lunedì 30 maggio 2016

Che fine ha fatto il nostro ceto medio - Articolo di Ilvo Diamanti

Siamo diventati pessimisti. Nonostante i nostri governi, da oltre vent'anni, cerchino di tirarci su di morale. Prima Berlusconi: assimilava i pessimisti ai comunisti. Mentre oggi Renzi cerca di utilizzare le variazioni dell'economia e del mercato del lavoro, positive, per quanto lievi e contraddittorie, per sollevare il morale degli italiani e migliorare il clima d'opinione.
Eppure, nonostante tutto, la maggioranza degli italiani non ci crede. Non riesce a percepire - e ad "accettare" - questo cambiamento. Lo suggeriscono i dati del sondaggio di Demos-Coop, condotto alcune settimane fa. Due italiani su tre ritengono, infatti, che sia "inutile fare progetti per sé e per la propria famiglia". "Perché il futuro è incerto e carico di rischi". Dal 2000 ad oggi, si tratta del livello più elevato registrato dai nostri sondaggi. Segnala un sentimento di inquietudine più acuto di quello osservato nel biennio 2008-2010. Gli anni della crisi, quando l'indice di incertezza verso il futuro, in sensibile aumento, superò di poco il 55%. Oggi, però, l'insicurezza è cresciuta ancora. In misura particolarmente intensa. Soprattutto negli ultimi anni. Rispetto all'anno scorso: di circa 7 punti. Non per questo viviamo tempi di ribellione. Di rabbia. Semmai, di delusione. Come abbiamo avuto modo di osservare in altre occasioni: ci siamo abituati al declino. Non siamo contenti di quel che avviene, ovviamente.

Ma "resistiamo". Attaccati alla famiglia, alle reti sociali, distese sul territorio. Pratichiamo "l'arte di arrangiarsi", della quale, in Italia, siamo maestri. Tuttavia, il problema esiste e tende a riprodursi. A divenire patologico. Soprattutto perché riflette - e, a sua volta, moltiplica - un'altra sensazione, un'altra percezione, che abbiamo già registrato, negli ultimi anni. La "discesa sociale". Più di preciso, la perdita di posizione - in altri termini: lo scivolamento - nella scala di classe. La maggior parte degli italiani, infatti, oggi ritiene di appartenere a una classe sociale "bassa o medio-bassa". È una percezione condivisa dal 54% delle persone (intervistate da Demos-Coop): 12 punti in più rispetto al 2011. Certo, come si è detto, è da alcuni anni che si osserva questa tendenza. Ma oggi ha raggiunto una misura superiore al passato. Tanto più perché, parallelamente, il peso di coloro che si collocano nel "ceto medio" non è mai stato così limitato: 39%. Nel 2011 era il 50%. In seguito, era sceso, ma non così tanto. L'anno scorso, per esempio, si attestava intorno al 45%.

Le ragioni di questa "caduta" della posizione sociale - percepita - sono diverse. Ma una, in particolare, mi sembra importante. Emerge con chiarezza utilizzando, come chiave di lettura, la prospettiva della "professione". Il crollo della percezione riguardo alla posizione sociale - se escludiamo, ovviamente, i "disoccupati" - riguarda anzitutto e soprattutto gli "operai". Insieme ai pensionati - un tempo operai. E alle casalinghe - che, probabilmente, vivono in famiglie operaie. È presso queste categorie che il declino di classe è percepito in misura nettamente superiore che nel resto della popolazione. Non solo perché, come in passato, la quota di "operai" che si colloca nei settori più bassi della struttura sociale appare più ampia rispetto alle altre categorie professionali. Per la precisione: il 65%. Oltre 10 punti sopra la media della popolazione. Ma, soprattutto, perché è cresciuta in misura maggiore. Molto maggiore rispetto alle altre categorie professionali. E ciò fa emergere una frattura sociale che, nel dopoguerra, si era ridotta. Attraverso quella che Giuseppe De Rita ha definito la "cetomedizzazione"della società italiana. Gli italiani, infatti, si erano progressivamente addensati al centro della struttura sociale.

Nel 2006, giusto un decennio fa, 6 su 10 si definivano "ceto medio". Ora non è più così. Anzi: lo è sempre di meno. E in questo modo il clima di fiducia nel futuro frena. L'ottimismo si raffredda. Soprattutto fra gli operai, i pensionati, le casalinghe. Tra loro, la componente che si sente scivolare in basso, nella gerarchia sociale, negli ultimi anni è aumentata di 17 punti. Dal 48 si è allargata fino al 65%. Quasi due operai su tre, dunque, si considerano ai margini della stratificazione sociale. Mentre coloro che si sentono "ceto medio" sono diminuiti di 20 punti. Erano metà, nel 2011. Oggi sono il 30%. Parallelamente, fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi il processo di "cetomedizzazione" si è rafforzato. Ancor più, presso i liberi professionisti. Tra i quali, anzi, si è allargata la componente di quanti si sentono arrivati in cima alla scala.
Per questo la febbre elettorale che, da tempo, affligge e ancora per molto tempo affliggerà, gli italiani - amplificata dai media e dagli attori politici - mi pare in-esplicata. Certamente, non sarà risolta dal voto amministrativo. Né dal referendum. Perché il governo delle città è importante. Ed è importante la semplificazione istituzionale prodotta dal ridimensionamento del bicameralismo paritario. Ma la frattura di classe che oggi è percepita da metà della società italiana resterà. Immutata. E, viste le tendenze degli ultimi anni, appare destinata ad allargarsi. Chiunque vinca: a Milano, Roma, Napoli. A Torino, Bologna, Cagliari, Trieste. E altrove. Anche se il Senato verrà depotenziato da una riforma confusa. D'altronde, si tratta di una tendenza diffusa. Non solo in Italia. Come mostra il conflitto sociale esploso
in Francia contro il Jobs Act. Per questo, conviene fare attenzione al degrado che coinvolge il sentimento sociale. E spinge verso il basso gli operai, per primi, facendoli sentire "ultimi". Senza speranza di miglioramento. Perché così rischiamo davvero di perdere il futuro.

sabato 28 maggio 2016

Le mie ragioni per votare NO - Fagiano Giancarlo


Queste sono le ragioni

che mi faranno votare NO al referendum

(anche se non è la riforma costituzionale in sé la vera questione)



……si battono per l’idea, non avendone…….(Ennio Flaiano)



Per curiosità e indole personale sto cercando, leggendo e ascoltando i pareri sia di chi è per il SI sia di chi è per il NO, di farmi una personale opinione, la più ragionata possibile. Ad oggi, ma non credo che mi succederà di cambiare idea, penso che al prossimo referendum di Ottobre voterò un convinto NO.

Se qualcuno mi chiedesse di dire in poche parole il perché risponderei, dovendomi limitare al quesito referendario secco, che il nostro SI o NO deve valutare la modifica costituzionale per quello che è, per come è venuta fuori, non per il gradimento, o viceversa, verso chi l’ha promossa, come strumentalmente da più parti si cerca di fare, e che quindi, in questo senso, voterò NO perché, sulla base di quanto ho capito, la considero una brutta riforma, con molte contraddizioni, a rischio di buon funzionamento ed effettiva applicabilità, in sostanza così mal scritta in tante parti da disattendere le sue stesse finalità.

So bene quanto sia difficile maturare una personale opinione su temi che vedono divisi gli stessi esperti, molti costituzionalisti sono apertamente schierati per il NO, ma molti lo sono per il SI, e gli uni e gli altri lo sono proprio sulla base di differenti valutazioni di merito sulle modifiche introdotte. Se non c’è unanime accordo sulla materia fra i “tecnici” costituzionalisti credo sia inutile, e pretenzioso, improvvisarci noi esperti in materia. Letto quanto possibile, ascoltato quanto disponibile, riflettuto il giusto, giunge il momento di affidarsi alle ragioni di “testa”, ma anche a quelle del “cuore”, scegliendo fra tutte le opinioni incontrate quelle che ci sembrano più convincenti. Ed è quello che ho sin qui fatto.

Devo dire però che questa divisione, anche netta, fra costituzionalisti ha in qualche modo inciso: la mancanza di un minimo comune giudizio di merito non depone a favore della bontà “tecnica” della riforma, vuol dire che essa comunque si presta a giudizi fortemente contrastanti, ed una norma costituzionale, se ben fatta, dovrebbe per definizione unire e non dividere.

Ma è bene che io fin da subito confessi di non essere già in partenza predisposto ad un giudizio favorevole, perché questa riforma costituzionale, ed il suo tormentato percorso elaborativo ed approvativo, sono solo un tassello, ovviamente molto importante, di un più generale processo riformatore che poggia su considerazioni, e si pone obiettivi, che apertamente non condivido.

Riprenderò questo decisivo aspetto ma per intanto, tornando alla richiesta di quel qualcuno di spiegare il mio NO, se potessi usare qualche parola in più, facendo il possibile perché non siano troppe (ma la questione è quanto mai complicata) e sperando che possano essere in qualche modo utili a lui, e perché no anche ad altri, preciserei, sulle singole questioni di merito, che:

venerdì 27 maggio 2016

Referendum Costituzionale = Il SI di Caciari


Referendum = Il SI di Caciari



Intervista di Ezio Mauro = La Repubblica del 27/05/2016



Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?

Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico
Di cosa avevate timore?

Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?

Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica

Come mai quell'idea non ha funzionato?

Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?

Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?

Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?

E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?

Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche
Quali?
Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?

Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?

Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?"

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?

No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?

Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio

Sta dicendo che rifiuta il "no"?

Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni

Dunque?

Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?

E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi

E a sinistra?

Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?

Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?

E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente

Referendum Costituzionale = Il NO di Zagrebelsky


Referendum = Il NO di Zagrebelsky


Intervista di EZIO MAURO – La Repubblica del 26/05/2016



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PROFESSOR Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del "no" alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos'è successo?

Nel "fronte del no" convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L'atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l'allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?

Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?"Non penso a una "Spectre", per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l'autoritarismo, di "democratura". Ripeto: non c'è da preoccuparsi?

Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?

Il Senato è un dettaglio, o un'esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all'insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall'altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l'umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è "non ci sono alternative", e così il pensiero è messo fuori gioco

Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?

Con "i vertici" ho poche occasioni d'incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell'alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l'insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli
Ad esempio?

Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c'è l'esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone

Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l'economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare?
Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il "sì" spianerebbe una strada; il "no" farebbe resistenza

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?

Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all'impotenza e all'irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità

Anche lei pensa che l'Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
Per nulla. Ma l'Europa è una scelta, non un guinzaglio. L'articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l'Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un'abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L'Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia

Sta dicendo che l'Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?

È l'opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un "plebiscito d'ogni giorno" dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi

Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?

C'è un pensiero unico in campo, tra l'altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L'implosione è sempre in agguato

Professore, non è troppo pessimista?

Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile".

Sta facendo un problema di forma?

Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l'obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità

Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?

Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis!

Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all'eterna tentazione del consociativismo?
A patto di non considerare la vittoria come un'unzione sacra che permette di insultare chi non è d'accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l'idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato
Ma nel Paese dell'eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?

"Perché "diretto" sarebbe "non democristiano"? A me pare che proprio l'idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d'essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c'è stata e c'è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?

Lei teme l'abuso del vincitore?

Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della "paura del tiranno". Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c'è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene"
Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell'esecutivo: è così?

Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della "velocità" nella politica e dell'elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato".

Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?

Semplice: perché c'erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi".

Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?

Non voglio personalizzare. Tra l'altro oggi c'è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano"

Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?

Lo voglio anch'io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all'antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente"

Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?

L'idea di Ingrao era la "centralità del Parlamento". Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi

E' questa la vera ragione del suo "no"?

E' fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono "designati" dagli elettori non possono essere "eletti" dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio

Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?

Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni

Dal governo non può venire niente di buono?

Perché? Sono buone le unioni civili, l'autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del "a casa nostra" verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto

Professore, non l'ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?

Potrei dirle che l'antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l'ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica

A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?

Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?

Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?

C'è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell'esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l'eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell'oggi e improvvisa

martedì 17 maggio 2016

Se il Referendum rischia di spaccare il paese - di Alfredo Reichlin


Se il referendum rischia di spaccare il paese


Lettera di Alfredo Reichlin a La Repubblica – pubblicata il 16.5.16

CARO DIRETTORE, mi pesa dirlo, ma non mi piace il modo come si sta discutendo della riforma costituzionale. Temo uno scontro inconcludente. Dico inconcludente nel senso che chiunque sia il vincitore di questo Referendum il Paese non riesca a uscire dalla sua crisi. Forse esagero ma mi chiedo se ci rendiamo conto del bisogno assoluto che ha questo paese, confuso, sfiduciato come non mai verso la classe dirigente, arrabbiato e impoverito, con divisioni al suo interno che stanno diventando feroci, il bisogno e la necessità di ritrovarsi in una “casa comune”? Stiamo parlando di una riforma Costituzionale, cioè di uno strumento per lo “stare insieme” non per dividerci. Figurarsi se io non vedo i vuoti e i pericoli di un “no”. Ma prima di votare io voglio capire bene di che cosa stiamo discutendo. Di una correzione matura da tempo del vecchio bicameralismo perfetto, riducendo il Senato a una dimensione regionale, con in più una serie di misure, alcune anche discutibili, ma nell’insieme accettabili? Oppure si tratta di un plebiscito popolare che Matteo Renzi chiede su se stesso? Sono due cose diverse, e molto diverse. Io non voglio una crisi di governo al buio e di Renzi apprezzo molte delle sue grandi doti. Ma considero una sciagura questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti contrapposti. Da un lato quello del Sì, cioè di chi “vuole bene all’Italia” e disprezza tutti i governi della Repubblica che si sono succeduti prima di questo (il discorso esaltato di Renzi a Firenze). Dall’altro lato il partito del No: il mondo dei conservatori, dei professori, dei gufi, dei nemici. Ma ci si rende conto delle conseguenze? Non credo che verrà il fascismo ma non aumenterà certo la governabilità.
Si dirà che quelle di Renzi sono solo parole. Ma, attenzione, le parole sono pietre, e così arrivano a un popolo che già crede poco alla politica come strumento per il “bene comune”. E vorrei rispondere a chi considera la mia distinzione così netta tra le vicende del governo e la funzione di una Costituzione un po’ ipocrita. Credo che sbagli. Se la Repubblica è arrivata sin qui è anche per quella “ipocrisia”. Ricordo la drammatica crisi del ’47: il viaggio di De Gasperi in America e, al suo ritorno, la cacciata dei comunisti dal governo. Si aprì una crisi feroce all’insegna della guerra fredda e ciò mentre l’elaborazione della Costituzione era ancora in corso, avviata nel quadro politico unitario precedente. Era una svolta quella che stava accadendo ed era forte la voglia di menar le mani, ma Togliatti non ebbe dubbi che dovevamo continuare a lavorare su quel testo tutti insieme. E così l’impresa fu portata a compimento. E non è vero che quella carta piaceva a tutti. Metà degli italiani aveva votato per la monarchia. Era chiaro però che si trattava di una “Casa di tutti”, concepita non per favorire un governo contro i suoi nemici. Sento quindi il dovere di sollecitare un chiarimento serio sul perché di questo plebiscito e sul senso di questi diecimila comitati. E vorrei che una cosa fosse molto chiara. Non mi interessa affatto alimentare le vecchie dispute interne al Pd. Parla in me una grande preoccupazione sul “dove va l’Italia” (la sorte di Renzi davvero viene dopo). E ciò per tante ragioni interne e internazionali che non sto qui a elencare. Le quali ci dicono che l’Italia è a un passaggio cruciale della sua storia perché deve fronteggiare difficili sfide che mettono in discussione non tanto, cari “decisionisti”, i poteri del Capo del governo, quanto le ragioni dello “stare insieme degli italiani”. Dico degli italiani. È chiaro? È così che io rivivo quello che fu lo sforzo di ricostruire una nazione. Era l’idea della Costituzione come il necessario strumento dello “stare insieme” degli italiani, di tutti gli italiani. E ciò per l’assillo che allora avevamo, che era quello di far fronte alle sfide di quel tempo: le rovine di una guerra perduta, il rischio incombente di una guerra civile interna, di una lacerazione tra Nord e Sud, tra monarchici e repubblicani, di una rivolta rabbiosa contro un padronato che si era arricchito servendo il fascismo. L’assillo nostro era: evitare di fare la fine della Grecia. Ricostruire. E perché ciò fu possibile? Perché De Gasperi rifiutò la spinta che veniva dal Vaticano, e da ambienti americani, a mettere fuori legge i comunisti e perché Togliatti la prima cosa che disse al partito, al suo ritorno è che non si trattava di fare la rivoluzione ma di costruire una classica democrazia parlamentare basata sul pluralismo dei partiti. Non una improbabile “nuova democrazia dei Cln” come tanti a sinistra chiedevano.
Sia dunque chiaro. Io ho condiviso, pur con qualche riserva, la scelta della minoranza del Pd di non opporsi alla riforma Boschi. Ma guardo al paese. E alle sfide di oggi. Non si tratta solo di crisi economica. È in discussione lo statuto e la figura della nazione italiana, il suo posto nella nuova realtà geo-politica del mondo. Ecco perché non voglio plebisciti.
Il paese è in grave sofferenza perché ha perso troppi punti di riferimento. La “rottamazione” era in una certa misura necessaria. Ma si è creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo” né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un nuovo compromesso sociale. Gli uomini saggi (se ancora ci sono) dovrebbero spiegare a Renzi perché è tempo di passare dell’Io al Noi.

domenica 15 maggio 2016

Referendum Costituzionale - Contributo n° 5


DOCUMENTAZIONE IN MERITO AL PROSSIMO QUESITO REFERENDARIO SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE



Completiamo, con quest’ultimo, la pubblicazione di documenti che speriamo siano utili a meglio capire e muoverci nelle complicazioni, di sostanza e di metodo, relative al quesito referendario del prossimo autunno. I tre testi qui inseriti si riferiscono alla nuova Legge Elettorale che al momento non è oggetto di approvazione/cancellazione referendaria, anche se, come si può leggere nel secondo testo è partita una iniziativa di raccolta firme per la sua abrogazione sulla base delle motivazioni addotte dal Comitato promotore. E’ comunque opinione condivisa che il quesito referendario sulla revisione costituzionale può essere meglio capito proprio in relazione alle importanti novità introdotte dalla nuova Legge Elettorale, riepilogato nel primo documento a seguire. Completa infine questo documento l’intervento del Prof. Carlo Fusaro di risposta ad alcune perplessità e critiche.

Italicum: la nuova legge elettorale in 9 punti

NUOVA SCHEDA ELETTORALE. La riforma introduce una nuova scheda elettorale: ogni casella sarà composta dal contrassegno del partito al centro, a sinistra il nome e il cognome del capolista mentre a destra due righe per le preferenze.

100 COLLEGI PLURINOMINALI. Le liste dei candidati sono presentate in 20 circoscrizioni elettorali suddivise nell`insieme in 100 collegi plurinominali, fatti salvi i collegi uninominali nelle circoscrizioni Valle d`Aosta e Trentino-Alto Adige, per le quali verranno reintrodotti i collegi uninominali; 

PREMIO DI MAGGIORANZA. Sono attribuiti 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi.

BALLOTTAGGIO. Nel caso in cui nessuna lista raggiunga il 40% dei consensi si procede a un turno di ballottaggio tra le due con il maggior numero di voti. E' esclusa ogni forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di votazione.

SOGLIA DI SBARRAMENTO. Accedono alla ripartizione dei seggi le liste che ottengono, su base nazionale, almeno il tre per cento dei voti validi.

PARITA' DI GENERE. In ciascuna lista i candidati sono presentati in ordine alternato per sesso, i capolista dello stesso sesso non eccedono il sessanta per cento del totale in ogni circoscrizione, nessuno può essere candidato, in più collegi, neppure di altra circoscrizione, salvo i capolista nel limite di dieci collegi. L`elettore può esprimere fino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capolista.

CAPILISTA BLOCCATI E POI PREFERENZE. Sono eletti prima i capolista nei collegi, quindi i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze. L'elettore può esprimere fino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capolista

COLLEGI ELETTORALI. I collegi elettorali sono determinati con decreto legislativo da emanare entro cinque mesi e secondo i principi e i criteri direttivi stabiliti dall'Italicum.

NORMA ANTI-FLIPPER. La norma prevede un meccanismo di ripartizione dei seggi eccedentari che tutela anche le liste minori. Nel nuovo testo approvato al Senato la lista che ha raccolto più voti (eccedentari) cede il seggio a quella più piccola dove questa ha raccolto più consensi.

STATUTO OBBLIGATORIO. Per presentare la propria lista alle elezioni sarà necessario depositare anche uno Statuto.