mercoledì 27 aprile 2016

Le basi culturali della xenofobia europea


Le basi culturali della xenofobia europea

Riflessioni a margine di un articolo di Micha Brumlik dal titolo “Il pensiero vecchio delle nuove destre”

 
Cresce la consapevolezza della centralità che da tempo, e con crescente accentuazione, riveste la gestione “politica” dei flussi migratori in Europa, Italia ovviamente compresa. Le politiche sostenibili di accoglienza ed integrazione non solo si scontrano con le oggettive difficoltà che derivano dal loro richiedere tempi lunghi ed una buona disponibilità diffusa per dimostrarsi efficaci, non solo sono vieppiù complicate dalla debolezza strutturale delle istituzioni Europee, ma a ciò si aggiunge una incontestabile impotenza a fronteggiare le crescenti indisponibilità che sempre più assumono il carattere di aperto rifiuto e chiusura. I megafoni xenofobi stanno coprendo le voci troppo deboli e confuse dell’accoglienza. Lo stesso successo mediatico di Papa Francesco non pare in grado di spostane più di tanto umori e atteggiamenti concreti. La partita si gioca, ovviamente, sul piano delle politiche concrete, sia quelle dedicate alla gestione “a valle”, sia quelle mirate a risolvere il più possibile le cause scatenanti “a monte”. Non meno centrale, però, proprio per meglio definire e attuare tali politiche, deve essere la conoscenza di cosa si muove nel campo avverso. Nel quale sono tre, in buona sintesi, i protagonisti; alla condivisone, diffusa e trasversale nella pubblica opinione, di sentimenti di rifiuto e chiusura, ed al collegato protagonismo, al tempo stesso fomentatore e strumentale, di partiti e movimenti di destra, populisti e xenofobi, si affiancano infatti i filoni di pensiero e le culture che, possono spiegare, almeno in parte, tale condivisione e, al tempo stesso, paiono ispirare in modo crescente quell’azione politica. Una loro maggiore conoscenza diventa quindi utile per superare quella sorta di “impotenza” cha la sinistra, in genere, prova nei confronti degli atteggiamenti di “chiusura”, e per smontare i presupposti teorici di movimenti e partiti che la pilotano. Offre spunti interessanti in questo senso l’articolo di Micha Brumlik, giornalista svizzero/tedesco, pubblicato su MicroMega 3/2016, che evidenzia ed analizza alcuni dei fondamenti della “nuova” destra europea: in primo luogo 1) - la celebrazione della “omogeneità culturale” 2) - la politicizzazione della “spazio” (territoriale ed etnico) 3) - la sacralizzazione delle funzioni sociali, il “dominio”. Cosa significano questi fondamenti che hanno come collante condiviso la ripresa che la “nouvelle droit” francese fa del concetto di “identità etnica”, ossia della convinzione che ogni etnia ha diritto di esistere ma solo nello “spazio” che la storia le ha consegnato? Attorno a queste idee di base si è coagulato, in particolare nel corso dell’ultimo decennio, un ampio movimento intellettuale di destra (spesso estrema), ricco di iniziative, di riviste, di momenti di incontro e di elaborazione collettiva. Brumlik cita nomi di intellettuali e riviste alla maggior parte di noi del tutto sconosciuti, ma che trovano inaspettate attenzioni ad ampio raggio. Sono ad esempio ben note le “relazioni” (come si vedrà tutt’altro che casuali, e comprensive di generosi sostegni finanziari) tra la Russia di Putin, l’FLN di Marine Lee Pen, il leader magiaro Viktor Orban. La comune matrice intellettuale originaria si trova nelle opere di Martin Heidegger, filosofo tedesco dello scorso secolo, filonazista, apertamente antisemita (personaggio comunque di difficile interpretazione a cui ad esempio sono rimasti personalmente legati, in quanto affascinati dalla sua cifra filosofica complessiva, pensatori, certo non di destra, come Herbert Marcuse e Hanna Arendt) soprattutto per la sua concezione dell’  “essere” (….essere un essere umano significa innanzitutto essere un tedesco, un francese, un russo, un africano e così via…..l’identità etnica è la realtà che più si avvicina all’essenza dell’uomo…..). Ad Heidegger si richiama apertamente una figura centrale nella formazione più recente del pensiero della nuova destra europea: il filosofo russo Alexander Dugin che, da sempre legato a Vladimir Putin, seppure con un rapporto spesso turbolento, ha definito nella sua opera, messa a punto a partire dagli anni novanta, una teoria politica, sicuramente mirata alla realtà russa (e alla strategia putiniana di rilancio dell’impero russo), ma che ha trovato attenzioni e riprese in campo europeo. Dugin sostiene che l’innaturalità della globalizzazione capitalistica sta riattivando sani anticorpi nazionalistici, unica possibilità di reagire all’ingovernabilità del mondo da essa prodotto, e la rinascita del sentimento di “popolo”. La particolarità del pensiero di Dugin, strettamente legato a quello di Heidegger e alla sua idea di “essere” e “popolo”, quella che di più ha avuto peso nello sviluppo del pensiero della nuova destra europea, è la rivalutazione della dimensione dello “spazio” nella connessione con il popolo, con l’essere. Ovviamente egli guarda alla particolarità russa, euroasiatica (da sempre caratterizzata dalla convivenza di più etnie strettamente legate ad una specifica “porzione” dello “spazio” russo) ma la sua rivalutazione della dimensione “etnica”, il rifiuto delle moderne regole democratiche (in nome di un ritorno a forme di governo gerarchico dal basso), la ferma opposizione alla globalizzazione occidentale ed al suo sovrapporsi alle etnie e comunità locali hanno trovato immediata attenzione in molti intellettuali di destra europei. Esemplare è il caso della destra francese che (ancora una volta ritorna questo “strano” legame con la cultura nazionalistica russa), più ancora che in Germania (da sempre, Hedfegger compreso; la destra tedesca è affascinata dallo spirito indipendente russo, la guerra nazista ad Est si mosse contro l’Unione Sovietica, contro il comunismo, non contro la Russia) apertamente rivaluta, nelle parole del FLN di Marine Le Pen, la storia francese riappropriandosi dei suoi miti, a partire da quello della Rivoluzione del 1789, ma spogliandoli del loro valore universalistico e traducendoli in conquiste del “popolo” francese (in questo aiutato da quelle di alcuni ex intellettuali di sinistra come Alain Finkelkraut).

Le idee di Dugin, quelle precedenti di Heidegger (che sostenevano che ogni generazione sempre si definisce in spazi già precedentemente organizzati dalle generazioni precedenti), assegnano un ruolo centrale alla categoria dello “spazio”; una categoria trascurata nelle elaborazioni della sinistra che da sempre lo concepisce unicamente nella sua accezione di “ambiente”, vuoi nelle riflessioni ecologiche piuttosto che urbanistiche. Ed è indubbiamente proprio la crisi epocale dei migranti, di milioni di individui costretti a fuggire dal proprio spazio per migrare in quello di altri che ha alimentato in modo diffuso timori, rifiuti, chiusure, che, a loro volta, hanno riavvalorato la centralità che il vecchio pensiero della nuova destra ad esso concede. Seppure del tutto slegato dalle odierne vicende suonano quanto mai pertinenti le parole dedicate da Kant allo “spazio”……..la natura ha rinchiuso tutti i popoli entro limiti determinati e siccome il possesso del suolo, sul quale può vivere un abitante della terra, è pensabile sempre e soltanto come il possesso di una parte di un tutto determinato (dalla forma stessa della Terra) su cui dunque ognuno ha un diritto originario, così tutti i popoli stanno originariamente in una comunanza di suolo, non però in una comunanza giuridica di possesso……

E’ difficile negare che le stesse strutture politiche e le istituzioni sociali possono essere tali solo se hanno una dimensione spaziale, che inevitabilmente coincide con la categoria della “sfera pubblica”. Nella versione di sinistra la sfera pubblica viene sviluppata, più in termini di idealità che di concreta realizzazione, come uno “spazio aperto”, uno spazio in cui ogni individuo, ogni popolo, può liberamente manifestarsi ed incontrarsi, in quella di destra, con una maggiore capacità e legame fra idealità e ricadute concrete, lo spazio, e quindi la sfera pubblica, viene restituito alla sua declinazione più antica di stretto collegamento con lo spirito etnico che da più tempo lo occupa

La differenza, che nell’attuale fase sta pesando in misura notevole, sta proprio nel ruolo centrale che il pensiero di destra assegna alla categoria dello “spazio”, a fronte di una sua evidente incompleta declinazione da parte della sinistra.

Che cosa possa significare l’attenzione della nuova destra europea alle categorie della spazio (fondamento 2) e dell’etnia, intesa nella sua “sacralizzazione della omogeneità culturale” (fondamento 1), è facilmente riscontrabile nelle recenti evoluzioni avvenute nella Ungheria di Viktor Urban e nella Polonia ed in particolare nei termini e modi in cui sono definite nelle loro nuove (Ungheria) Carte Costituzionali. Analogo riscontro è possibile stabilire fra queste Costituzioni e molti dei punti centrali della teoria politica euro-asiatica di Dugin.

In esse sono poi rintracciabili collegamenti con il pensiero di Julius Evola, da sempre pensatore principe per la destra (estrema) europea, capace di criticare “da destra” il fascismo mussoliniano. Evola ha elaborato un pensiero politico che, come concezione della composizione sociale, si rifà apertamente al sistema induista delle caste e che, come articolazione del potere, ne pone il fondamento nella sua valenza di “dominio sacrale” (fondamento 3). Avrebbe certamente applaudito il passaggio del preambolo della nuova Costituzione ungherese che la collega al mitico re-santo Stefano!

Alexander Dugin, Julius Evola, Martin Heidegger, sono i teorici a cui fanno riferimento gli “intellettuali” della nuova destra europea nel definire strategie che mirano apertamente alla creazione di una comune forza politica tesa alla chiusura etnica, al rifiuto non solo dell’accoglienza ma di ogni altra cultura, alla lotta contro il multiculturalismo, lo stile di vita consumistico dominante, la globalizzazione, l’industria culturale.

Valgono per tutti le seguenti  recentissime dichiarazioni di Martin Sellner, intellettuale austriaco……il nostro obiettivo è un arricchimento spirituale, intendiamo incendiare i cuori, mettere qualcosa in movimento, porre domande decisive in maniera profonda e con conseguenze politiche….il dormiente furore teutonico, l’eterna febbre tedesca che si irradia dalle foreste vergini germaniche così come dalle cattedrali gotiche, tutto questo si riunisce in noi…..io credo che viviamo nel tempo della decisione…..

Certo sono parole che suonano così stonate ed così fuori dal tempo, dai nostri tempi, da sembrare impossibili da collegare ai “semplici” sentimenti di timore di perdita del proprio “particulare” che sono alla base di buona parte delle manifestazioni di chiusura e rifiuto delle nostre “liquide” società; certo sono frasi così esoteriche e visionarie da sembrare impossibili da collegare ai calcoli meschini e strumentali degli attuali partiti populisti e xenofobi.

Però la storia del XX secolo ci ha insegnato che tragedie immani si sono innescate quando, con percorsi sottovalutati e ignorati, si è realizzata una perversa unione fra una parte del popolo, partiti di massa, seppure non di maggioranza, e  filoni di pensiero del tutto simili a questi

sabato 23 aprile 2016

Quanto pesano i secoli bui sull'emencipazione - Articolo di Umberto Galimberti


Quanto pesano i secoli bui sulla emancipazione

Articolo di Umberto Galimberti – inserto “Donna” La Repubblica  23/04/2016

 
“La natura ama nascondersi” diceva Eraclito e la donna, in quanto depositaria della specie, dall’origine dei tempi ha condotto una vita segreta quando non segregata. Gli uomini, liberi dalla procreazione e dalla cura dei figli, non hanno mai avuto una vera comprensione e un vero rapporto con la “natura” e perciò hanno inventato quel “teatro” che si chiama “storia”, dove hanno messo in scena le loro gesta e con le gesta la loro celebrazione. Relegata nella natura la donna ha occupato il posto che la cultura le ha assegnato, una cultura che, prodotta dell’uomo, è perciò stesso il territorio del suo incontrastato dominio. Anche la donna dispone di un potere assoluto: il potere di vita  e di morte, simile al potere del Re, simbolo dell’ordine sociale prodotto dall’uomo. I due potere confliggono e nella pratica medioevale dello jus primae noctis, dove la donna in procinto di sposarsi doveva passare la prima notte col Re, i due potere si confrontano: ciò che accade non è tanto un evento sessuale quanto la subordinazione del potere della donna, depositaria della “riproduzione naturale”, al potere del Re, depositario della “produzione sociale”, il cui ordine si fonda proprio sul divieto alle donne di accedervi. E questo fin dai tempi in cui la donna, come riferisce Levi Strauss, era considerata “corpo=merce di scambio”, senza possibilità di emanciparsi, perché se si fosse sottratta allaa condizione di merce avrebbe interrotto la circolazione dei beni e quindi l’ordine di produzione su cui la società si fondava. Vivere nella società come esclusa, anzi come necessariamente esclusa onde consentire il mantenimento di un certo ordine sociale, espone inesorabilmente la donna alla violenza del maschio che, prima di essere politica, economica, sociale, sessuale, è “strutturale”. La struttura dell’esclusione come fondamento dell’ordine. Questo, come ci riferisce l’economista Muhammad Yunus, si vede ancora oggi nelle culture in cui vige un’economia di sussistenza, lo si vede nell’ordine sociale dei paesi mussulmani, e persino nei nostri paesi dove il patriarcato ha eretto, con qualche eccezione, la società fino alla Seconda Guerra Mondiale. Va da sé, a questo punto, che l’emancipazione della donna, il suo ingresso nell’ordine sociale non potrà avvenire ad opera del maschio, perché nessuno si fa sottrarre il potere che possiede e che, misurato sui secoli in cui è stato in vigore, finisce per  apparire naturale, tanto agli occhi degli uomini che a quello delle donne (perché, come è noto e la storia ha sempre dimostrato, il potere non si basa tanto sull’esercizio della forza quanto sul consenso dei dominati alla subordinazione). Per convincerci basta pensare a quanta disapprovazione, non si sa se per invidia o per intima convinzione, suscitava l’odierna emancipazione femminile suscitava nei discorsi delle nostre nonne. O a quanto l’emancipazione disturbi l’atavica concezione che gli uomini hanno delle donne, racchiusa nell’aggettivo possessivo che fa dire: la mia ragazza, la mia fidanzata, mia moglie. Ovviamente vale anche il reciproco ma per la donna quell’aggettivo non risponde ad un bisogno di possesso, ma di protezione e di riconoscimento sociale che, per come è ancora strutturata la società, passa attraverso l’uomo. L’emancipazione femminile, cambierà la storia per come l’abbiamo fino ad oggi conosciuta. Ma nel frattempo, come in ogni cambiamento radicale, ci saranno vittime che temono le possibili ritorsioni se denunciano, e donne che, per una sorta di delirio di onnipotenza, pensano di poter cambiare il loro uomo sottoponendosi, in ciò alleate con il loro masochismo, a umiliazioni verbali, psicologiche, e fisiche che non distruggono solo la loro dignità, ma mettono in serio pericolo anche la loro vita.

 

 

venerdì 22 aprile 2016

Commenti a margine della conferenza del 

dott. Claudio Vercelli 

"Resistere all'imbarbarimento ed essere 

donna ai tempi del terrorismo in M.O."


Per celebrare degnamente sia l’anniversario della Liberazione che l’altrettanto importante 70° anniversario dell’accesso delle donne italiane al voto, l’associazione CircolarMente  ha affidato al prof. Claudio Vercelli, in collaborazione con l’ANPI di Avigliana e raccogliendo una gradita sollecitazione del sindaco Angelo Patrizio, il compito non facile di tenere insieme la memoria della Resistenza come nucleo fondante dei valori repubblicani e democratici - una stagione di lotta in cui le donne hanno fatto la loro parte - e la riflessione su di una difficile attualità, in cui l’imbarbarimento non appare solo come un rischio potenziale ma come tragedia in atto in molte zone del mondo, segnando un regresso culturale e umano in cui la libertà delle donne diventa davvero uno spartiacque fondamentale. 
Un compito che il relatore ha accolto mirando anzitutto a contestualizzare il problema dei diritti negati alle donne in un disegno comprensivo di molti elementi intrecciati, per evitare una lettura che riposi sull’idea superficiale e pericolosa di uno scontro in atto fra civiltà evolute e civiltà antropologicamente segnate dalla staticità, fra modernità e tradizione. Quello che sta avvenendo è invece tutto da inserire, a suo giudizio, all’interno di una difficile e travagliata modernità, i cui elementi caratterizzanti sono stati resi plasticamente attraverso alcune carte tematiche da cui ben si è evidenziata la presenza di differenziali assai marcati fra le varie aree del pianeta.  Risulta dirimente, in particolare, non tanto la diversa matrice religiosa, quanto piuttosto il fattore demografico che variamente combinandosi con il differente accesso alle risorse vede accentuarsi la sproporzione fra paesi ad alta fecondità, con popolazione giovane e mobile, e paesi più vecchi, a bassa fecondità, che diventano terre ambite di emigrazione. 
Differenziali che la globalizzazione ha intrecciato creando un cortocircuito esplosivo rispetto al quale peraltro il discrimine forte sta fra quei paesi in cui la tenuta dell’entità statale, se pure soggetta un po’ ovunque a spinte disgregatrici, ha rappresentato almeno un elemento di stabilità, quando non di garanzia di diritti di cittadinanza e di protezione giuridica delle minoranze, e quei paesi in cui la statualità si è disgregata. E’ proprio questo, a giudizio del relatore, l’elemento cardine che ha favorito da un lato l’instaurarsi del radicalismo islamista di matrice jihadista, e dall’altro – vedi il caso esemplare della Libia – l’emersione di micro comunità che hanno assunto un peso sempre più marcato come soggetti collettivi di appartenenza e di gestione delle risorse, ma che in generale obbediscono a logiche conservatrici e al cui interno la condizione delle donne è spesso di pesante subalternità, determinando un  forte arretramento culturale evidente soprattutto nell’accesso negato allo studio e alla partecipazione alla vita pubblica.
Da qui si accende il dibattito, con domande che sollecitano il relatore ad approfondire il possibile effetto della migrazione nel modificare posizioni culturalmente regressive, a ragionare sul ruolo passato e presente delle potenze occidentali nel difficile scacchiere medioorientale, a partire dai lasciti oscuri della colonizzazione fino alle guerre di supposta “esportazione” della democrazia, ma soprattutto ad interrogarsi sulle  sfide interne alla nostra democrazia sociale che sono sottoposte oggi a grandi difficoltà legate a trasformazioni non ben governate: per tornare poi, attraverso alcuni interventi mirati a riportare la riflessione al tema iniziale, a ragionare sulla condizione delle donne nei nostri paesi occidentali che si ritengono su questo piano alquanto evoluti, ricordando come questa evoluzione non rappresenti un’acquisizione stabile e soprattutto come essa sia stata il risultato di un processo difficile in cui alle donne davvero non è stato regalato niente…

venerdì 15 aprile 2016

La Sinistra non capisce l'Islam - Articolo di Fabio Gambaro su La Repubblica del 15/04/2016


La Sinistra non capisce l’Islam

Articolo di Fabio Gambaro – La Repubblica del 15/04/2016

 
“Abbiamo perso la speranza e non vediamo quella
degli  altri a cui resta solo la religione”

 «Anche se motivato da lodevoli intenzioni, e cioè dalla volontà di non condannare tutta una comunità, è un errore dire che i terroristi del Califfato non hanno nulla a che fare con l’islam». Parte da qui la riflessione di Jean Birnbaum. studioso francese, nonché responsabile del supplemento libri di “Le Monde”, che ha da poco mandato in libreria “Un silence religieux” (Seuil), un saggio controcorrente, in cui analizza il ruolo della religione nel jihadismo e il rapporto tra la sinistra e il mondo islamico, il cui sottotitolo recita: “La sinistra di fronte al jihadismo”. Secondo l’autore, troppi esponenti della sinistra tendono a rimuovere il movente religioso dei terroristi per ingenuità e senso di colpa, ma anche perché sono figli del razionalismo illuminista, motivo per cui non riescono a comprendere la religione come forza autonoma capace di diventare un vero agente politico. «Solo la verità è rivoluzionaria, si diceva una volta. Quindi dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, senza edulcorarla. Possiamo sempre cercare di rassicurarci, dicendoci che i giovani jihadisti sono solo pazzi, mostri o emarginati che vengono manipolati, ma la realtà è ben diversa. Se un terrorista, il cui discorso si rifà di continuo al Corano, uccide in nome di Allah, non possiamo dire che le sue azioni non hanno nulla a che fare con l’islam. Chi siamo noi per negare il suo rapporto con la fede? Purtroppo l’islamismo si esercita in nome dell’islam, anche se per fortuna non tutto l’islam è islamista. I fanatici del califfato hanno origini sociali e culturali molto diverse, l’unico elemento che li unisce è il loro rapporto particolare con la religione. E per sconfiggerli dobbiamo capire che la motivazioni autenticamente religiosa delle loro scelte. Il che evidentemente non significa giustificarli». D) Non riconoscere la dimensione religiosa del terrorismo islamico è un errore strategico? «Perché significa pugnalare alla schiena tutti coloro che nell’islam sanno benissimo che questa relazione esiste e cercano ogni giorno di combatterla. All’interno del mondo musulmano si sta svolgendo un’aspra battaglia tra due diverse concezioni dell’islam. Dobbiamo prenderne atto e sostenere tutti coloro che cercano di sottrarre la fede ai fanatici che la deturpano, rifiutando un islam violento, intollerante e omicida. Solo riconoscendo il pericolo si può combatterlo. Il problema è che la violenza jihadista non rientra nelle nostre griglie concettuali e in particolare in quelle della sinistra francese che ha completamente rimosso la dimensione religiosa. Parlare solo di povertà o emarginazione — dimensioni importanti — escludendo la religione, è un modo per ricondurre il problema alle nostre abitudini mentali». D) Perché la sinistra non riesce a pensare la dimensione religiosa? «La sinistra, in particolare quella francese, si è costruita nel solco della tradizione cartesiana, illuminista e marxista, inseguendo il fantasma dello sradicamento della religione, considerata solo un’illusione, una chimera. Il famoso “oppio dei popoli”, di cui parlava Marx e che l’emancipazione sociale avrebbe dovuto far scomparire. Fedele a questa visione, la sinistra ha rinunciato a pensare la religione e la sua forza. Ma la fede non è sempre il sintomo di qualcos’altro. Seguendo le tracce di uno studioso come Christian Jambet, penso che occorra riconoscere una sorta di materialismo spirituale, nel senso che la fede, lungi dall’essere solo un’illusione o un riflesso, può diventare una forza materiale». D) A questo proposito lei rende omaggio a Michel Foucault che fu uno dei primi a sottolineare la valenza politica dell’islam, quando si recò in Iran all’inizio della rivoluzione islamica... = Foucault ha saputo sottolineare la forza propria del messianesimo religioso, tanto che ha parlato di “politica spirituale”. In Iran capì che l’energia che stava dando fuoco alle polveri era la speranza religiosa, riconoscendo tra l’altro che in occidente non sappiamo più cosa sia la politica infiammata dalla fede. Non inseguiamo più “la storia sognata”, che invece in passato è stata importante anche per noi. Proprio perché abbiamo rimosso questa dimensione, oggi ci sembrano impossibili le motivazioni religiose del jihad». D) Perché tali motivazioni religiose danno luogo all’iperterrorismo? = L’islamismo è una reazione alla modernità occidentale e al tentativo di modernizzare l’islam. Al contempo è anche una reazione alle umiliazioni che il mondo occidentale ha inflitto al mondo musulmano. Come ha detto Derrida, tutte le comunità sono attraversate dalla pulsione di morte, quindi anche le comunità religiose, che, prima o poi, sono costrette a fare i conti con i problemi identitari, il fondamentalismo e la violenza. Nell’islam oggi però c’è qualcosa di particolare, come sottolineano Mohammed Arkoun o Abdennour Bidar. L’islam si propone come un’alternativa radicale al mondo contemporaneo, quindi — come ogni volta che s’intende farla finita con un certo mondo — si pone la questione della violenza. I jihadisti non vogliono cambiare il mondo, vogliono distruggerlo».

D) Insomma secondo lei i giovani che oggi vanno in Siria a combattere sarebbero mossi da una spinta ideale che non sappiamo capire? = Non voglio assolutamente banalizzare il male o giustificarlo, ma non si può pensare che questi giovani siano mossi all’inizio solo dall’odio e dal desiderio di annientare gli altri. Quando ascoltiamo le loro motivazioni, scopriamo che sono indignati dal mondo contemporaneo, che non si riconoscono nella democrazia e che desiderano raggiungere i fratelli del Califfato. Insomma, all’inizio sono motivati dal bisogno di giustizia e di fratellanza, da una forma di speranza per noi incomprensibile che poi si manifesta con un volto odioso e violento. Se non capiamo questa speranza radicale, non possiamo capire quello che sta accadendo. D) Solo che per loro la speranza non si realizza in terra ma nell’aldilà... = I jihadisti vogliono farla finita con la storia, con la politica e soprattutto con la vita. Da qui il desiderio e l’elogio della morte. Ma tutto ciò nasce da una speranza. La sola questione che conta è quella posta a suo tempo da Kant: che cosa ci è lecito sperare? La sinistra però non capisce più il bisogno di speranza dei giovani e non ha nulla da proporre loro. Di conseguenza, più la speranza radicale profana — quella della sinistra che vuole cambiare il mondo — diserta la realtà, più si afferma una speranza radicale religiosa, che poi produce le tragedie che abbiamo conosciuto. Oggi la sinistra sa solo proporre la gestione del presente».

giovedì 14 aprile 2016

Commenti a margine della conferenza
 tenuta da G. Colombo su:
"La responsabilità nella ricerca e nell'innovazione: una chiave per un nuovo modello di sviluppo?"
(sintesi di Enrica Gallo)

Sulla necessità di cambiare i nostri atteggiamenti mentali di fronte ad una tecnologia che può sviluppare una potenza inusitata, diventando non già serva, ma padrona delle nostre vite, e che pertanto va attentamente governata avendo ben presente che non tutto ciò che può essere fatto è giusto che lo sia, il dottor Colombo ha speso parole assai nette, ricordando come già nel lontano 1979 il filosofo Hans Jonas (“Il principio responsabilità”) sottolineasse l’esigenza di un’etica nuova proporzionata all’ampiezza delle sfide epocali che ci attendevano. Un’etica che non può oggi costituirsi sulla base di soli princìpi – benché essi siano indispensabili per orientare all’azione determinandone i fini – ma che deve manifestarsi come “etica delle conseguenze”: un’etica cioè che guarda al futuro, alle entità umane che stanno ancora al di là del tempo e a cui dobbiamo consegnare un pianeta abitabile, e che pur dovendo necessariamente confrontarsi con la non predicibilità del futuro non può rinunciare a  giocare un ruolo anticipatore che consenta una scelta ragionata.
Certo in molti casi le scelte che dobbiamo compiere si situano su di un crinale davvero scivoloso: pensiamo, ha aggiunto il dottor Colombo, a quel meccanismo irresponsabile che governa la crescita avvitandosi su se stesso in una spirale autolesionistica che sembra condannarci ad una scelta impossibile fra sostenibilità ambientale e instabilità sociale, dal momento che l’aumento dell’efficienza tecnica, determinando un aumento della produttività, comporta necessariamente un maggiore prelievo ambientale e un ritorno in forma di rifiuti, che a loro volta contribuiscono a saturare un pianeta già abbastanza provato. 
Eppure alle contraddizioni corrispondono anche delle opportunità, come il dottor Colombo ha saputo illustrare con parole di cauto ottimismo scendendo in ambiti vicini alla nostra esperienza ma non per questo minimali (l’invecchiamento della popolazione, la raccolta dei rifiuti, l’energia) in cui non pare poi così impossibile coniugare efficienza e sostenibilità, lavoro attuale e promessa di futuro. Occorre nondimeno saper porre la domanda “giusta”, passando dall’idea di cogliere al meglio le opportunità che si pongono oggi per migliorare l’esistente a quella, più complessa e più coerente con una visione davvero etica, su che cosa possiamo fare per anticipare un futuro che riteniamo desiderabile e il cui disegno non può che essere oggetto di una contrattazione democratica, in cui l’imprevedibilità si iscriva nel carattere collettivo della responsabilità.
Non basterà, questo, ad ovviare a quella fragilità del nostro esistere su questa Terra, su cui uno degli interlocutori richiama l’attenzione e di cui il dottor Colombo è ben consapevole; non sarà sempre sufficiente a varcare la distanza fra i modelli teorici e la realtà, che ha una sua resistenza, come viene ancora sottolineato nel corso del dibattito, ma potrà a suo giudizio evitare l’effetto di trascinamento tecnologico, sollecitando forze consapevoli e facendo rivivere  la partecipazione informata. Bisognerà pertanto spendere, e spendersi, in cultura, perché le sensibilità nuove che già sono in atto di questo si nutrono, di saperi e forme mentali a cui tutte le discipline, tutte le branche del sapere possono e debbono concorrere, ognuna “agganciando” il futuro secondo la sua specificità.
Parole, queste, che hanno trovato un’eco assai favorevole nel pubblico di CircolarMente che di questa sensibilità nuova è davvero portatore, dimostrandola con la sua partecipazione, e che ha trovato in questo incontro con un relatore di grande competenza e di pari passione e affabilità un’occasione importante di riflessione comune.




domenica 10 aprile 2016

Note sul concetto di comunità
(a cura di Enrica Gallo)


Aggiungo queste brevi note, tratte da “Bios” di Roberto Esposito, al materiale utilmente orientativo che Giancarlo ha messo a disposizione su di un tema tanto interessante quanto sfuggente per le molteplici implicazioni del termine e per l’ampiezza della riflessione filosofica e politica che su di esso si è misurata.
In questo testo Esposito analizza il rapporto fra biopolitica e modernità interpretando l’intero percorso della cultura filosofica e politica occidentale alla luce di un principio che definisce “principio di immunizzazione”, intendendo con esso la costante tendenza ad assumere il negativo, incorporandolo, come mezzo necessario per raggiungere uno scopo che si intende apprezzabile (come avviene nella vaccinazione, attraverso la quale si introduce nell’organismo una parte dell’agente patogeno da cui ci si vuole difendere). L’esempio più significativo di questa tendenza è sicuramente il Leviatano di Hobbes, in cui la violenza è assunta dallo Stato per far cessare la violenza che si svilupperebbe altrimenti in modo distruttivo dal conflitto “naturale” degli uomini: la centralità del negativo peraltro non si esaurisce, secondo Esposito, nella linea che segna il pensiero politico moderno ma tocca molti altri ambiti (pensiamo al Freud del “Disagio della civiltà”, che sottolinea come il contenimento degli impulsi vitali sia necessario al processo di civilizzazione…).
Certo l’esigenza difensiva è ben comprensibile e non esistono società che non l’abbiano posta al centro della loro elaborazione culturale e politica: e però, aggiunge Esposito, nella civiltà occidentale il bisogno immunitario è diventato un vero e proprio feticcio dando vita, nella sua formulazione estrema, all’aberrazione nazista in cui l’ossessione per la conservazione del bios del popolo tedesco ha prodotto una spaventosa cultura della morte, un intreccio perverso fra biopolitica e tanatopolitica, che se pure in forme meno eclatanti può instaurarsi anche nelle nostre democrazie ogni qualvolta l’ambito politico si sovrappone senza mediazioni a quello della vita cercando di normarla.
Ma veniamo al tema che in questo momento ci interessa mettere a fuoco. Nell’esplorare più sottilmente il concetto di “immunitas”, Esposito fa alcune osservazioni che mi sembrano significative  ponendolo in contrapposizione dialettica con quello contrastivo di “communitas”, che pur rappresentando il suo antonimo condivide con esso l’etimo “ munus” che significa “dono” (e che rimanda a sua volta all’etimo “onus” che significa onere, obbligazione). Un dono che in un caso segnala il vicendevole scambio di sé che deve attivarsi nella relazione comunitaria – cosa che può essere peraltro percepita come vincolo e ancora come pericolo per l’individuo, perché ne  mette a repentaglio la singolarità -, nell’altro la dispensa dal dono: in questo senso il termine/concetto di immunitas rappresenterebbe la forma privativa di communitas, la difesa nei confronti dei suoi effetti espropriativi con il ripristino del “proprio” sull’ ”altrui”.
Nondimeno, osserva Esposito, fra questi due concetti c’è una stretta reciprocità: benché appaiano ed effettivamente siano in reciproca e insanabile contraddizione, essi hanno una connessione strutturale. Il concetto di immunitas infatti presuppone ciò che pure nega, perché la comunità  non scompare dal suo ambito di pertinenza, ne rappresenta anzi una sorta di ingranaggio interno che la mette al riparo da un eccesso non sempre sostenibile, perché per sopravvivere ogni comunità deve fare i conti con il fatto che il dono potenzia la vita, ma può anche devastarla spingendola al di là di se stessa, mentre allo stesso tempo il blocco del dono impedisce l’espansione biologica dell’essere. Conservazione e sviluppo sono implicati l’uno nell’altro, come libertà e sicurezza, come individuo e comunità, in una tensione che non può essere risolta a favore di uno dei due termini senza impedire di fatto la vita, perché a noi umani, dice Esposito, è dato  solo il formarsi nella relazione per diventare davvero “singolari”.
                                                                      ………………………….


Sul tema specifico della comunità Esposito ha scritto un testo (“Communitas. Origine e destino della comunità” - edito da Einaudi nel 98) in cui cerca di ridefinire concettualmente l’idea di comunità attraverso quegli autori – da Rousseau a Kant a Heidegger- in cui prevale una concezione della comunità in quanto legge comune dell’essere insieme, ma in cui è anche presente la coscienza tragica di ciò che contiene dal punto di vista politico. Di recente, in alcune interviste, ha sottolineato ulteriormente la necessità di riaffermare l’originarietà della relazione, scardinando l’immagine di noi stessi come individui che si costruiscono prima e indipendentemente da essa.   

lunedì 4 aprile 2016

- "La coscienza dei luoghi" - saggio di Alberto Magnaghi e Giacomo Becattini


In collegamento con il precedente post sul concetto di “comunità” Nives Enrietti ha inviato questa segnalazione:

“La coscienza dei luoghi”

saggio di Alberto Magnaghi e Giacomo Becattini

Recensione apparsa su “Il Manifesto” del 09/03/2016 in articolo con titolo “Le virtù del territorio dopo l’apocalisse finanziaria”

Giacomo Becattini è uno dei più accreditati studiosi di sviluppo locale e in particolare di distretti industriali. In questo La coscienza dei luoghi (Donzelli) arricchito dalla presentazione dell’urbanista Alberto Magnaghi e dal dialogo conclusivo tra i due compie il passaggio finale del suo «ritorno al territorio» di un’economia che ultimamente, con la crescente finanziarizzazione, ha ribaltato nel suo opposto il proprio profilo costitutivo di «strumento di ricerca della felicità umana». Trasformandosi cioè in una macchina mostruosa per «enormi arricchimenti di pochissimi» e disastri sociali, ambientali per il resto dell’umanità. Lo stesso Magnaghi descrive le tappe del «ritorno al territorio» di Becattini: «tre accentuazioni concettuali che si incrociano, in modo non lineare, nel tempo: 1) la prima la riassumerei con la frase = dalla aspazialità del fordismo all’humus territoriale dei distretti industriali, come antidoto alla crisi da gigantismo industriale; 2) la seconda la riassumerei nel recente concetto avanzato da Becattini, superando criticamente il concetto di settore, di coralità produttiva dei luoghi, cui si accompagna la visione utopica di un mondo di scambi produttivi solidali fra molteplici comunità di luogo; un mondo di relazioni che porta a maturità il pensiero distrettualista verso muove frontiere delle politiche di sviluppo locale a livello globale; 3) la terza nella quale, a partire dal rovesciamento di casualità fra i due concetti di ruolo e produzione a favore del primo, Becattini compie l’ulteriore passo di riprendere il tema marxiano del rapporto tra fini e mezzi della produzione, indicando la felicità delle persone come finalità ultima della produzione». La dissoluzione del tessuto sociale che aveva caratterizzato l’assetto socioeconomico della fase industriale fordista e i «tanti piccoli spargimenti» delle soggettività nel territorio postfordista favoriscono la ripresa di interesse dei luoghi; soprattutto da parte di quegli attori che muovono dalla difesa dei beni comuni o che si ritrovano «individualmente insieme» nella valorizzazione di beni culturali e paesaggio. Costituendo alternative alla «società liquida» descritta da Zygmunt Bauman. Becattini ci offre interpretazioni dense e allo stesso tempo semplicissime dell’ineluttabilità dell’odierna deriva finanziaria dell’economia: se l’unica merce che ha davvero valore è oggi il denaro e l’economia è determinata da una parossistica ricerca del profitto che «si avvita sempre più su se stessa», l’impresa scopre i vantaggi della liberazione dai vincoli di qualsiasi territorializzazione del capitale. Questo è evidente per le grandi aziende multinazionali, i cui odierni dirigenti intermedi sono lontanissimi dalle strategie definite da consigli di amministrazione a tempo il cui massimo obiettivo è ovviamente l’ottimizzazione dei profitti a breve. È «la disfatta dell’economia». Becattini propone in alternativa di riaffermare il locale tramite la «coscienza dei luoghi»; cui giunge con una traiettoria disegnata nell’interpretare gli scivolamenti del concetto di «valore condiviso del contesto», che contrassegna «il capitale sociale» in alternativa a quello «umano». Esso è costituito dagli elementi relazione tra produzioni locali e territorio, prodotti e patrimonio ambientale, abitanti e produttori. L’autore giunge così a prospettare una possibile rigenerazione locale della società, caratterizzata da economie attente tanto alle merci prodotte che alla riproducibilità dei caratteri paesistici dei territori. Protagonisti di questa «ripresa dell’azione» sono soprattutto le soggettività già attive sui beni comuni, gli abitanti consapevoli. Dalla coscienza di classe a quella di luogo dunque; che ancora Magnaghi definisce come «la consapevolezza, acquisita attraverso il percorso di trasformazione culturale degli abitanti/produttori del valore patrimoniale dei beni comuni territoriali (…) in quanto elementi essenziali per la riproduzione della vita individuale e collettiva, biologica e culturale». È interessante cogliere come l’economista e l’urbanista giungano al comune declinare – ciascuno dalla propria prospettiva – del concetto di «sviluppo locale autosostenibile» come affermazione del territorio come soggetto corale.
Commenti a margine del seminario tenuto dal Dott. Roberto Gagnor su  "L'arte del fumetto fra creatività e scienza" - Sintesi di Enrica Gallo

Un seminario davvero speciale, quello che ha dato non solo al pubblico di CircolarMente ma anche ad un nutrito gruppo di allievi del corso di Operatore grafico multimedia presso la Casa di Carità Arti e Mestieri di Avigliana l’occasione di confrontarsi con Roberto Gagnor: un “fabbricante di storie” – come lui stesso si definisce – ancora molto giovane ma già maturo di esperienze  e competenze, che si è rivelato un interlocutore appassionato e di grande capacità comunicativa in un incontro dedicato ad esplorare le linee di confine fra arte e artigianato, creatività e scienza,  libertà inventiva e struttura.
Con la sua abile guida abbiamo potuto letteralmente entrare in quella che può essere definita “la macchina narrativa”, partendo naturalmente dall’angolo di visuale dello sceneggiatore che deve mettere la sua scrittura al servizio di ciò che verrà dopo, renderla dunque traducibile in immagine e movimento; capire, intanto, di cosa sono fatte quelle storie che nutrono il nostro immaginario, raccontano il mondo, dischiudono porte verso realtà altre, fanno insomma, a livelli diversi, “cultura”. Le storie sono in effetti il risultato di un processo di costruzione in cui l’idea iniziale - il momento aurorale, grezzo, non facilmente definibile - deve strutturarsi attraverso un vero e proprio lavoro scientifico le cui fasi non sono casuali e la cui codificazione molto deve, oltre che alla poetica aristotelica, agli strutturalisti del primo novecento come Vladimir Propp, che analizzando l’immenso patrimonio fiabesco ha potuto identificare ciò che resta costante sotto l’apparente infinita varietà delle forme. Perché non c’è storia – come ci ha mostrato Roberto Gagnor illustrando in modo assai avvincente il paradigma elaborato da Syd Field -  senza un evento che alteri una precedente situazione di equilibrio, senza un conflitto che dia vita al movimento e in cui il coinvolgimento emotivo non sia da ricercare attraverso una progressione in cui a provvisori “momenti di grazia” non succedano nuove alterazioni, fino allo scioglimento finale della tensione e al raggiungimento di un più maturo equilibrio.
Ma ancora, non c’è storia senza una coerenza interna che può prescindere dalla verità, ma non dalla verosimiglianza, e in cui l’autore non debba misurarsi con delle regole interne che sono anzitutto regole logiche. Perché la creatività non è legata alla spontaneità primitiva e incolta, come un certo romanticismo di seconda mano ci ha fatto credere: è piuttosto un’illuminazione che si accende su di un terreno di conoscenza robusta, articolata, precisa e che deve avvalersi di un pensiero certo flessibile e innovativo ma capace di confrontarsi con quei limiti, quei confini che di fatto rendono la creatività possibile, attivandola. Poi, naturalmente, l’autore con le regole può anche giocare, sovvertendole, ma deve anzitutto conoscerle profondamente, perché non c’è originalità autentica che nasca dal nulla e dall’improvvisazione, e parimenti non c’è creatività senza lavoro artigianale, senza tecnica, senza la capacità di selezionare, di tenere conto, di sottrarre…
Se questo è vero per ogni ambito in cui entra la sceneggiatura, ogni campo ha le sue specifiche regole di gioco, come Gagnor ci ha mostrato passando da quello della cinematografia al fumetto e aprendo scenari davvero sorprendenti per molti di noi, che pur sapendo come da tempo questa non sia più considerata un’arte minore, avevano un’idea assai vaga della raffinatezza formale e dell’originalità dei contenuti di molte graphic novel in cui le scansioni della tavola rimandano in qualche modo a partiture musicali e il disegno sa fare tesoro delle lezioni della pittura contemporanea. In particolare è stato molto interessante vedere come alcuni autori abbiano saputo intrecciare i sistemi di pensiero della cultura d’origine con altri di provenienza diversa, raggiungendo una nuova e più ampia ricchezza espressiva, come sempre succede quando non ci si rinserra all’interno di un troppo limitato “confine”.

venerdì 1 aprile 2016

Appunti sparsi sul concetto di "comunità" - a cura di Giaancarlo Fagiano


Appunti sparsi sul concetto di “Comunità”

Raccolti leggendo brevi saggi sul tema di Arnaldo Bagnasco, Giovanni Busino, Sergio Cotta, Giulio Sapelli
 

L’attuale contesto - sociale, economico, politico, culturale, mediatico - sta proponendo la/le “comunità” come una dimensione centrale, sia in senso positivo, quando viene individuata come una dimensione adatta per avviare e gestire processi migliorativi di diversa natura, sia in senso negativo, quando al contrario sembra ridursi alla base “ideale” per il manifestarsi di caratteri di chiusura verso l’esterno, verso l’ “altro”, verso ogni “novità” altrettanto intesa in senso ampio.. Si sta quindi rendendo necessaria una riflessione specifica sul suo ruolo e peso, al fine di ottimizzare, quando ad essa si riferiscono, le politiche propositive in senso positivo, piuttosto che quelle di contrasto alle sue potenziali derive conservatrici. Il primo passo consiste con buona probabilità nel trovare la più ampio condivisione possibile sul suo significato e sulle sue caratteristiche costitutive, su cosa si debba quindi intendere con “comunità”, partendo proprio da una migliore conoscenza del suo fin qui avvenuto utilizzo in campo filosofico, economico, e soprattutto sociologico. Dispiace constatare come la teoria e la prassi politica, di ogni orientamento (se non si assume come  attenzione fondante il richiamo  strumentale della comunità, nazionale, locale, etnica messo in atto dalle destre conservatrici e xenofobe) non si siano mai occupate in modo specifico della “comunità”, vista semplicemente, quando individuata come tale, come un potenziale bacino di consensi elettorali. Fermo restando ciò non si può però non constatare che in effetti “comunità” è uno dei concetti più dibattuti e controversi, che non si è infatti mai affermata una sua interpretazione condivisa ed acquisita. Il termine “comunità” è stato da sempre diversamente inteso ed usato, basti pensare che il sociologo inglese G.A. Hillery, nell’ambito di uno studio del 1955 sulla sola letteratura inglese, ebbe modo di individuare ben 94 (novantaquattro!) usi diversi del concetto di comunità.

Questi appunti si propongono, nella loro sinteticità e parzialità, di offrire un contributo in tal senso, una prima traccia utile ad eventuali ulteriori specifici approfondimenti, ovviamente riferita al solo contesto culturale occidentale ed europeo:

La parola del mese - APRILE 2016


LA PAROLA DEL MESE 

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

Aprile 2016
 

Comunita’

Dal latino “comunitas” (comunanza) derivato da “comunis” (comune)  - contiene diverse accezioni riferibili ad ambiti diversi, la definizione che qui più interessa è:

 
insieme di individui che condividono lo stesso ambiente fisico e tecnologico, formando un gruppo riconoscibile, unito da vincoli organizzativi, linguistici, religiosi, economici, interessi e consuetudini comuni, e più in generale da un elemento di comunione riconosciuto come tale dagli individui stessi, tali da farlo perseguire fini comuni