sabato 26 dicembre 2015

Breve guida per una lettura del Corano (a cura di Giancarlo Fagiano)

Segnalo la seguente guida alla lettura del Corano trovata nell'ambito di una ricerca in Rete sul tema. Seguono indicazioni anche queste reperite in Rete, nel sito IslamItalia, sulle edizioni in italiano del testo coranico. Sono ovviamente graditi altri consigli in grado di aiutare una lettura attenta e valutativa.

 
Il sacro testo del Corano. Storia, esegesi e teologia    (a cura del Centro Studi Francescani)
Per capire il significato storico, giuridico, teologico, religioso e culturale del Corano è conveniente lasciar parlare il testo stesso. Un bel numero di sure (i capitoli in cui il libro del Corano si divide, sono ben 114) lo presenta come il libro sacro che viene da Dio (cf. sure 3,4.7; 4,82; 6,114.155-157; 7,2; 18,1; 20,2-4; 21,50; 29,46-49; 32,2; 38,1-8; 40,2; 41,2.41-42; 42,17; 45,2; 46,2). In alcuni passi, poi, il sacro testo del Corano viene presentato come la “Madre del Libro”, cioè il prototipo (o meglio, in arabo, matrice) del Corano che è già presso Dio, quasi una sorta di Parola eterna che viene da Dio, l’Unico (cf. sure 13,39; 43,4; 56,77-78; 80,13-16; 85,21-22). Addirittura, si trovava già nei libri sacri degli antichi (cf. sura 26,196). Esso, infatti, conferma i libri precedenti, cioè l’AT e il NT (cf. sure 10,37; 12,111; 16,44).
Il Corano

martedì 22 dicembre 2015

"Violenza e Islam" - Libro di Adonis (consiglio di lettura di Giancarlo Fagiano)


Sollecitati, in modo purtroppo tragico, a meglio comprendere la cultura islamica molti di noi stanno, faticosamente, cercando voci, racconti, esperienze, storie, analisi che aiutino in questo percorso di conoscenza. Con non poche difficoltà: il mondo islamico è molto variegato, presenta intrecci e sovrapposizioni complicate, difficile, forse impossibile e metodologicamente sbagliato, tenere distinti gli aspetti storici, sociologici, culturali e religiosi. Appare in particolare evidente che non si può “capire” se non si riconosce alla religione dell’Islam il ruolo di perno centrale che indubitabilmente essa ricopre. Si impone quindi, assieme ad altri approfondimenti, uno sforzo di conoscenza dei fondamenti religiosi islamici, fatto coniugando il dovuto rispetto con obiettività laica di giudizio. Una sorta di fantasma, buono, aleggia nelle tante discussioni che, a vari livelli, si sono avviate in modo diffuso: l’Islam moderato. Il doveroso scrupolo di non identificare automaticamente pratiche e concezioni radicali con l’intero mondo islamico, in contrasto con alcune becere affermazioni strumentali, induce alla ricerca del conforto di testimonianze che attestino la consistenza, la diffusione, la validità, del cosiddetto Islam moderato. Una ricerca che, come la conoscenza più ampia di cui si è detto, deve prendere in considerazione situazioni ed elementi storici, culturali, sociali e politici. E, in coerenza con quanto sopra, convinzioni religiose. Occorre, in questo quadro, dare per scontata la presenza di voci discordanti, di analisi divergenti, di opinioni anche fortemente contrastanti. Potremmo anche qui, in questo blog, fornire qualche aiuto per questa ricerca. Personalmente, dopo altre letture troppo legate a risvolti immediati, propongo un agile libro che mi sta fornendo interessanti spunti di riflessione. Sto parlando di “Violenza ed Islam” di Adonis (in conversazione con Houria Abdelhouahed, psicanalista docente all’Università Paris Diderot) recentemente uscito per i titoli di Guanda. Adonis è da molti decenni considerato uno dei più grandi poeti viventi. Forse in una cultura come quella islamica così fortemente basata sulla “parola” la sensibilità di un poeta può essere un efficace filtro analitico. Peraltro non mancano ad Adonis profonde conoscenze da saggista che da sempre (vedi la brevissima nota che segue) lo fanno muovere con ruolo da protagonista nel mondo culturale arabo. E’ una lettura che consiglio e che, se ce ne sarà occasione, potrebbe aprire un dibattito in questa sede ed essere lo spunto per altri approfondimenti e altre letture

[Adonis,  poeta e saggista siriano, attivissimo nel dibattito politico-culturale, estetico e filosofico del mondo arabo, è tra i fondatori del gruppo Tammuzi (nome di una divinità babilonese) che punta alla rinascita culturale araba, rileggendone il patrimonio (sia quello islamico che quello del Vicino Oriente antico) in una chiave non nazionalistica o religiosa, ma di apertura alla modernità. (estratto sintetico da Wikipedia)]

sabato 12 dicembre 2015

Commenti a margine del seminario "Utopia e distopia, - Lettura ed interpretazione del libro di Paul Auster - Nel paese delle ultime cose" tenuto dal Prof. Gianluca Cuozzo


Un folto pubblico ha partecipato al seminario in cui il prof. Gianluca Cuozzo ci ha condotti, attraversando con appassionata competenza i territori a lui ugualmente congeniali della filosofia e della letteratura, ad individuare quel particolare confine, invisibile ma denso di assai concrete conseguenze, che sta fra l’utopia – intesa come slancio del pensiero umano che non presupponendo la realtà come un dato assoluto e immodificabile ci spinge ad andare oltre, figurandoci una diversa idea di mondo – e la distopia, sua controparte e complemento, che ci mostra le conseguenze potenzialmente esiziali di tendenze già avvertibili nel presente, ponendosi come specchio deformante il cui attraversamento ci consente di diventarne più consapevoli. Non a caso la copertina del romanzo distopico di Paul Auster, che il prof. Cuozzo ha scelto per illustrare la tensione inesausta fra queste due polarità di un medesimo slancio ideale inteso a porre rimedio ad una realtà avvertita come ingiusta e destinata all’implosione, rappresenta con un chiaro intento allegorico un occhio femminile che guarda attraverso una piccola fessura circolare. Davvero stretto è infatti il passaggio da quella che chiamiamo realtà al suo controcanto distopico, e richiede dunque per individuarlo uno sguardo attento agli snodi critici della contemporaneità. Nel romanzo l’occhio che guarda è quello di una giovane donna, Anna Blume, protagonista di un viaggio senza ritorno in una landa desolata che della città da cui lei è partita rappresenta solo più una spaventosa parvenza, quasi fosse la sua terribile Ombra: e in effetti Auster ce la rappresenta come la controparte notturna e luttuosa del mondo diurno della crescita indefinita e della produzione capitalistica, che sotto l’apparenza luccicante di quelle merci che sembrano rispondere ad una promessa di felicità senza fine tradisce in realtà questa stessa speranza di bene, perché ne ignora i costi ambientali e umani producendo a dismisura quegli scarti da cui noi spesso distogliamo lo sguardo, ma che la protagonista della storia è costretta ad incontrare senza possibilità di scampo. Di questi resti vive infatti quella che potremmo chiamare la Città della Distruzione, i cui abitanti sono costretti a muoversi all’interno di una equazione mortale in cui ogni tentativo di sopravvivere avvicina sempre più alla morte; un luogo in dissoluzione dove le cose via via scompaiono, e dopo le cose le parole per dirle così che diventa praticamente impossibile utilizzare quelle facoltà che ci rendono davvero “umani” e di cui si avvale ogni slancio utopico: la memoria, l’immaginazione, la capacità di comunicare e di stringere legami con gli altri… Pur tuttavia, ad uno sguardo più attento anche nel Paese delle ultime cose è ancora possibile ritrovarne un’eco in quei frammenti in cui Anna crede di scorgere a volte una nuova potenzialità di vita, oltre che in alcuni personaggi che sanno ancora narrare, attraverso gli oggetti di un tempo perduto, una storia che li comprenda. E’ proprio in queste forme residuali che secondo il prof. Cuozzo noi possiamo intravedere, uscendo dalla finzione letteraria, la possibilità di un nuovo corso del mondo, cogliendo in esse quanto resta di senso, tornando a quegli snodi della nostra civiltà in cui altre scelte potevano essere compiute, usando tutte le risorse della memoria e dell’immaginazione per farne emergere una visione emancipatrice che defatalizzi lo spazio angusto del presente. Solo così, a suo giudizio, potremo risvegliare quella tensione utopica indirizzata verso un nuovo divenire dell’uomo nella storia e un nuovo abitare la terra secondo la prospettiva dell’ecosofia, attenta all’uomo come al cosmo. E’ con indicazioni di speranza dunque che si è concluso un intervento di grande spessore concettuale e di forte impatto emotivo, in cui il prof. Cuozzo ha davvero attivato per noi tutte le risorse dell’immaginazione, facendo spazio ad un ampio ventaglio di suggestioni letterarie e cinematografiche che hanno appassionato tanto il pubblico adulto che gli studenti del Liceo Pascal di Giaveno.

Commenti a margine del seminario "Franz Kafka, ai confini dell'umano" tenuto dal Prof. Gianluca Cuozzo


Numerose le persone che sono intervenute giovedì 3 Dicembre al seminario tenuto dal prof Cuozzo su Kafka; un grazie speciale va ai professori e ai tanti ragazzi dell’Istituto B. Pascal di Giaveno. Abbiamo già avuto modo di conoscere l’anno scorso il modo chiaro e appassionato con cui il prof. Cuozzo espone le proprie argomentazioni. Il relatore ha sottolineato l’attualità del testo di Kafka, la sua prosa infatti ci aiuta a comprendere il nostro mondo e quello che noi siamo. Kafka è un lettore attento alle trasformazioni della realtà a lui contemporanea (primi del 900) e non, come una certa critica corrente lo descrive, un inetto, una persona distante dal mondo. Kafka come politico, partecipò ai circoli anarchici di inizio secolo, denunciando la pandemia burocratica che pervadeva la società, il taylorismo, la trasformazione tecnologica e il conseguente controllo biopolitico sugli individui. W. Benjamin, riferendosi al mondo di Kafka, lo definisce come un mondo dove la legge vige senza significare, che comanda senza contenuto. Ancora oggi ci troviamo in questa situazione: i percorsi della burocrazia limitano il potere della nostra immaginazione, oggi più che mai infatti il concetto di utopia è totalmente assente dalle nostre vite. Il racconto ‘La metaformosi’ inizia in medias res, con il risveglio di un uomo qualunque che si ritrova trasformato in insetto. Sia il risveglio che l’insetto sono dimensioni di confine. Il primo é confine tra mondo onirico e mondo vigile sul quale ha presa la nostra coscienza. Il sonno e il sogno ci fanno regredire ad uno stadio pre-umano, regno degli istinti, e al risveglio dobbiamo essere prontissimi ad afferrare la nostra vita, quella che abbiamo lasciato la sera precedente. Il secondo, l’insetto, è il confine in cui la vita organica e la pura movenza meccanica si confondono: al risveglio Gregor Samsa si ritrova con delle gambette sulle quali la volontà non ha più alcuna autorità ma sono un meccanismo a sé stante, puramente reattivo. In questo insetto/meccanismo c’è un’assonanza con la fabbrica tayloristica. Infatti Gregor Samsa, risvegliandosi insetto, ha come prima preoccupazione quella di non potersi recare al lavoro e prova un forte senso di colpa! Il lavoro è percepito dal protagonista come una punizione, un castigo. E’ una colpa ereditata dal padre il quale ha contratto un debito con il suo datore di lavoro. Anche qui nuovamente i confini tra una responsabilità personale e una responsabilità generazionale. Il corpo di Gregor è l’oggetto dove tutto il disagio lascia una traccia indelebile: non vi è nessuna redenzione, nessuna salvezza è prevista, la morte é l'unica soluzione. Nella poetica kafkiana non c’è salvezza, la pena diventa espiazione ma senza redenzione, il mondo è per Kafka "l’esito di una cattiva giornata di Dio". Kafka intuisce che la società dei consumi, nella quale tutti siamo trasformati in macchine di produzione in perenne corsa contro il tempo, porta con sè una inevitabile rescissione dei legami vitali: se usciamo dalla catena di montaggio veniamo abbandonati a noi stessi, sotto la soglia dell'umano.

giovedì 10 dicembre 2015

La metafora della corsa - Thomas Hobbes


Thomas Hobbes (15881679) filosofo e matematico britannico, ricordato in particolare per l'opera di filosofia politicaLeviatano”.
 
Nella sua opera “Elementi di legge naturale e politica, I, IX, 21, pp. 75-76” per rappresentare la vita usa una metafora di straordinaria efficacia: una corsa, priva di meta e senza nessun premio in palio se non quello della soddisfazione di essere sempre davanti

 
Lo sforzarsi, è l’appetito.
Il mancar d’energie, è
la sensualità.
Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria.
Guardare quelli che stanno davanti, è
umiltà.
Il perdere terreno per guardarsi indietro, vanagloria.
L’essere trattenuti,
odio.
Tornare indietro, pentimento.
L’essere in fiato, speranza.
L’essere affaticato, disperazione.
Sforzarsi di superare chi sta immediatamente davanti,
emulazione.
Soppiantare o far cadere,
invidia.
Decidere di aprirsi a forza in un ostacolo visto davanti, coraggio.
Aprirsi a forza un varco in un ostacolo improvviso,
ira.
Aprirsi a forza un varco con facilità, magnanimità.
Perdere terreno per piccoli impedimenti,
pusillanimità.
Cadere all’improvviso, è disposizione al pianto.
Vedere un altro cadere, disposizione al riso.
Vedere sorpassato uno che non avremmo voluto, è
compassione.
Vedere uno, che non avremmo voluto, sorpassare gli altri, indignazione.
Seguir d’appresso un altro, è
amare.
Spingere colui che così segua d’appresso,
carità.
Farsi male per troppa furia, è vergogna.
Essere superato continuamente, è infelicità.
Superare continuamente quelli davanti, è felicità.
E abbandonare la pista, è morire.



sabato 5 dicembre 2015

Nel paese delle utlime cose - Libro di Paul Auster (presentazione di Enrica Gallo)


PAUL  AUSTER:

NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

 

L’AUTORE:

 Nato nel 1947 a Newark, nel New Jersey, da una famiglia ebrea benestante di origine polacca e austriaca, Paul Auster è non solo scrittore, saggista e poeta, ma anche sceneggiatore, regista, attore e produttore cinematografico, testimoniando in questa multiforme attività un costante impegno civile e politico.

Nell’ambito narrativo è considerato uno degli esponenti più importanti della letteratura americana contemporanea e viene ascritto, con Don De Lillo e Thomas Pynchon, al cosiddetto “postmodernismo”. Nei suoi romanzi, tesi ad esplorare le nevrosi e la solitudine dell’uomo contemporaneo, fonde spunti diversi che vanno dall’esistenzialismo alla psicanalisi, dalla letteratura gialla e poliziesca alle notazioni autobiografiche (ricordiamo fra gli altri la “Trilogia di New York”, la sua opera più famosa, “La musica del caso”, “L’invenzione della solitudine”, “Follie di Brooklyn”).

Oltre a collaborare alla sceneggiatura di film come “La musica del caso”, “Smoke” e “Blue in the face”, ha diretto personalmente “Lulu on the Bridge” e  “La vita interiore di Martin Frost”.

(N.B. = tratto da Vikipedia)

 IL LIBRO:

 “Nel paese delle ultime cose” è stato pubblicato nel 1987, a due anni di distanza dall’uscita de “La città di vetro” e quasi contemporaneamente alle altre due parti della “Trilogia di New York”, che ha lanciato Paul Auster sulla scena letteraria dopo una difficile gavetta.

Si tratta di un romanzo distopico*, in cui la protagonista, Anna Blume, racconta in prima persona e in forma epistolare la sua allucinante esperienza in un luogo di cui non vengono date precise indicazioni geografiche (nel testo si allude ad esso semplicemente come alla città, facendogli assumere una funzione metaforica, in coerenza con la natura del romanzo) e in cui è stata intrappolata senza speranza di poterne uscire. Da qui scrive ad un vecchio amico, pur sapendo non solo che la sua lettera difficilmente potrà pervenirgli, ma che quanto le è dato di vedere e di vivere gli risulterà presumibilmente incomprensibile. Troppo lontano e folle e disperato è infatti questo paese perché possa comprenderlo chi vive in un mondo normale, in gran parte ordinato e prevedibile – quello in cui lei stessa ha vissuto prima di imbarcarsi in questa folle avventura. Nondimeno scrive, senza sapere bene neanche lei perché lo fa e perché si è risolta a farlo in questo preciso momento. E’ passato ormai molto tempo da quando si trova in questo luogo, anche se non saprebbe dire quanto: non si può conservare la consapevolezza dei giorni e degli anni, nel paese delle ultime cose… Ma forse, dice, scrive perché è giusto che qualcuno sappia ciò che lì accade, e per non perdere del tutto quel poco di ragione che le resta. Davvero allucinante è in effetti  la storia che Anna racconta.

                                                                                                      

Appunti sparsi sulla DISTOPIA - a cura di Enrica Gallo


APPUNTI SPARSI SULLA DISTOPIA
 
                               

Che cosa intendiamo  quando parliamo di DISTOPIA
 

1. PRESENTAZIONE   (da Wikipedia)

 

ETIMOLOGIA E SIGNIFICATO:

Con il termine “distopia” (dal greco dis = cattivo e tòpos = luogo), coniato nel 1868 dal filosofo John Stuart Mill (un termine diverso ma con lo stesso significato, cacotopia, era già stato utilizzato nel 1818 dal filosofo Jeremy Bentham) si intende la descrizione  - in genere ambientata nel futuro, o in un presente che si è evoluto in modo diverso e peggiore di quello reale - di una società immaginaria altamente indesiderabile o spaventosa in cui alcune tendenze del presente sono esasperate e portate ad esiti negativi.

Viene dunque associato a termini come utopia negativa, antiutopia, controutopia, sebbene da punto di vista etimologico il termine “distopia” sia più precisamente opposto ad  “eutopia”, nel suo significato di “luogo eccellente”. In effetti, mentre nell’eutopia l’autore esprime le sue speranze su di un futuro positivo della società umana, indicando che un altro mondo  buono e giusto è possibile, nella distopia espone  invece i suoi timori sul futuro o critica i modi concreti in cui l’utopia realizzata si è presentata.

 

Appunti sparsi sull'UTOPIA - a cura di Enrica Gallo


APPUNTI SPARSI SULL’UTOPIA

 

Che cosa intendiamo  quando parliamo di    UTOPIA

 

1. PRESENTAZIONE (da Wikipedia)

 

ETIMOLOGIA:

Il termine “utopia” deriva dal nome immaginario di un paese ideale, descritto dal letterato e filosofo inglese Thomas More nel suo “Libellum… de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia” (1516). Si tratta di un neologismo formato con le voci greche (non) e tòpos (luogo): significherebbe pertanto “ luogo che non esiste”.

In questa parola peraltro è presente, fin dall’inizio, un gioco di parole con l’omofono inglese “eutopia”, derivato dal greco èu (buono) e tòpos (luogo). Nell’uso corrente i due significati si sono fusi, dando alla parola”utopia” il significato di un luogo buono e irraggiungibile (“l’ottimo luogo che non è in nessun luogo”)

SIGNIFICATO:

Secondo l’enciclopedia on line Treccani, con il termine “utopia” si intende la formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello. Il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia). Per estensione, il termine utopia indica un ideale, una speranza, un’aspirazione che non può avere attuazione.

Anche Wikipedia presenta questo termine nella doppia accezione cui abbiamo fatto cenno, e cioè  sia come punto di riferimento su cui orientare azioni pragmatiche praticabili sia come illusione e falso ideale. Utopista può dunque essere tanto colui che costruisce le sue preferenze e le sue scelte ideologiche esimendosi dal confronto con le dinamiche della realtà, quanto colui che indica un percorso ritenendolo auspicabile e perseguibile. Si fa inoltre presente che sebbene l’universalità non sia una componente essenziale del concetto, molte utopie presentano caratteri universalistici, anche se esistono utopie di natura settaria o comunque non inclusive.

martedì 1 dicembre 2015

La parola del mese - Dicembre 2015


LA PAROLA DEL MESE

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

DICEMBRE 2015


La (filosofia) teoretica
(dal greco theoréo, = "guardo", "osservo")

 
dal Vocabolario Treccani

1. ciò che appartiene o che si riferisce alla teoria o alla teoresi (accentuazione del carattere speculativo astratto)

2. Nella tradizione didattica universitaria, indica più specificamente la pertinenza ai fondamenti generali dottrinarî della scienza: è da un lato la filosofia della conoscenza, ma dall’altro anche una teoria generale della realtà, distinta sia dalla filosofia morale, o filosofia della pratica, sia dalla storia della filosofia.

 (da Wikipedia)……

La filosofia teoretica può in un certo senso essere definita la parte più generale della filosofia. È difficile dare una descrizione esatta dei principali problemi della filosofia teoretica, poiché qualunque descrizione di questo tipo già presuppone l'adesione e la formulazione di una ben precisa impostazione teoretica, come del resto qualsiasi tentativo di definire la filosofia e i suoi specifici settori. Certo è che l'altissimo livello di generalità della filosofia teoretica ha delle ricadute su tutte le altre "aree" della filosofia, perché è proprio essa ad occuparsi specificamente della definizione degli ambiti in cui esse si trovano ad operare, e dei metodi che esse devono adottare per risolvere i propri problemi specifici. In generale si può indicare che la filosofia teoretica si rivolge al tema fondamentale dei criteri della Conoscenza e a quelli della Filosofia della scienza anche se rispetto a questi due settori ha uno sguardo più generale. Inoltre è possibile dire che il compito primo, e tuttora ben lontano dall'esser portato a termine, della filosofia teoretica è definire l'oggetto della Filosofia e il metodo della sua ricerca. In questo senso è possibile differenziarla dalla Metafisica, la quale ha sin dall'inizio conosciuto una delimitazione ben precisa del suo ambito di applicazione. Potremmo quindi definire la filosofia teoretica una “filosofia della filosofia” o anche una "filosofia prima" (ancorché questo epiteto venga sovente ascritto all'opera Metafisica di Aristotele): infatti fa parte certamente dei suoi compiti trovare una caratterizzazione adeguata del concetto stesso di filosofia, di quali siano i suoi temi specifici e i suoi metodi. Ma proprio su questa caratterizzazione la comunità dei filosofi non ha mai raggiunto il benché minimo accordo, e anzi è oggi più che mai uno dei problemi più scottanti, sul quale vertono le discussioni. La filosofia va continuamente alla ricerca del proprio compito. Centrale per molti è il carattere metodologico della filosofia teoretica: essa è più un modo di affrontare certi problemi, un atteggiamento che un uomo assume nei confronti del mondo e di ciò che sappiamo di esso, più che un insieme consolidato di dottrine nelle quali credere, come la scienza naturale, la religione, il diritto o la critica artistica e letteraria. In realtà la migliore definizione che si possa dare di questa "disciplina filosofica" è l’esposizione di alcuni dei suoi principali problemi.

Ci sono due questioni centrali che definiscono la filosofia teoretica in senso moderno, le cui prime esposizioni possono trovarsi in autori come Cartesio; esse sono strettamente legate tra loro: la prima è "Qual è la struttura ultima della realtà?"; è la domanda della metafisica, ed una risposta positiva ad essa costituisce una ontologia - la seconda domanda riguarda la possibilità della conoscenza e può essere così formulata: "È possibile conoscere questa struttura ultima?", o anche "è possibile una conoscenza autentica, che non sia mera opinione ma scienza?". È la domanda della teoria della conoscenza, o gnoseologia