della popolazione tra i 30 e i 60 anni
+58% della popolazione con più di 60 anni
-22% della popolazione sotto i 30 anni
• Cosa comporta ciò, in prospettiva? Robuste domande di servizi, scarsità di produttori
E ancora...
La variabile demografica > tra il 2015 e il 2050,  la popolazione tedesca autoctona declinerebbe del 18%, quella nigeriana aumenterà del 141% Per la fascia di età tra 20-40 anni, il mutamento sarebbe rispettivamente del -25% e del +167%!

Le questioni 4
• Le migrazioni sono un intreccio tra:
1. strategie di emancipazione individuale e familiare;
2. fattori di attrazione presenti nei paesi di destinazione
3. meccanismi di richiamo basati sulle catene migratorie
4. obiettivi (dichiarati o celati) delle politiche di mobilità promosse dai paesi d'origine e di approdo
5. attività delle “industrie dell'emigrazione” (legali e illegali) che ne agevolano l'evoluzione e ne indirizzano la natura e le modalità

Le questioni 5
• Femminilizzazione delle migrazioni deriva da:
1. incremento presenza donne nei mercati del lavoro
2. strategie individuali di emancipazione
3. nuova divisione internazionale del mercato del lavoro riproduttivo:
4. aumento mercato privato dei servizi alla famiglia e revisione dei regimi di Welfare
5. aumento età media nei PSA > ricerca di aiuto familiare

Le questioni 6
• Elevata incidenza della componente ad alta qualificazione nell'esodo dai luoghi di origine ma:
• Ricezione nel mercato del lavoro nazionale attraverso processi di demansionamento e mancato riconoscimento delle competenze
• Concentrazione del fabbisogno ai livelli più bassi delle gerarchie occupazioni
• Uso degli immigrati per la disarticolazione dei mercati del lavoro e la riduzione delle tutele > concorrenza tra i diversi segmenti
• Effetto di “brutalizzazione” dell'immagine dell'immigrato > è incompetente, incapace, meno curato ecc. > etichettamento e stigmatizzazione

Le questioni 6 bis
• Trasformazione del mercato del lavoro nelle società postfordiste
• Etnicizzazione di alcuni settori (due movimenti:
addensamento di manodopera in settori tradizionali come l'edilizia e le PMI + imprenditorialità etnica (da fattore di mobilità/ascesa sociale a risposta alla riorganizzazione della produzione e al ricorso sistematico all'outsourcing)
• Espansione del terziario di servizio a bassa qualifica > dovuto ai processi di gentrificazione dei quartieri urbani > Service Society > domande e consumi soddisfatti da immigrati

La gentrificazione
In sociologia il termine gentrificazione (adattamento della parola inglese gentrification, derivante da "gentry", ossia la piccola nobiltà inglese e in seguito la borghesia o classe media), indica l'insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un'area urbana, tradizionalmente popolare o abitata dalla classe operaia, risultanti dall'acquisto di immobili da parte di popolazione benestante.
«La gentrification [consiste] in un processo complesso, o un assieme di processi, che comporta il miglioramento fisico del patrimonio immobiliare, il cambiamento della gestione abitativa da affitto a proprietà, l'ascesa dei prezzi, e l'allontanamento o sostituzione della popolazione operaia esistente da parte delle classi medie».

Le questioni 6 tris
• Trasformazione del mercato del lavoro nelle società postfordiste
• Emergere di un nuovo segmento di consumatori composto dalle stesse comunità immigrate (es. phone centers)
• Imprenditori trasmigranti: doppia appartenenza come vantaggio competitivo > rete di relazioni endogamiche diasporiche
• Strategie di mercificazione dell'identità etnica e culturale > creare o intercettare bisogni nella popolazione autoctona > tipici di società metropolitane diversificate

Le questioni 6 quatēr
• Ancora sulle trasformazione del mercato del lavoro nelle società postfodiste
• Il rischio del dumping sociale per le fasce più deboli della popolazione autoctona > corsa al ribasso (compressione retributiva, deregolamentazione contrattuale e precarizzazione)
• Incremento vulnerabilità economica, sociale e culturale
• La variabile del razzismo> l'etnicizzazione delle relazioni sociali > non è la diversità ma la condivisione competitiva a creare reazioni pregiudiziose

Le questioni 7
• Pressione evolutiva non regolabile con gli ordinari strumenti per effetto di:
1. ricongiugimenti familiari e trasformazione dei lavoratori immigrati in “migranti di popolamento”
2. migrazione di carattere umanitario
3. “asilanti in nero”, non ufficialmente riconosciuti come tali ma tollerati
4. flusso delle rimesse e concorso al Pil nazionale
5. richieste delle imprese (legali e criminali, secondo norma o in deroga)

Le questioni 8
• Impatto immigrazione su tessuto sociale:
1. è dialettica demografica tra paesi anziani e paesi giovani
2. migrazione di carattere umanitario
3. “asilanti in nero”, non ufficialmente riconosciuti come tali ma tollerati
4. flusso delle rimesse e concorso al Pil nazionale
5. richieste delle imprese (legali e criminali, secondo norma o in deroga)

Le questioni 9
• Trasformazioni in popolazione d'insediamento: gli indici
1. nuovi nati e ricongiungimenti familiari
2. matrimoni contratti in Italia e mastimoni misti
3. acquisto abitazione in proprietà
4. inserimento scolastico e tasso di scolarizzazione
5. impatto su Welfare e sul sistema pensionistico
6. visibilità crescente negli spazi pubblici e mutamento della composizione urbana > city users
7. trasformazione mercato del lavoro

domenica 1 novembre 2015

La parola del mese - Novembre 2015

LA PAROLA DEL MESE
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

NOVEMBRE 2015

 DIALETTICA
 

DIALETTICA = termine di origine greca composto da dialektikos (dialogo) e technè (arte/tecnica)  

 
Dall’Enciclopedia on line TRECCANI………….
1. Arte del dialogare, del discutere, come tecnica e abilità di presentare gli argomenti adatti a dimostrare un assunto, a persuadere un interlocutore, a far trionfare il proprio punto di vista su quello dell’antagonista; con senso peggiorativo, modo sottile e capzioso di argomentare
2. Nel linguaggio filosofico, il termine ha avuto accezioni diverse, secondo le epoche e le scuole.
a. Nel pensiero antico, è in genere l’arte dialogica, come metodo di dimostrazione mediante brevi domande e risposte (adoperato da Socrate in contrapposizione ai lunghi discorsi dei sofisti). In Platone, è sia il processo interiore che conduce ai concetti più generali e ai principî primi della realtà intelligibile, sia l’arte di dividere le cose in generi e specie, di classificare in concetti per meglio progredire nell’analisi. In Aristotele, parte della logica, intermedia tra l’analitica e la retorica, che studia le forme argomentative imperfette, da cui si traggono conclusioni soltanto probabili e non rigorosamente necessarie.
b. Nel pensiero medievale, la dialettica s’identifica con la logica e diviene una delle arti del trivio, insieme con la grammatica e la retorica.
c. In Kant è la teoria degli errori naturali dello spirito umano, che si illude di poter determinare, sul solo fondamento di ragionamenti teorici, la natura dell’anima, del mondo e di Dio, e cade invece in inevitabili, inestricabili contraddizioni. Nell’idealismo post-kantiano, e per Hegel in particolare, la dialettica è la natura stessa del pensiero che si sviluppa secondo proprie leggi ma in modo conforme allo sviluppo della realtà anzi rappresentandone la struttura stessa; è quindi movimento e sviluppo che da un concetto astratto e limitato (affermazione o tesi) passa al suo opposto (negazione o antitesi) per giungere a una sintesi (negazione della negazione) che conserva elementi fondamentali dei precedenti e opposti momenti, i quali peraltro non sarebbero mere astrazioni concettuali bensì pensieri concreti, determinazioni storiche, effettive formazioni culturali, sociali, ecc. Nel pensiero di Marx tale movimento si specifica e si concretizza come sviluppo dell’antagonismo tra classi sociali contrapposte e come relazione di opposizione tra forze produttive e rapporti di produzione. In Croce, infine, si distingue una dialettica dei distinti, per cui lo spirito, secondo un processo circolare, passa da un grado all’altro senza annullare i precedenti, e una dialettica degli opposti che, nella sfera delle cose concrete, opera la sintesi della tesi e dell’antitesi.
3. Nel pensiero moderno, e anche nel linguaggio comune (in diretta connessione con le accezioni che il termine ha avuto nel pensiero filosofico), il processo risultante dalla lotta o dal contrasto di due forze o, più spesso, gioco di forze contrastanti che collidono e si ricompongono incessantemente: Il termine è inoltre usato (per es. nel linguaggio della critica) per indicare quell’argomentazione che giustappone idee opposte o contraddittorie e generalmente tende a far giungere tale conflitto a un qualche esito, che si presume necessario e inevitabile.
Breve aggiunta, tratta da Wikipedia, relativa al suo uso in Feud………..Anche in Freud si può dimostrare, se non l’esistenza di strutture dialettiche vere e proprie, una dialetticità di fondo. Come in Nietzsche, così anche in Freud, i concetti di base sono dinamici: in questo la psicoanalisi è fondamentalmente dialettica. Basti pensare alla complessità della psiche, di cui essa evidenzia le numerose istanze, spesso in conflitto fra loro; le due topiche, elaborate per risolvere tale complessità, possono essere interpretate come dialettiche di ‘sistemi’ Ma anche la teoria delle pulsioni, che Freud, nel corso della sua elaborazione teorica, ha modificato più volte, mantiene sempre una polarità. All'inizio egli ha parlato di pulsioni dell'Io o di autoconservazione, legate ai bisogni organici, e il cui prototipo è la fame, a cui si contrappongono le pulsioni sessuali, o libido. Con la scoperta del narcisismo, viene introdotta una nuova opposizione, interna alla libido, fra due orientamenti, quello narcisistico e quello oggettuale (nel primo caso la libido è rivolta verso il soggetto, nel secondo all'esterno, verso un oggetto). Vi è infine l'ultimo periodo, che vede contrapposti Eros e Thanatos, ossia la pulsione sessuale, o di vita, e la pulsione di morte (Todestrieb).