lunedì 12 dicembre 2016

Storia naturale della post-verità - Articolo di Mario Pireddu – DoppioZero Blog

Con riferimento alla "Parola del mese" - BUFALA - abbiamo ricevuto da Tissia la segnalazione di un interessante articolo sul tema. Ringraziamo Tissia per il suggerimento e pubblichiamo come post (troppo lungo per essere un commento) l'articolo di Mario Pireddu (Docente di Scienza della Comunicazione - Università Roma Tre)

Storia naturale della post-verità
Articolo di Mario Pireddu – DoppioZero Blog

“Le verità vere sono quelle che si possono inventare”, scriveva Karl Kraus circa un secolo fa. Lo scrittore e polemista austriaco, celebre anche per i suoi aforismi, amava dire che chi esagera ha buone probabilità di venir sospettato di dire la verità, e chi inventa addirittura di passare per ben informato. Più o meno nello stesso periodo, lo scrittore anarchico statunitense Ambrose Bierce definiva così il termine verità nel suo splendido Dizionario del diavolo: “ingegnoso miscuglio di apparenze e utopia”. Veritiero nel libro di Bierce equivale così a “ottuso, stolto, analfabeta”. Con tutt’altro approccio, nel 1967 Guy Debord scriveva che “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”. Il filosofo Baudrillard, riprendendo il Qōhelet, ci ha informati invece della scomparsa della realtà, sostituita dalla realtà dei simulacri. Nel corso della nostra lunga storia europea siamo stati messi in guardia più volte sui pericoli della manipolazione del senso comune, delle verità e delle informazioni di qualsiasi tipo. La notizia più recente riguarda però l’elezione di “post-truth” (post verità) a parola dell’anno per l’Oxford Dictionary: dopo un lungo dibattito la scelta è caduta su post-verità come termine che definisce le circostanze in cui, per la formazione dell’opinione pubblica, i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli all’emozione e alle convinzioni personali. Tra le motivazioni della scelta vi è l’elevata frequenza d’uso del termine nell’ultimo anno, con particolare riferimento al referendum britannico sulla Brexit e alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Da qui l’uso più frequente del termine nell’accezione di post-truth politics, passata in brevissimo tempo a essere usata senza più bisogno di spiegazioni o definizioni chiarificatrici. È lo stesso Oxford Dictionary a ricordare che il concetto di post-truth esiste da tempo, e l’origine viene fatta risalire a un saggio pubblicato nel 1992 sul magazine The Nation dal drammaturgo serbo-americano Steve Tesich. In quel testo, riporta il sito dell’Oxford Dictionary, l’autore faceva riferimento allo scandalo Iran-Contra di qualche anno prima e ai traffici illegali di armi tra gli Stati Uniti e l’Iran, e arrivava a prendere atto di una generale “libera scelta di vivere in una sorta di mondo della post-verità”. Se si cerca “post-truth” nel Ngram Viewer, strumento messo a disposizione da Google per effettuare ricerche testuali all’interno dell’enorme database di libri digitalizzati di cui l’azienda dispone, si nota che il termine compare già dal 1988.L’Oxford Dictionary avverte però che l’uso del termine nella nuova accezione  la verità diventa irrilevante, e non quindi “in seguito alla scoperta della verità” – è attestato solo a partire dal saggio di Tesich, e in particolar modo dopo la pubblicazione del libro The Post-truth Era di Ralph Keyes, nel 2004. La maggior parte dei commentatori che nelle ultime settimane ha scelto di utilizzare il concetto di post-truth senza troppe esitazioni lo ha fatto sottolineando il ruolo dei social media e in particolare dei social network nella diffusione di fake news (notizie finte/false ovvero bufale). In sintesi, la tesi prevalente è la seguente: siamo in un mondo che non distingue più il vero dal falso, e le notizie false si diffondono grazie ai social media. Lo ha sostenuto a modo suo e in più occasioni anche Barack Obama, che pure fu tra i primi a fare uso politico intenso dei social media, attribuendo ai media digitali la creazione di un mondo dove “tutto è vero e niente è vero”. A preoccupare Obama e molti altri è il ruolo dei siti di “bufale” a sfondo anche politico e dei bot che su Twitter e altri ambienti ne hanno favorito la diffusione. David Simas, il political director della Casa Bianca, spinge l’analisi più in là e sostiene che attraverso i social network ora ci siano una tolleranza e persino una accettazione prima impensabili nei confronti dei discorsi portati avanti da Donald Trump. Dunque, e in sintesi, saremmo davanti a diversi problemi: da una parte i social media che creano ecosistemi informativi “meno veritieri”, dall’altra l’accettazione sociale di ciò che prima era in qualche modo tenuto ai margini. A sostegno della prima tesi diversi commentatori aggiungono il riferimento alla teoria delle echo chambers (lett. camere dell'eco), gli spazi chiusi e autoreferenziali a cui darebbero vita i social media spingendoci ad avere a che fare soltanto con persone che la pensano come noi. Teoria affascinante e che richiama quella delle cosiddette filter bubble (bolla filtro), ovvero gli ecosistemi di informazione personali soddisfatti da algoritmi che non ci esporrebbero a punti di vista conflittuali – e che ci isolerebbero appunto in personali bolle di informazioni. A una analisi più attenta, però, il fascino di queste teorie cede il passo a considerazioni più approfondite: la teoria delle camere dell’eco sarebbe per molti analisti essa stessa “post-fattuale” e non supportata dai dati, così come la teoria delle filter bubble sarebbe costruita intorno a una rappresentazione ideale distante dalle pratiche reali. Da una recente ricerca del Pew Research Center sul rapporto tra discussione politica e social media negli Stati Uniti emerge infatti un quadro più complesso: gli utenti, invece di restare chiusi in spazi autoreferenziali privi di differenze, incontrano costantemente contenuti politici con cui sono in disaccordo, e soltanto una minima parte dichiara di essere connessa con persone dalle opinioni simili. Ci sono utenti che filtrano e bloccano contatti per via delle differenze politiche (il che, se da una parte potrebbe spingere a pensare alle camere dell’eco, dimostra anche che l’automatismo degli algoritmi evidentemente non funziona così bene), e utenti che arrivano a cambiare posizioni politiche in seguito a interazioni con altre persone sui social media. Quel che emerge dalle ricerche più recenti è dunque l’aumentata disponibilità di tutte le informazioni e le argomentazioni di tutte le parti politiche. Se qualcosa di simile alle camere dell’eco esiste, è probabile che abbia un qualche effetto unicamente per quel che riguarda le posizioni politiche più estreme, e in singoli ambienti mediali più che per il complesso dei social media. Difficile insomma che un attivista gay nero abbia un ruolo in un forum di suprematisti bianchi, o che un ateo possa essere bene accolto in un gruppo facebook di creazionisti cristiani. Qualcosa di molto simile a quel che avveniva prima dei social media.Insomma, dietro queste teorie si cela ancora una volta un’idea distorta e in qualche modo determinista dei media digitali: lungi dall’essere un luogo di democrazia e uguaglianza (ma perché mai avrebbero dovuto esserlo?), gli spazi delle reti creano isolamento, assenza di confronto e una realtà post-fattuale. Se però a essere post-fattuale – o, meglio, poco fondato sui fatti – è il determinismo di questo tipo di teorie, cosa cambia realmente con l’utilizzo diffuso dei social media? C’è un qualche scarto rispetto alla società dei mass media, che sappiamo con ragionevole certezza non essere stata una società della verità informativa? O rispetto a quelle che l’hanno preceduta? E dato che pare fondato non ritenere che papato e monarchie assolute garantissero maggiore diffusione della verità, è possibile stabilire il grado di verità delle società nella storia? Chi oggi lamenta un ingresso nella post-truth politics compie un’operazione evidentemente nostalgica di revisionismo storico, attribuendo agli ecosistemi informativi precedenti la capacità di garantire un maggior grado di verità diffusa, e a quello attuale la sola propagazione delle notizie false. Il fatto è però che – così come accadde per la stampa e in generale per la democratizzazione di altri media – ad aumentare oggi è l’intero spettro delle possibilità comunicative. Il Digital News Report del Reuters Institute mostra come gli utenti dei social media utilizzino più fonti differenziate rispetto ai non utenti (e il ricordo va anche al singolo giornale che si acquistava la mattina per informarsi, o al telegiornale preferito). La quantità di notizie “vere” e verificate, fondate sui fatti, sulla scienza e sul debunking oggi disponibile era impensabile solo pochi anni fa. Se Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali (pur prendendo meno voti rispetto alla rivale Clinton, va ricordato), o se in Inghilterra la maggior parte dei votanti ha deciso di esprimersi per l’uscita dall’Europa non è “colpa di Internet” o dei social media. Sarebbe certamente più semplice ridurre tutto ai minimi denominatori e al ritrovamento di un capro espiatorio (oggi i social media, ieri i videogame, la tv, il cinema e persino i libri): ragionamenti più attenti ci portano però a dire che le ragioni per questo tipo di scelte dei cittadini – non tutti riducibili al ruolo di automi non pensanti – sono tante e hanno a che fare anche con economia, paure, immaginari di riferimento, percezione del ruolo delle élite, etc.  
Post-verità somiglia quindi alla reductio ad hitlerum delle discussioni in rete: quando qualcosa non ci piace, non riusciamo a capirla o non va come vorremmo, troviamo gli epiteti migliori per denigrarla in toto. Eppure, se si pensa alle ricerche portate avanti dagli psicologi sociali negli ultimi decenni, ci si accorge che la tendenza a ignorare i fatti, a non mettere in discussione i nostri pregiudizi e a non cambiare opinione anche davanti all’evidenza è riscontrata da tempo, e pare avere a che fare con il fatto che da sempre siamo esseri mossi dalle emozioni più che dalla ragione. Per provare a rispondere alle domande poste qualche riga più sopra, però, uno scarto tra il mondo dei mass media e quello attuale esiste ed è riscontrabile nella perdita di autorità delle istituzioni tradizionali che strutturavano la nostra vita sociale e politica: famiglia, chiese, partiti politici, sindacati, corporations. È quel che sostiene tra gli altri Francis Fukuyama quando parla di declino della fiducia: il facile accesso a spazi informativi online ha contribuito a rendere quelle istituzioni più trasparenti, e ora sempre più persone le apprezzano meno nonostante non siano cambiate poi molto. L’esempio che fa Fukuyama è quello degli omicidi commessi dalla polizia, diminuiti negli anni ma percepiti ora in maniera diversa perché il fenomeno è reso più visibile grazie alla produzione di video e contenuti digitali da parte di cittadini comuni. Lo riconosce anche l’Economist, pur con un approccio parzialmente sbilanciato sulla post-truth politics, nel sottolineare che il monopolio delle grandi istituzioni nel diffondere informazioni è stato seriamente intaccato. L’Accademia della Crusca, come da copione, gioca sulla lingua e parla di post-verità e “verità dei post”. C’è chi dice che una volta scomparsa l’autorevolezza chiunque si ritiene in grado di esprimere giudizi su qualunque tema, e da qui emergerebbero le post-verità. In realtà questo processo viene da lontano: qualche decennio fa i desideri e i bisogni dei singoli passavano in secondo piano rispetto a norme e a ruoli precostituiti, e gradualmente norme e ruoli sono diventati secondari rispetto all’affermazione di sé, al soddisfacimento di bisogni e alla realizzazione dei desideri. Ma quali sono le cause reali della perdita di autorevolezza delle agenzie tradizionali? Se pensiamo al giornalismo, per esempio, è possibile che un ruolo lo abbia avuto un modo di operare e delle routine non proprio consoni ai nobili principi ai quali dovrebbe ispirarsi? Se Repubblica pubblica come vera una notizia creata dal sito satirico Lercio, la responsabilità è dei social network? E se sulla home page dello stesso quotidiano viene pubblicata come vera la notizia di una dichiarazione di Trump contro la statua della libertà che è invece frutto della satira di un professore di giornalismo della Indiana University? Se il giornalismo intende realmente aggredire il problema delle fake news, dovrebbe partire da se stesso prima che dalla condanna dei social network e dei siti di bufale. È quanto sta provando a fare in Francia il quotidiano Le Monde ricercando una partnership con il Ministère de l'Éducation nationale, e in Italia lo staff di Valigia Blu con un lavoro eccezionale su metodi e approfondimenti che potrebbero essere utili per fare realmente la differenza. Jennifer Hochschid, studiosa di politiche governative a Harvard, rileva un parallelo tra la partigianeria dei media del XVIII e XIX secolo e di quelli attuali. Insomma, a tutt’oggi il principale risultato del dibattito sulle fake news sembra essere a sua volta una fake news, e se continuiamo così non riusciremo mai ad aggredire il problema. Allo stesso modo, c’è da stare attenti alle richieste di un controllo della verità da parte di soggetti come Facebook e Google: appaltare alle corporation la distinzione tra vero e falso non è forse la cosa migliore che possiamo fare, per giunta in epoca di mass surveillance. Mark Zuckerberg non usa il termine fake news ma parla di misinformation, e ha dichiarato che l’azienda che ha creato sta lavorando da tempo su questi problemi: chiedergli di diventare media company e dunque editore a tutti gli effetti e attore nella “prevenzione della menzogna” potrebbe però generarne altri ben più grandi, con conseguenze ben più difficili da gestire in termini di libertà informativa. Alcune possibili soluzioni arrivano da app esterne realizzate da studenti, ma il tema del rischio di un controllo eterodiretto (e dell’incentivazione della pigrizia mentale) resta aperto. Ecco perché, in conclusione, il problema come sempre non è solo tecnologico ma anche culturale: la quantità di dati che viene prodotta e diffusa influenza e influenzerà sempre più la qualità delle nostre relazioni e delle visioni del mondo che creiamo continuamente. “Troppe cose da conoscere in troppo poco tempo”, scriveva David Weinberger qualche anno fa, ricordando che questa sensazione accompagna l’uomo sin dall’antichità ma sembra essersi ingigantita a dismisura con l’arrivo di Internet. Quel che più manca è allora un’educazione all’uso e alla gestione più consapevole di dati e informazioni: se abbiamo un problema lo abbiamo con l'uso del senso critico più che con la tecnologia, ed è un problema che abbiamo sempre avuto. Molti quotidiani hanno riportato la notizia della pubblicazione di una ricerca della Stanford University svolta tra il 2015 e il 2016 su un campione di circa ottomila studenti, che conferma quel che già sappiamo: i cosiddetti “nativi digitali” sanno usare Facebook e Instagram ma non riescono a valutare correttamente le informazioni e a distinguerne la credibilità. Il fatto è che a questa porzione di verità ne va aggiunta un’altra: neanche gli adulti riescono spesso a valutare correttamente informazioni e fonti, e in molti casi neanche quegli adulti che per mestiere dovrebbero essere più critici e consapevoli. E sì, mi riferisco ai giornalisti ma anche ai docenti della scuola e dell’università, ai formatori e a tutti quelli che hanno a che fare con la gestione e la produzione di informazioni e conoscenza. Come si chiede Giovanni Boccia Artieri nel commentare la scelta della presidente della Camera dei Deputati di mostrare nomi e cognomi di chi la insulta sui social network: qual è il confine tra educare la cittadinanza all’espressione nel digitale e incentivare ciò che si vorrebbe contrastare? Il discorso vale per l’odio sociale e l’hate speech come per la diffusione di fake news, spesso operata anche da chi ricopre cariche che dovrebbero essere “autorevoli”. Esiste un conversational divide che caratterizza gli ambienti online e la capacità di gestire consapevolmente notizie e disintermediazioni? Se sì, perché trovare un colpevole nella tecnologia e non riflettere invece sullo scarso livello di responsabilità sociale che abbiamo prodotto negli anni? Qualche anno fa, durante una lezione dedicata al passaggio dai mass media ai media digitali, dissi agli studenti che i primi sistemi di videochiamata furono sperimentati già alla fine degli anni venti del secolo scorso (facevo riferimento all’ikonophone e a Herbert E. Ives). Dopo qualche minuto Emanuela, studentessa sempre molto attenta e seduta in prima fila con il laptop aperto, esclamò: “è vero!”. Aveva controllato su google per verificare la veridicità della mia affermazione. Il problema non è l’essere sottoposti a fact-checking e criticare chi dubita dell’autorità, ma non averne timore e al contrario promuovere lo scetticismo, la verifica delle informazioni e l’affidabilità delle fonti come prassi regolare – anche quando quelle fonti siamo noi.

domenica 11 dicembre 2016

Relazione sulla conferenza di Viviana Premazzi

 “Donne musulmane nel contesto migratorio: sfide e opportunità”

Come secondo momento della collaborazione al progetto “Impronte”, organizzato dall’Assessore alle Pari Opportunità di Avigliana, dott.ssa Rossella Morra, come punto di raccordo di varie iniziative volte a prevenire e a contrastare la violenza di genere, CircolarMente ha voluto mettere a fuoco, nella prospettiva di una riflessione più ampia sul complesso rapporto fra la modernità occidentale e il mondo islamico, l’elemento trasformatore che può essere rappresentato dalle donne musulmane nel contesto migratorio, in particolare da quelle appartenenti alla seconda generazione che si affacciano ora sulla scena pubblica italiana.
Il compito di introdurci in una realtà di cui in effetti conosciamo solo gli aspetti più eclatanti è stato affidato ad una ricercatrice dell’Università di Torino, la dott.ssa Viviana Premazzi, il cui ambito di studio e di lavoro sul campo ha riguardato dapprima la presenza femminile nella teologia della liberazione in Brasile e il ruolo delle donne nella ricostruzione postbellica in Afghanistan, per poi focalizzarsi – attraverso l’esperienza svolta al FIERI (Forum italiano ed europeo ricerche sull’immigrazione) - sull’analisi dei processi migratori e sul ruolo trasformativo delle donne.
Ad ascoltarla, un pubblico ampio ed eterogeneo che poteva contare sulla presenza di persone che a vario titolo sono coinvolte in attività di integrazione e di sostegno, sia nell’ambito scolastico che in quello socio-assistenziale.

* una sfida generazionale
   all’interno delle comunità islamiche in Italia

Prima di condividere col pubblico di CircolarMente i risultati delle sue ricerche, la relatrice ha voluto sottolineare come nel mondo islamico, che noi europei tendiamo a considerare come uniforme, si stia svolgendo una grande sfida che non si gioca solo sullo storico contrasto fra la maggioranza sunnita e gli sciiti, che  sta vivendo per complessi motivi geopolitici una drammatica accelerazione, ma riguarda più in generale due diverse visioni dell’Islam: quella che possiamo definire “essenzialista” e che lo considera come una sorta di monolite, compatto e inamovibile, incardinato in un corpus di testi sacri e di rituali non passibili di alcuna interpretazione modernista, e una più flessibile ed aperta che pur non prescindendo affatto dal rispetto dei testi è disponibile a misurarsi con un contesto mutato, soprattutto nei paesi  europei in cui vivono  moltissimi uomini e donne di fede musulmana.
E ancora, all’interno e trasversalmente a queste due visioni, la sfida non meno importante, pur se meno avvertita nell’immagine pubblica, che si gioca invece fra le generazioni: un confronto non sempre facile, che vede da un lato quei padri e quelle madri cresciuti in una cultura relativamente omogenea in cui la fede religiosa era incardinata nella cultura stessa e nella società, e dall’altro lato i figli, che vivono in un contesto in cui cultura e religione non sono sovrapponibili (si parla infatti per loro di “religione senza cultura”, per citare la definizione di uno dei più noti studiosi del rapporto fra la modernità occidentale e il mondo islamico, il sociologo francese Oliver Roy). Ragazzi e ragazze per cui l’appartenenza religiosa, pur trasmessa inizialmente dalla famiglia, si configura in modo più marcato come frutto di una scelta, che può metterla in discussione o altrimenti riscoprirla e farla propria con modalità personali e con una più intensa consapevolezza, come accade ogni qual volta una cosa non viene vissuta come ovvia o scontata.

* la fede come scelta, piuttosto che come destino:
   nuove modalità di pratica religiosa nelle seconde generazioni

Questo scollamento, non certo privo di contraddizioni ma che la relatrice configura in linea generale come portatore di potenzialità positive, risulta evidente in primo luogo nella pratica religiosa, in particolare nella frequentazione della moschea, che come sappiamo rappresenta per i musulmani il luogo deputato alla preghiera e allo studio dei testi sacri e insieme lo spazio della condivisione comunitaria. Se per gli immigrati di prima generazione, che erano in prevalenza uomini soli, essa costituiva soprattutto un’occasione fondamentale di riconoscimento fra simili e di riaffermazione del legame che si intendeva mantenere con il luogo di origine, acquisendo in tal modo caratteristiche “geografiche” (per restare alla realtà torinese, la moschea di via Saluzzo era frequentata in prevalenza da egiziani, mentre quella di via Chivasso da marocchini), non è più così per i figli.
Il loro legame con il paese dei genitori si è indebolito, e in qualche caso è del tutto assente, mentre può essere forte e vitale quello con il paese in cui sono cresciuti, in cui hanno frequentato le scuole stringendo spesso amicizie con ragazzi e ragazze di diversa origine, o di altra fede: nella moschea, e in generale nelle associazioni (la dott.ssa Premazzi fa riferimento in modo particolare ai “Giovani musulmani d’Italia”), dove il legame non è più geografico ma soprattutto culturale, essi cercano prevalentemente l’occasione di riflettere sulla loro fede, sulle modalità più opportune per viverla, affinandola e ripensandola, su come presentarsi e agire nello spazio pubblico entrando in contatto con le istituzioni, dialogando con la città e con le altre fedi.
Sull’impatto di queste frequentazioni rispetto al modo con cui i giovani vivono il rapporto fra uomini e donne, l’amore, la sessualità, il matrimonio, la relatrice apre una parentesi significativa, sottolineando peraltro come l’attenzione dei media sia a suo giudizio fin troppo focalizzata su questo tema (in particolare fa riferimento ad una serie di interviste condotte da  Gad Lerner in cui le domande vertevano quasi unicamente su questi aspetti).
Certamente la moschea e le associazioni costituiscono da un lato uno spazio protetto verso il quale la paura di molti genitori musulmani rispetto alla possibile “presa” sui figli delle abitudini di vita occidentali può allentarsi, ma dall’altro esse offrono ai giovani l’occasione di confrontarsi e di interagire ripensando la propria mascolinità o femminilità in forme diverse da come l’hanno vissuta i padri e le madri: più aperte, meno vincolate ad una tradizione che naturalmente può in altri casi essere riaffermata come propria (l’esito di un confronto non è ovviamente stabilito a priori…). Un’occasione di crescita, per le giovani donne, in cui possono affermare di non sentirsi “sottomesse” non solo quando decidono di rifiutare i simboli di appartenenza religiosa ma anche quando scelgono invece di farli propri, senza che in molti casi ci sia costrizione da parte delle famiglie, per orgoglio identitario o per affermare un’adesione profonda alla fede. Allo stesso  modo il velo può diventare un elemento di femminilità seduttiva e autonoma (da qui il recente interesse della moda per le donne che vogliono sentirsi “belle e musulmane”…)

* la fede come domanda
   e le varie modalità della ricerca

Quello che è importante sottolineare, per la relatrice, è piuttosto il fatto che in questi contesti i giovani riflettono sui fondamenti della loro fede chiedendosi, per esempio, se privilegiare i valori rispetto ai riti, la sostanza rispetto alla forma, o ponendosi il problema di farli più strettamente coincidere.
Una fede che pone domande, dunque, soprattutto nel passaggio cruciale dall’adolescenza alla giovinezza, quando i ragazzi e le ragazze escono dall’ambiente protetto della scuola per entrare in contesti lavorativi o all’università, in luoghi cioè che stimolano un confronto più ampio e dove essi sono spesso sollecitati a dare ragione di una diversità non ancora ben metabolizzata a livello sociale – in modo particolare  da quando l’esplosione del terrorismo di matrice islamista ha provocato fenomeni di rigetto, fra diffidenza e paura. Domande che affrontano a livello individuale, rivolgendosi a tutti i luoghi dove esse possono essere poste e trovare risposta: non solo nella moschea o nelle associazioni, ma nei tanti forum che Internet offre e dove lo scambio avviene prevalentemente fra coetanei. Frequentazioni multiple, con aspetti positivi che la relatrice ha sottolineato ma dove non mancano le criticità: il fare della propria fede una sorta di “bricolage fai da te” o altrimenti quello di esporsi al rischio di una radicalizzazione che può spingere alcuni giovani a rifiutare ogni forma di  “contaminazione” con un mondo occidentale considerato decadente e privo di valori (pensiamo alle sirene suadenti dell’Isis, che sollecitando quel desiderio di eroismo e martirio che può fare presa sui giovani maschi incerti di sé  e del proprio posto nel mondo, e nelle giovani donne un’attitudine al discorso umanitario e sociale verso quelle che vengono considerate le vittime dell’occidente, hanno spinto molti giovani cresciuti in occidente a partire per i teatri di guerra come “foreign fighters”: non moltissimi quelli italiani – circa ottanta – ma  comunque segno di un’incrinatura da non sottovalutare).
Domande, ancora, che portano i giovani a seguire nuovi maestri, come Tariq Ramadan, un intellettuale svizzero che ha molto seguito fra i giovani musulmani desiderosi di costruire un Islam rinnovato ed europeo, e in cui talvolta trovano posto, secondo l’esperienza della relatrice, anche incontri significativi con i testi della cristianità, da cui emergono nuove possibilità di dialogo interreligioso (ricordiamo che  i musulmani  considerano Gesù  un grande profeta, e che nel Corano la figura di Maria è tenuta in grande considerazione); non mancano inoltre tentativi di reinterpretare, valorizzandole, le figure femminili della storia sacra, come del resto è avvenuto anche nel mondo cristiano.
E’ una generazione che sta crescendo, dunque, quella che la dott.ssa Premazzi ci ha mostrato: ragazze e ragazzi che cercano vie nuove in un contesto non facile e in cui ha un peso di non poco conto, a suo giudizio, la mancata adozione di una legge sulla cittadinanza che faccia dei figli dell’immigrazione, italiani per socializzazione ma spesso ancora stranieri per passaporto, dei veri cittadini (un tema, questo, di cui si parlerà in modo approfondito in un seminario che Circolarmente ha già predisposto per il mese di marzo e in cui interverrà la prof. Roberta Ricucci, docente di sociologia dell’Islam all’Università di Torino,  che si è occupata in modo particolare dei percorsi di inserimento scolastico e lavorativo e di definizione identitaria  dei giovani stranieri).


 * lo spazio del dibattito

Del momento di confronto fra la relatrice e il pubblico indichiamo in particolare alcuni interventi che hanno assunto il valore di testimonianze: da quella dell’insegnante che ha sottolineato l’importanza della scuola come luogo fondamentale di educazione interculturale, che chiede a chi ci lavora un impegno sicuramente faticoso ma estremamente stimolante, a quella della donna musulmana che ha voluto affermare con forza la necessità di andare oltre gli schemi, acquisendo la capacità di vedere le persone e riconoscerne la dignità al di là del colore della pelle, dell’abbigliamento, delle pratiche religiose e abbandonando in particolare il pregiudizio che considera le donne musulmane incapaci di una libera determinazione di sé (cosa che può consentire, come a lei è accaduto, di poter stringere rapporti di autentica amicizia e grande solidarietà reciproca con donne italiane, alcune delle quali sono presenti per confermare la possibilità e la fecondità di questi  legami).
Naturalmente sono anche state segnalate delle criticità, rispetto al mondo islamico, che non erano oggetto specifico dell’incontro ma che sono pur sempre sullo sfondo: in particolare, il permanere di uno statuto di inferiorità per le donne, con un evidente regresso da cui non sono esclusi quei paesi dove i codici di famiglia erano stati impostati in modo più evoluto o comunque le donne potevano godere di più ampia libertà (si fa l’esempio dell’Egitto, che ha conosciuto nella seconda parte del novecento un incontro non irrilevante con la modernità ma che ora attraversa una lunga e sempre più evidente fase regressiva). Senza eludere la problematicità del tema, la relatrice fa presente il peso determinante della crisi economica protratta, che negli ultimi decenni ha costretto molti uomini egiziani ad emigrare in cerca di lavoro in Arabia Saudita, diventando permeabili ad ideologie religiose più retrive.
Ci si interroga inoltre sulle effettive possibilità che anche nel mondo islamico si possa attuare quella separazione fra ambito religioso e ambito politico da cui è derivata la secolarizzazione occidentale: un tema importante, che richiederebbe uno spazio di discussione più ampio di quanto la serata prossima al termine possa consentire (si fa presente peraltro che sono già stati previsti dal programma di CircolarMente degli incontri mirati ad alcuni dei temi che emergono dal dibattito, ed altri potrebbero seguire in momenti successivi).
Segnaliamo in ultimo una domanda posta alla relatrice che entra invece in modo più specifico sull’oggetto del suo discorso e sulle caratteristiche del suo lavoro, e cioè su quali siano le effettive capacità di presa sulla realtà di ricerche che vengono condotte all’interno del mondo musulmano da operatori  di estrazione religiosa e formazione culturale diversa, se sia possibile cioè che questo fatto non ne distorca il senso facendo prevalere, anche indirettamente, il punto di vista del ricercatore.
In effetti, spiega la dott.ssa Premazzi, questo è il problema fondamentale di ogni ricerca: essa non chiede al ricercatore di “spogliarsi” di sé – cosa in effetti impossibile -  ma di mettere in atto tutta una serie di metodologie che assicurino la correttezza del procedimento e che fanno quindi parte della formazione  professionale di ogni studioso.


N.B. = come le relazioni precedenti, anche quest’ultima non si basa su di una trascrizione letterale dell’intervento ma lo riassume: il redattore si assume quindi la responsabilità di eventuali dimenticanze o errori interpretativi.

giovedì 1 dicembre 2016

Relazione sulla conferenza della dottoressa Mirella Rostagno:

“La trasformazione dei ruoli e delle identità nella famiglia che cambia”

Per riflettere sui cambiamenti che si sono verificati, nel corso degli ultimi decenni, rispetto alle modalità del “fare famiglia” – intendendo con questa espressione un insieme di elementi relativi all’interpretazione dei ruoli parentali, agli stili educativi, ai valori e ai riti – la dottoressa Mirella Rostagno ha potuto attingere, oltre alla sua competenza psicoanalitica, ad una collaudata esperienza di perito e  collaboratrice dei giudici minorili presso il Tribunale di Torino e di socia del Centro studi di psicologia forense. Questo ha dato al suo intervento un’ampiezza teorica e insieme una concretezza di riferimenti che sono stati particolarmente apprezzati dal pubblico di CircolarMente, anche se non possono trovare in questa relazione necessariamente riassuntiva tutto lo spazio necessario per disporsi con interezza.

* Da Edipo a Narciso:
Dopo questa precisazione, che ci pare giusto evidenziare, veniamo ai temi più importanti che sono emersi nel discorso, a partire dalle due immagini simboliche di derivazione psicanalitica di cui la relatrice si è avvalsa per marcare una differenza forte fra la famiglia del passato e  la famiglia di oggi. Basata, la prima, sulla chiara definizione di due distinti ruoli parentali e sulla centralità dell’adulto rispetto al bambino, con modalità educative che pur non prescindendo dall’affetto ponevano l’accento sulla gestione della quotidianità e su di un preciso impianto normativo, con regole che si supponevano inderogabili e la cui trasgressione era in generale severamente sanzionata dall’esterno e vissuta con ilteriori sensi di colpa; una famiglia certo stabile e fornitrice di sicurezze, ma cristallizzata nella tradizione e certamente poco incline a valorizzare le differenze individuali rispetto alla conservazione di un preciso ordine familiare e sociale.
Un modello che ha visto nel giro di pochi decenni un cambiamento sostanziale, rovesciandosi talora nel suo opposto col contrapporre alla centralità dell’adulto quella del bambino, che diventa in questo caso il destinatario di modalità educative intese ad esaltare la libera espressione della sua individualità, incapaci  peraltro di assicurare quel contenimento educativo indispensabile alla crescita. Una famiglia in cui i genitori talvolta si pongono come “amici” dei figli, mostrando di non saper distinguere la differenza che è espressione di mero potere e che è giusto rifiutare da quella che nasce dall’esperienza, dalla consapevolezza e soprattutto dalla responsabilità educativa, e che chiede pertanto venga invece riconosciuta quella chiara distinzione fra “grande” e “piccolo” la cui mancanza lascia di fatto il bambino  da solo in uno spazio vuoto. Ora è davvero il tempo, secondo il giudizio della relatrice che non nasce da una posizione ideologica ma da un impianto teorico nutrito e vitalizzato dall’esperienza, di cambiare le regole del gioco recuperando il dovere dell’adulto di costruire, facendosene carico in prima persona, un quadro coerente di regole che siano credibili e in cui si aprano spazi importanti di condivisione, per fondare un  vero “patto educativo” con chi ha l’esigenza di essere guidato con le modalità corrette ad una progressiva assunzione di autonomia personale.
Parlare di regole condivise si può prestare in effetti a possibili fraintendimenti, pertanto la dottoressa Rostagno, rispondendo ad alcuni interventi del pubblico, ha specificato che condividere non significa mettere sulle spalle del bambino la gestione delle norme e delle scelte familiari: l’adulto ha certamente non solo il diritto, ma anche il dovere di prendere in prima persona  delle decisioni, prevedendo  tuttavia che il bambino possa fare lui stesso, ogni qualvolta sia possibile, delle scelte assumendosene la responsabilità, perché la coerenza si impara anzitutto sperimentandola attraverso esperienze reali, per non risolversi in qualcosa di puramente formale e alla lunga fittizio.
Certo non è facile l’esercizio della responsabilità genitoriale, nondimeno bisogna essere consapevoli, secondo la relatrice, che la perdita della funzione contenitiva della regola produce guasti che dal suo punto di osservazione di terapeuta e di collaboratrice del Tribunale dei minori le risultano evidenti, assieme ad altri problemi che si sono fatti via via più inquietanti. Nella nostra società narcisistica, dove l’immagine è tutto, quando il bisogno di rispecchiarsi nello sguardo degli altri cercando attraverso di essi il riconoscimento di sé non viene soddisfatto, quando questa immagine si incrina, chi è più fragile può avvertire  questa mancanza come un tradimento insopportabile della coerenza interna, che lo induce a ritirarsi dallo sguardo che annulla fino ad annullare a volte se stesso.
La cronaca ci mostra ormai con drammatica evidenza che la vergogna ha preso il posto, come foriera di sofferenza psichica, di quel senso di colpa che nella società edipica derivava dalla trasgressione di regole che venivano percepite come emanazione da un’autorità superiore, e che anche se negate rimanevano pur sempre  presenti sullo sfondo: un sentimento altrettanto doloroso, pur tuttavia passibile di riscatto, mentre secondo la dottoressa Rostagno è ancora più difficile superare la svalorizzazione della propria immagine, soprattutto nei soggetti giovani e insicuri. Per questo motivo oggi si pone molta attenzione nel predisporre, per i ragazzi che si sono resi responsabili di un reato, dei percorsi riparatori che non mettano ulteriormente in crisi l’immagine di sé, offrendo loro una possibilità di maturazione attraverso esperienze formative senza macchiare ulteriormente e in modo indelebile il loro profilo esteriore ed interno.

* Dal ruolo alla funzione:
Dopo aver affrontato il tema della responsabilità genitoriale, che non a caso ha sostituito anche a livello legislativo il termine ormai desueto di potestà, la dottoressa Rostagno ha messo a fuoco, con il concetto di “funzione”, un altro elemento fondamentale del cambiamento relativo ai ruoli parentali e alla connessa identità di genere.
Nella famiglia del passato venivano infatti riconosciuti e addebitati ai genitori competenze e doveri differenziati: alla donna e madre l’accudimento, la gestione del quotidiano e lo spazio dell’intimità, all’uomo e padre il sostegno economico della famiglia attraverso il lavoro e il ruolo di garante normativo dell’ordine familiare e sociale. Questa suddivisione di compiti così netta e “sessuata” oggi non è certo proponibile nella stessa forma, e i ruoli parentali appaiono sempre più orientati verso un’intercambiabilità che può essere molto evolutiva, arricchendo l’identità di ognuno di competenze, saperi, esperienze trasformative (pensiamo solo a cosa può significare sul piano emotivo e relazionale, per un uomo, l’accudimento dei figli – il cosiddetto “maternage” – come per una donna la possibilità di esplicare le proprie capacità non solo come moglie e madre). Naturalmente l’entrare ognuno nel campo dell’altro può generare conflitti – non è più così chiaro cosa tocca fare a chi – ma questo non dipende tanto dallo sfumare della separazione fra i ruoli quanto dalla eventuale carenza di quelle capacità di mediazione e di negoziazione che risultano indispensabili e vanno ovviamente potenziate. Quello che è invece importante evidenziare, secondo la relatrice, è come il riconoscimento della maggiore ampiezza delle potenzialità interne ad ogni persona conduca a parlare non solo di madri e padri bensì di “funzione” materna e paterna: in altri termini non è il ruolo che va sancito ma la funzione, che non deve mancare nella buona crescita di un bambino e che può essere esercitata adeguatamente da ciascuno dei due genitori, a seconda della loro attitudine personale.
Questo ci fa comprendere come nelle separazioni sia oggi non solo possibile, ma in certi casi addirittura opportuno l’affidamento dei figli al padre indipendentemente dall’età di questi ultimi, e come la pratica ormai diffusa dell’affidamento congiunto riposi sia su principi di parità che su di un dato esperienziale ormai acquisito culturalmente. Allo stesso modo non sono attualmente escluse dall’affido di minori in difficoltà le famiglie omosessuali, qualora si riscontri in esse la capacità di rispondere all’esigenza del bambino di poter usufruire di entrambe le funzioni. Diverso peraltro è  il caso dell’adozione: non perché queste famiglie vengano a priori ritenute inadeguate ad assicurare una buona crescita (dal punto di vista psicologico, ormai suffragato da ricerche importanti, soprattutto statunitensi, risulta ormai con sufficiente evidenza che i bambini cresciuti in famiglie omosessuali non si discostano  dai loro coetanei quanto a salute psichica e a maturazione identitaria) ma perché in un ambiente sociale in cui i germi dell’omofobia purtroppo sono ancora abbastanza vitali, si ritiene per ora di dover  tutelare, in virtù di questo,  dei bambini che hanno già subito il trauma della mancanza dei genitori.

 * Criticità e potenzialità:
    la famiglia alla sfida del presente e del futuro  
Da qui in avanti, la dottoressa Rostagno ha allargato la conversazione a temi diversi, intrecciandoli nel discorso, dopo aver ulteriormente ribadito – a proposito di separazioni - come la responsabilità genitoriale dovrebbe costituire in questi casi un vero e proprio monito, sufficiente ad evitare quella svalorizzazione dell’altro che costituisce a suo giudizio il rischio maggiore di ricaduta negativa sulla tenuta psicologica dei figli e sul loro modo di pensare e di vivere poi la famiglia e la relazione di coppia.
Si tocca anche con particolare incisività il problema della violenza, che pur non costituendo lo specifico dell’incontro è ben presente sullo sfondo, dal momento che la riflessione sulle trasformazioni della famiglia è stata organizzata da CircolarMente come momento di partecipazione al progetto  “Impronte”, presentato  a inizio serata dall’ Assessore alle pari opportunità, dott.sa Rossella Morra.
Nell’indicarne le linee guida, l’assessore ha spiegato come l’amministrazione abbia cercato - nella consapevolezza dell’accentuarsi dei conflitti familiari e dell’acuirsi della violenza di cui sono spesso vittime le donne - di dare vita ad alcuni interventi intesi da un lato ad aiutare le associazioni che lavorano sul campo a fare rete, fornendo  dei materiali informativi, dall’altro ad offrire alle donne tutta una serie di opportunità ludiche, sportive e culturali utili per uscire dall’isolamento, agendo nel contempo a livello di prevenzione col proporre alle scuole dei momenti di approfondimento e col valorizzare l’impegno degli insegnanti che sono sensibili a questi temi.
Ora è indubbio, secondo la relatrice (che preferisce porre l’attenzione sulla violenza tout court, senza declinazioni di genere) che la trasformazione del ruolo delle donne può aver messo in difficoltà quegli uomini che basavano il proprio riconoscimento su di un ruolo di potestà e che non hanno sufficiente consapevolezza e maturità per accettare la perdita di queste sicurezze, per quanto fragili. Tutti abbiamo infatti bisogno di essere riconosciuti per riconoscerci, e la violenza diventa talvolta un modo patologico e deviato per riaffermare questo bisogno che non sa esprimersi diversamente e che la sanzione sociale non basta a contenere, oltre al fatto che dovrebbe essere ancora più avvertita a livello di coscienza collettiva. Secondo la dottoressa Rostagno peraltro è molto importante ricordare che per proteggere davvero le donne bisogna aiutare gli uomini a ritrovare il loro valore, perché possano  riuscire a costruire un’identità nuova e più evoluta (si vanno organizzando infatti  percorsi specifici di aiuto per quegli uomini che si rendono conto di essere in difficoltà, e che nel gruppo spesso riescono a riconoscere la violenza come un male interno, recuperando in molti casi la  possibilità di ricostruire percorsi di vita che  hanno reso gravidi di infelicità per gli altri e per se stessi).
E’ indispensabile, oggi, dare vita ad una diversa alleanza, che consenta a uomini e donne di affrontare insieme le difficili sfide che attengono non solo alla strutturazione interna alla famiglia, ma dipendono dal contesto sociale. E’ infatti su di esse che si ragiona nella parte conclusiva dell’incontro, evidenziando dapprima alcuni problemi a cui la relatrice stessa fa riferimento a partire dalla sua esperienza professionale (in particolare, menzionando le difficoltà del confronto, anche a livello giuridico, con modalità culturali diverse di pensare e di fare famiglia, oltre all’emergere di nuove patologie e sofferenze psichiche che si manifestano in coloro che si trovano sbalzati all’interno di società molto diverse da quelle di appartenenza, e che devono costruire non facili percorsi di integrazione). In altri casi si segue invece il filo degli interventi del pubblico, che mettono in rilievo sia la precarizzazione del lavoro, che rende  davvero difficile, per i giovani, impostare un progetto di vita familiare, che la progressiva riduzione del Welfare, che obbliga le famiglie a sopperirne le carenze, e ancora, in un allargamento ulteriore dello sguardo, la dissociazione fra una società dove la deregolazione sta diventando sempre più evidente e una famiglia che dovrebbe invece impostare su regole coerenti il suo lavoro educativo, senza contare certi venti di reazione che spirano un po’ ovunque  attivando nostalgie di ritorno ad un  mitico “ordine” del passato.

Su questi temi peraltro la dottoressa Rostagno ha aperto immagini di speranza, evocando il valore della resilienza, che ci spinge a non dismettere le nostre idealità e a riconfermare i gesti del quotidiano che le accompagnano, sapendo che i venti possono anche mutare e le voci urlate affievolirsi alla prova della realtà, e soprattutto sottolineando l’importanza di lavorare sulle sfumature, senza sottovalutare l’emergere nelle nuove generazioni di creatività e talenti  inaspettati che ci fanno porre  fiducia nella  loro capacità di affrontare il futuro. 

La parola del mese - Dicembre 2016


LA PAROLA DEL MESE 

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

DICEMBRE 2016  



Quanta della (presunta) conoscenza diffusa, sulla cui base si attivano comportamenti individuali e collettivi errati se non addirittura pericolosi (per sé e per gli altri) e si formano opinioni culturali e politiche (non raramente di gran seguito), è in effetti fondata su una………………

BUFALA
(altrimenti detta: balla, bubbola, bugia, falsità, falso, fandonia, fanfaluca, favola, fola, frottola, invenzione, menzogna, panzana, storia.) ????????


ovvero un'affermazione falsa o inverosimile, sovente creata ad arte, perciò essere volta a ingannare il pubblico, per presentare deliberatamente per reale qualcosa di falso o artefatto.

Secondo il Vocabolario della Crusca "bufala" deriva dall'espressione "menare per il naso come una bufala", ovvero portare a spasso l'interlocutore trascinandolo, come si fa con i buoi e i bufali, per l'anello attaccato al naso.  Un'altra possibile etimologia è quella collegata al termine "buffa" ovvero folata o soffio di vento (buffare = soffiare) e pertanto derivabile in senso figurato da un qualcosa che viene comunicato tramite un soffio di vento, perciò senza sostanza e consistenza

Alcuni esempi storici significativi:
·         Donazione di Costantino = è probabilmente uno dei più antichi falsi storici a noi noti. Il testo fu composto durante l'Alto Medioevo allo scopo di giustificare il potere temporale del papato agli occhi dei regni occidentali. La sua natura di falso fu evidenziata già nel XV secolo da Lorenzo Valla e altri
·         Antiquitatum variarum = sono una complessa falsificazione storica in 17 volumi, realizzata nel Quattrocento dall'erudito Giovanni Nanni (1437-1502), frate domenicano molto vicino a Papa Rodrigo Borgia (Alessandro VI). La sua mistificazione si reggeva sia su remotissime cronache da lui fabbricate, sia sulla finta scoperta di falsi reperti archeologici da lui stesso fabbricati e seppelliti. L'opera intendeva costruire e proporre una visione radicalmente nuova della storia universale, in cui la tradizione orientale veniva direttamente connessa e riconciliata con le radici della storia d'Europa, con il rigetto, come cosa vana, erronea e favolistica, dell'intera tradizione greca.  Nonostante i sospetti adombrati quasi subito da alcuni umanisti  l'opera riscosse una grande fortuna, con numerose edizioni a stampa prima dello svelamento definitivo della sua reale natura di colossale falsificazione, nel secolo successivo alla pubblicazione.
·         Protocolli dei Savi di Sion = sono un falso documentale, creato con l'intento di diffondere il disprezzo contro gli Ebrei. Fu pubblicato nei primi anni del 1900 nella Russia Imperiale dalla polizia segreta zarista in forma di documento segreto attribuito a una fantomatica cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo sarebbe quello di impadronirsi del mondo. Presentata come esposizione di un piano operativo rivolta dagli "anziani" ai "neofiti", descrive metodi per ottenere il dominio del mondo  attraverso il controllo dei media e della finanza e la sostituzione dell'ordine sociale  tradizionale con un nuovo sistema basato sulla manipolazione delle masse. La natura di falso fu appurata già fin dai primissimi tempi successivi alla pubblicazione, , in particolare, una serie di articoli pubblicati sul Times  nel 1921 dimostrarono che gran parte del materiale era frutto di plagio da precedenti opere di satira politica  non correlate agli ebrei. Nonostante la comprovata falsità di tali documenti, essi riscossero ampio credito in ambienti antisemiti e antisionisti  e rimangono la base, specie in Medio Oriente  per avvalorare la teoria della cosiddetta cospirazione ebraica. I Protocolli sono considerati la prima opera di letteratura complottista.

Il termine al giorno d'oggi indica quelle notizie (in genere messaggi inviati per posta elettronica o reperibili, tramite il passa parola via “social”, in siti WEB appositamente creati), che circolano, proprio grazie alla Rete, con rapidità e capillarità impressionanti, e che contengono affermazioni, dati (spesso anche di carattere apparentemente scientifico), fatti, resoconti, ricostruzioni, del tutto inventate o contraffatte, purtroppo sempre più difficilmente individuabili come “bufale prima che si siano create una aureola di veridicità





mercoledì 16 novembre 2016

Le parole per dire No al razzismo quotidiano - Articolo di Paolo Rumiz su La Repubblica del 13/11/2016


Le parole per dire no al razzismo quotidiano

"Come replicare all’odio verso i profughi? Che parole può usare il cittadino contro il tam-tam del rancore — assai più vasto di quanto si creda — che serpeggia via Facebook con parole indecenti?"

Articolo di PAOLO RUMIZ

Come l’epidemia di mucca pazza, la vittoria di Trump ha imbarbarito all’istante il linguaggio in Europa e in Italia. Era prevedibile: i beceri parlano più ad alta voce per strada e nei mezzi pubblici e il web, già saturo di imbecillità, ha dato la stura a nuove ondate di demenza razzista. Ora, siccome le parole sdoganano i fatti, sappiamo in anticipo che dovremo fronteggiare il peggio anche a livello politico e che l’Unione finirà per vedersela brutta. Ma quello che preoccupa, più ancora delle urla di odio, è il silenzio attonito dei benpensanti. Come se non ci fosse nulla da fare, come se il mondo stesse già deragliando. Homo homini lupus, et dominus vobiscum. Troppo ricorda l’Europa degli anni di Weimar.
E allora la domanda da porci subito è: come replicare all’odio verso i profughi? Che parole a caldo può usare il cittadino di buona volontà, specie se impregnato di valori cristiani, contro il tam-tam del rancore — assai più vasto di quanto si creda — che serpeggia via Facebook con parole indecenti? Valide analisi sul come ci siamo ridotti a questo punto ne abbiamo anche troppe. Siamo pieni di libri e analisi. Quello che disperatamente manca è un prontuario, un manualetto, una rubrichetta quotidiana che insegni a rispondere per le rime alla liquidazione della misericordia, a costruire l’anatema dal pulpito giusto, anziché porgere l’altra guancia o trincerarsi in un verginale politicamente corretto. È di questo che abbiamo bisogno ora per attivare una guerra di resistenza. Che fare? Quando sento quelle urla oscene mi sale la pressione e mi tocca andar dal medico. Il malessere è ormai di vecchia data. È cominciato con la guerra in Bosnia, quando ho sofferto tutta la mia impotenza di reporter non solo nella difesa degli innocenti ma soprattutto nel far capire ai lettori che un giorno sarebbe potuta toccare a noi, perché “loro” erano come noi, e il disastro balcanico non era che l’avvisaglia di un disastro europeo. Oggi è peggio, perché la lezione non è servita a niente. Penso a questo mio Paese che non si indigna più di nulla ma grida contro i poveracci e allora sento una pressione alla bocca dello stomaco che nasce appunto dal mio mancato allenamento a controbattere ai barbari. Qualche giorno fa ci ho provato a trovarle, le parole, nella mia Trieste. Ecco come è andata. Sono in macchina, fermo a un semaforo del centro. Vedo una famigliola di profughi, forse siriani, che traversa la strada. Mamma, papà, due bimbi di circa tre e cinque anni, una valigetta e uno zaino. Gente distinta, signorile. Sono diretti alla stazione. Ma ecco, accanto a me, arrivare un’utilitaria con una bionda e il suo moroso al volante. Il quale, in un raptus improvviso, abbassa il finestrino e urla: «Stronzi! Non avete capito che non vi vuole nessuno?». Bersaglio facile: i fuggiaschi non reagiscono. Poi si gira verso la ragazza in cerca di un’approvazione. Lei esulta. Ah, che uomo. Mi guardo intorno. Un passante ride. Ma la maggioranza tace, di fronte alla violenza delle parole. Mi sale il sangue alla testa. Alla mia età non ho ancora raggiunto la pace dei sensi.
Scatta il verde, riparto e tengo d’occhio il bellimbusto fino al semaforo successivo. Respiro forte, ho il cuore a mille. Mi passa davanti un film. Sempre lo stesso. Il film dell’Esilio. È da ragazzino che li vedo, a Trieste, quelli con la valigia e i bambini per mano. Prima gli istriani e i dalmati, costretti a vagare per l’Italia, bloccati anche loro da picchetti, presi per fascisti dai “rossi” nelle stazioni. Poi gli jugoslavi in fuga dalle stragi, bollati come “nipotini degli infoibatori” dagli stessi avanguardisti in malafede che a Belgrado trescavano con i massacratori veri. E poi i curdi, gli afghani, i siriani. Ogni volta, uomini e donne in fuga dalla barbarie che venivano presi per barbari con un cinico ribaltamento della realtà. Ieri come oggi capri espiatori perfetti per far voti. Ora l’auto è di nuovo vicina. Tocca a me abbassare il finestrino. Faccio alla bionda: «Mi scusi, dica a quel signore che preghi Iddio — non so come riesco a essere calmo — di non provare mai una guerra in vita sua e di non avere cinque minuti di tempo per mettere le sue cose in una valigia prima di scappare. E soprattutto di non sentire mai urla come le sue. Buongiorno ». I due restano senza parole, forse stupiti dalla determinazione di uno con la barba bianca. Si riparte, il traffico ci divide. Respiro. Mi sento meglio. Ho rotto il silenzio. Sono certo che parecchie persone hanno udito, e penso che a qualcuna di esse avrò pur dato una voce. Non ci credo che una frontiera come la mia, che ha visto tante disperate migrazioni, abbia perso completamente la memoria.
Rompere il silenzio degli “innocenti” e trovare le parole giuste: è questo il problema pratico da superare per affrontare i tempi nuovi. Se lo facessimo, si creerebbe un fronte. Sapremmo cosa dire ai vigliacchi aggressivi con i deboli e tremebondi con i forti. E allora verrebbe alla luce, come nei Balcani, l’inganno della guerra tra poveri. Il trucco dello scontro etnico costruito per risparmiare la resa dei conti politica ai veri responsabili delle crisi. Gli esiliati parafulmini ideali per depistare la nostra legittima frustrazione su falsi obiettivi. Qualcosa che rende l’odio razziale utile ai poteri senza patria che dettano le regole di un’economia globale di rapina. Per questo è importante rispondere picche a chi cavalca la discordia. Non solo per motivi umanitari, ma per smascherare il Grande Gioco di cui essi sono complici, e talvolta vittime inconsapevoli.


martedì 15 novembre 2016

Relazione sul seminario di Gianluca Cuozzo: “La memoria fra filosofia e letteratura”
                      (a cura di Enrica Gallo)

Col seminario sulla memoria fra filosofia e letteratura CircolarMente ha inteso proseguire un discorso iniziato con la riflessione dello storico Giovanni De Luna sulla costruzione della memoria pubblica nel nostro paese, che si vuole ora allargare allo statuto stesso della memoria riaffrontando, con uno sguardo disciplinare diverso, quel nodo del rapporto fra passato e futuro che rappresenta uno dei problemi fondamentali della contemporaneità. Un tema sicuramente complesso, che può peraltro avvalersi con Gianluca Cuozzo di un relatore d’eccezione, capace di coniugare passione espositiva e ampiezza di sguardo: i suoi studi infatti attingono, pur partendo dallo specifico filosofico, alla letteratura, alle arti visive, al mondo dei media, per individuare le coordinate di questo nostro presente immemore.
Perché è così che si presenta, nella riflessione critica di questo filosofo, un mondo in cui mostra ormai di prevalere una disaffezione generale rispetto all’esercizio della memoria: un costante obliare che nasce direttamente dall’imperativo del consumo, votato all’obsolescenza programmata dei prodotti come allo scioglimento dei legami libidici che intratteniamo con gli oggetti stessi, al fine di volgerci verso nuovi investimenti affettivi che ci permettano di riconoscerci in quel consesso dei consumatori che ha poi nelle discariche il suo luogo del rimosso, la sua minacciosa Ombra. Sempre nuovi al mondo, dunque, come il protagonista di un racconto di Paul Auster che si sveglia ogni giorno immemore di sé e che rappresenta per Cuozzo un perfetto simbolo di quel tempo puntiforme e spezzato di cui parla Zygmunt Bauman, impossibilitato a creare quella continuità personale e storica in cui possono nascere progetti trasformativi. L’azione politica eticamente impostata presuppone infatti a suo giudizio uno sguardo vigile in cui trovi posto il contenimento delle azioni passate, perché solo attraverso di esso possiamo davvero prendere le distanze dall’ideologia dominante che si cela sotto il bagliore luccicante delle merci.
E’ dunque su questo sfondo, delineato con accenni incisivi anche se forzatamente limitati dall’economia del discorso, che il relatore ha impostato la sua indagine sullo statuto della memoria, scegliendo alcuni autori la cui riflessione ha dato vita a paradigmi concettuali assai diversi, pur muovendosi da una comune consapevolezza della natura enigmatica di questa potenza dell’anima, ravvisabile in  una sorta di “eccedenza” della memoria rispetto al soggetto stesso che ricorda.

*  il paradigma del rimpatrio teomorfico del soggetto:    la memoria come approdo nel divino

A mettere in luce con insuperabile profondità e con accenni ricchi di pathos questa sproporzione fra l’Io che ricorda e il mare infinito della memoria è stato sicuramente Agostino nelle sue “Confessioni”. Quando ricordo, dice il grande filosofo cristiano, io mi addentro in un immenso edificio in cui percepisco l’eco dei miei passi comprendendo di essere in realtà “compreso” da qualcosa di molto più grande di me che mi sovrasta: una sensazione spiazzante che potrebbe provocare sgomento, se non sentissi che questi passi esitanti mi riportano all’origine di quella Verità che abita all’interno dell’uomo e in cui posso trovare il mio riconoscimento come soggetto e insieme la mia destinazione, così che l’edificio della memoria diventa un sacro tempio. In questo mare in cui è possibile perdersi esiste dunque per Agostino un approdo, un porto sicuro cui ritornare: nonostante la grazia divina rimanga inesplicabile, il nostro errare avverrà comunque all’interno di una dimensione di verità.
Un paradigma concettuale che secondo il relatore trova in un autoritratto giovanile di Durer (“Autoritratto con pelliccia”) una singolare corrispondenza. In esso infatti il pittore si rappresenta in situazione frontale, con lo sguardo ieratico e le mani, poste ad unire i lembi del mantello, ambiguamente benedicenti, dando vita ad una sorta di sovrapposizione fra un volto umano presentato con tratti di bellezza e nobiltà e il volto del Cristo, a simboleggiare la possibilità di trovare in esso la garanzia di un pieno riconoscimento di sé come soggetto dotato di un potere creativo che deriva direttamente dal grande artefice divino.

             * il paradigma dell’erranza senza riconoscimento:                 la memoria come frammento e labirinto 

Nessun rimpatrio è invece possibile per uno scrittore contemporaneo come Paul Auster, che pur rifacendosi in modo esplicito ad Agostino e alla sua indagine sull’enigma di una memoria tanto vasta quanto eccedente al soggetto che ricorda ne stravolge poi l’esito, vedendola non come luogo di approdo ma come terra di esilio, di erranza senza riconoscimento. Nel suo romanzo autobiografico “L’invenzione della solitudine”, e in particolare nella prima parte del testo in cui cerca di ricostruire la figura di un padre che anche in vita è stato assente al figlio come a se stesso, lo scrittore si trova infatti di fronte ad un caleidoscopio di immagini contradditorie, e lo stesso accade quando l’oggetto della  riflessione diventa il suo stesso percorso di vita. Nell’edificio della memoria, dove i passi di Agostino suscitano echi che rimandano all’infinito, Auster trova solamente le linee di un reticolo spaesante, simile al sistema circolatorio umano o ad una città tentacolare dove le coordinate per orientarsi non sono visibili o mutano al mutare dei passi, rendendo impossibile un vero riconoscimento del soggetto. Non è possibile per l’uomo contemporaneo ricostruire il passato alla ricerca della continuità personale, perché la cifra di questo mondo, secondo  questo scrittore che Cuozzo considera uno degli interpreti più interessanti del pensiero postmoderno, sta nel frammento, nel gioco fra gli specchi riflettenti di quelle “città di vetro” che danno il titolo ad  uno dei suoi libri più noti.
Così accade anche in una tela di René Magritte, il pittore surrealista che il relatore accosta ad Auster in questa concezione dell’impossibilità di riconoscimento dell’io. Nella “Reproduction interdite” vediamo infatti un uomo che si specchia cercando la sua immagine ma che si trova la strada sbarrata dal proprio osso occipitale, mettendoci di fronte  ad un enigmatico ritratto senza volto.
Quella che si delinea in questo secondo paradigma concettuale, di segno opposto a quello agostiniano, è dunque una memoria condannata ad una peregrinazione senza approdo e pertanto impossibilitata alla ricostruzione dell’integrità del soggetto: una memoria che trova una significativa torsione allucinatoria nei personaggi di Kafka come nelle illustrazioni delle Carceri di Piranesi, in cui al posto  delle città tentacolari di Auster incontriamo spaventosi incubi notturni. Gli spazi inabitabili e labirintici tracciati dal bulino di rame di questo incisore settecentesco, in cui scorgiamo figure disperse e schiacciate come in un gigantesco Panopticon in cui si viene costantemente osservati senza avere mai la possibilità di ricambiare lo sguardo, corrispondono, secondo la suggestiva interpretazione del relatore, agli immensi corridoi del tribunale e ai tanti luoghi spaesanti del mondo angoscioso di Kafka. Anche in esso infatti si aggirano personaggi sperduti, resi estranei a se stessi dall’impossibilità di trovare i fili della propria innocenza, perché hanno dimenticato ciò che sono stati e che proprio per effetto di questo oblio vengono esposti ad una colpa senza nome e senza possibile redenzione. 

     *il paradigma della memoria come archeologia del             residuale

Ma non è solo questo, la memoria. Non dobbiamo necessariamente pensarla, secondo Cuozzo, come imprigionata senza scampo nell’alternativa concettuale fra il paradigma dell’approdo al divino e quello dell’erranza nella frammentazione dell’io, perché altri paradigmi interpretativi sono possibili (pensiamo alla memoria involontaria  descritta magistralmente da Proust…). Quello che il relatore oggi ha scelto di illustrarci assume peraltro a suo giudizio una particolare significanza rispetto a quell’agire etico-politico cui abbiamo fatto prima accenno, offrendoci nel contempo un’alternativa molto interessante rispetto ai due paradigmi precedenti. 
Attraverso la suggestione di un dipinto del 17°secolo (una delle tante “Gallerie dell’antiquario”, che porta con sé un riferimento biografico - l’autore che Cuozzo presenta apparteneva ad una famiglia alto borghese di antiquari ebrei - oltre ad alludere ad una concezione della memoria in cui la capacità conservativa si coniuga con il suo potenziale trasformativo) incontriamo pertanto un ultimo paradigma, elaborato nelle sue “Tesi sul concetto di storia” da Walter Beniamin: uno dei più originali pensatori del novecento, che ha vissuto in prima persona la tragedia del nazismo, rimanendone schiacciato (si suiciderà infatti al termine di una disperato tentativo di sottrarsi alla cattura).
Per Benjamin la memoria non è soltanto un’attività volta a scoprire la Verità, come in Agostino, e per quanto la vastità del male non le sia sconosciuta, non si risolve negli incubi kafkiani. Allo stesso modo non è qualcosa di essenzialmente impolitico, che appartiene unicamente alla sfera individuale, ma afferisce tanto alla storia del soggetto quanto a quella della comunità, operando nella storia in senso trasformativo. Per questo pensatore infatti il ricordo è la capacità di riprendere dal passato quegli elementi che avrebbero potuto rappresentare una chance decisiva per cambiare le modalità dell’esistenza collettiva a cui siamo stati indotti dal nostro dimenticare; rappresenta l’unica occasione di uscire da una concezione della storia mitica, in cui tutto accade secondo una necessità intrinseca, e insieme il fermento indispensabile per svincolarci da quella falsa utopia a cui siamo stati condotti dal connubio fra un capitalismo prevaricatore e l’idea illuministica del progresso (ricordiamo che per Benjamin ciò che ne risulta è quella tempesta che impedisce all’Angelo della Storia – una delle sue figure di pensiero più note, ispirata ad un piccolo acquerello di Paul Klee che gli era particolarmente caro – di raccogliere e redimere le macerie della storia, verso cui pure si volge il suo sguardo compassionevole).

Solo l’inversione del tempo, solo a partire dal ricordo di ciò che gli uomini hanno vissuto e sofferto, solo riscoprendo la storia dalla parte dei vinti e cogliendo quelle “schegge messianiche” dense di valore profetico che si celano nelle pieghe del passato il futuro può essere ripensato e modificato: e questo, se possiamo aggiungere una nota sul relatore, è anche il pensiero che Cuozzo esprime in molti dei suoi scritti, condividendo l’idea di Benjamin che la storia vada “spazzolata contropelo” attraverso una memoria consapevole che ci permetta di uscire dal cerchio magico di un presente ibernato.