venerdì 24 giugno 2016

Come i Balcani - Articolo di Paolo Rumiz - La Repubblica del 23/06/2016

Pubblichiamo questo articolo di Paolo Rumiz evidenziando la data della sua comparsa su La Repubblica, il 23/06/2016, ossia ventiquattro ore prima che venisse conosciuto l'esito del referendum Brexit


COME I BALCANI

Articolo di Paolo Rumiz – La Repubblica 23 giugno 2016



MA che cos'è questo rumore di chiavistelli che percorre l'Europa, questo rugginoso agitarsi di lucchetti, serrature, reticolati e sbarre di frontiera che dalla Gran Bretagna alla Grecia raggiunge la Catalogna e i confini della Russia, così simile al grattare della lima dei galeotti nel carcere di Montecristo? E che cos'è questa banalizzazione del linguaggio che ci invade, questo diffondersi di alternative violente nascoste dietro innocue sigle da computer, "In/Out", "Leave/"Remain"? Dove nascono l'aggressività omicida e gli osceni bisillabi che annichiliscono la complessità di eventi, come "Brexit" o "Grexit"? E soprattutto, come chiamare questa illusione che si impossessa delle nazioni, secondo la quale "Da soli è meglio"?

Non so perché esitiamo tanto. Il termine ce l'abbiamo a disposizione da un quarto di secolo, o forse da molto di più. Chiamasi "balcanizzazione". So che non piace assimilarsi ai Balcani. Genera sollievo pensare che quello sia un focolaio di tribalismo a sé stante, dal quale l'Europa "civile" è immune. Ricordo distintamente che allora, prima che la Jugoslavia si disintegrasse, i signori economisti erano convinti che uno scoppio di follia collettiva autodistruttiva sarebbe stato impossibile. Nell'89 scrissi un libro in cui dicevo: attenti, dopo la caduta del Muro, salta in aria la Federazione di Tito. Romano Prodi lo lesse e mi scrisse che ero troppo pessimista, perché i popoli lo capiscono da soli che "separati si è più deboli".

Non andò così. In uno stato di demenza generalizzata, la Jugoslavia — il paese della cuccagna invidiato da tutte le altre nazioni dell'ex blocco comunista — si buttò nel baratro. Ma anche allora, di fronte all'evidenza dei fatti, non si volle capire. E io avevo un bel spiegare ai miei lettori che quello che succedeva nei Balcani non era una malattia balcanica, ma europea. Il riattivarsi di una faglia, il sintomo d'inizio di un sisma di più vasta portata, così come l'attentato di Sarajevo — lungi dal provocare la Grande Guerra — ne aveva segnalato l'imminenza. Nessuno mi credeva.

E così vennero i populismi, venne la Lega, scoppiò il caso Haider (che rispetto agli agitatori di oggi pare ahimè un'educanda), esplose l'islamismo assassino. E furono le tensioni tra fiamminghi e francofoni in Belgio, la chiusura a riccio dell'Olanda, l'ondata irrazionale di indipendentismo catalano, il separatismo scozzese. Venne a galla il rancore antieuropeo dell'Ungheria e della Polonia. Esplose la rabbia lepenista in Francia e l'Inghilterra perse il suo tradizionale "à plomb". Bruxelles era il perfetto capro espiatorio di qualsiasi malessere.

Rileggere i miei appunto jugoslavi, oggi, fa venire i brividi. Riporto in sintesi solo alcuni stralci di quello che notai nella fase di incubazione del conflitto. Rabbia giustizialista di periferie dimenticate che trovano un megafono interessato nei responsabili stessi della loro emarginazione. Incapacità dei "liberal" di ascoltare la pancia inquieta del Paese. Ritorno di mitologie tribali da strapazzo per bocca di intellettuali ignoranti. Incapacità del potere federale di proporre una visione "alta" della coabitazione fra popoli. Intossicazione mediatica, imbarbarimento del linguaggio, spazio scandaloso offerto agli urlatori rispetto ai pensatori, per motivi di audience.

Troppe similitudini con l'oggi. In particolare questa: i colpevoli del dissesto del Paese, la Casta in poche parole, che spinge lucidamente i popoli gli uni contro gli altri per non pagare il dazio del suo fallimento, trasformando una lotta politica e sociale in una lotta etnica in nome del Dio Nazione. In poche parole, fascismo. Una lebbra che prende a diffondersi non a partire dai centri, evoluti e plurali, ma dai villaggi lontani dal potere. Una rivincita dei primitivi incolti, portatori di un'idea di purezza della razza, contro gli evoluti figli di un mondo cosmopolita. Campagna contro metropoli. Se manteniamo questa visione "sismica" del contagio — Dio solo sa quanto bisogno abbiamo di visionari dopo il fallimento degli analisti — ci capita magari di vedere un pezzo di possibile futuro. Possiamo ipotizzare un ramificarsi di crepe dopo il botto del voto inglese, un riattivarsi per contagio delle linee di faglia dormienti. L'Irlanda che si stacca, la Polonia e i Paesi baltici che danno vita a incidenti di frontiera con la Russia, la piccola Danimarca che va per conto suo, i populisti francesi che istituiscono ronde armate contro gli immigrati, Salvini e i Cinquestelle che indicono un referendum come quello inglese, e magari l'Austria che vuole riprendersi il Sudtirolo. E poi Catalogna, Grecia, Scozia, Ungheria, coinvolte in un generale cortocircuito di protezionismi, autarchie e ritorsioni.

Ecco, potrebbe franare così il nostro sogno europeo, nel silenzio attonito del suo apparato burocratico e monetario. In un perfetto copione balcanico. Speriamo non accada. Ma l'amico Andrea Mammone, ricercatore italiano a Londra, è scettico che una vittoria del " Leave" in Gran Bretagna possa dare ai politici una salutare frustata. «Spesso è gente che crede basti un clic per sapere le cose — mi dice — e quindi temo siano incapaci di controllare la situazione». Concordo in pieno. La malattia è europea. Essa discende da una politica che non batte più i territori. Si estrinseca come vendetta epocale della geografia e della storia — espulse dal nostro immaginario nel tempo di Internet — contro l'illusione che il mondo sia uno spazio aperto, liscio e senza cicatrici.

venerdì 17 giugno 2016

In una parola / Che fare? (noi maschi)
 di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 14 giugno 2016


Come molti sanno Che fare è il titolo di un celebre scritto di Lenin, a sua volta citazione dell’omonimo e forse meno celebre (ma molto più bello) romanzo di Černyševskij. Un libro-manifesto determinante per la vittoria del bolscevichi nella rivoluzione d’Ottobre. Ma anche – mi sento di dire – per i tragici disastri che una certa concezione del potere rivoluzionario ha prodotto in seguito. Tempo fa un illuminato dirigente del vecchio Pci ci esortava a concentrarci piuttosto sul che pensare, prima di agire perseverando in antichi errori…
L’interrogativo di quel titolo, con la coorte di dubbi che si porta dietro, mi è tornato in mente leggendo i numerosi interventi maschili che si sono schierati contro la violenza sulle donne, spesso adottando per certi versi, e più o meno consapevolmente, quel “partire da sé” teorizzato e praticato dal femminismo. Dall’appello pubblicato l’11 giugno dal Manifesto, agli interventi di Christian Raimo, Nicola Lagioia, Michele Serra, Paolo Di Stefano, per citare solo gli ultimi che ho letto su alcuni siti e quotidiani nazionali (una raccolta si sta formando sul sito “maschileplurale.it”): in genere mi ha colpito l’opinione, diffusa, che il problema riguardi il persistere di una cultura maschilista del possesso e della forza dalla quale è difficile dirsi completamente immuni.
Ascoltando e leggendo poi altre notizie di questi giorni mi rimbalzava l’idea che un filo rosso, o per meglio dire nero, e sessuato, leghi in qualche modo l’omofobia omicida e terrorista di Orlando ai tumulti degli hooligans di varie nazionalità “europee”, ai femminicidi di cui si discute nel bel paese. Ovvio che dire così espone al rischio di azzerare le enormi differenze che connotano comportamenti violenti tanto distanti nelle modalità, nelle conseguenze, nei contesti, nelle stesse “motivazioni”.
Eppure l’ipotesi che qualcosa sia da ricondurre a una incapacità di vivere il proprio corpo e la relazione con l’altro/a radicata nella sessualità maschile così come è codificata in tante culture pur molto diverse, non mi sentirei di escluderla completamente. C’è chi mette poi in relazione la violenza personale e sociale con gli effetti della crisi economica, e del malessere che crea, esasperato da un sistema “neoliberista” che accentua il narcisismo e l’edonismo solitario.
Un mix deleterio soprattutto per un più fragile equilibrio dell’ex “sesso forte”? Un esito che francamente eviterei è quello di definirsi “vittime” di un sistema di potere di cui riconosciamo la matrice patriarcale. Prima vediamone le connivenze.
Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del che fare (senza rimuovere l’essenziale che pensare). La prima cosa che mi viene in mente è una proposta molto modesta: incontrarsi, mettere a confronto le proprie idee e le proprie esperienze. Non accontentarsi di firmare accorati interventi e appelli. Un secondo passo può essere interrogarsi – pubblicamente? – su come si agisce e interagisce in ogni contesto, su che cosa e come si desidera: la famiglia e le proprie relazioni affettive, il proprio essere padri (o non esserlo), i luoghi di lavoro, la politica, il sindacato, e il rapporto che viviamo con quel tanto o poco di potere reale che siamo pronti a ammettere di gestire solo perché uomini.
Fatti e non parole? Ma i fatti possono essere anche nuove parole, se nascono da una diversa pratica di scambio consapevole e condivisa. Tra maschi. E con le donne che desiderassero interloquire.



domenica 12 giugno 2016

Femminicidio: l'ossessione dei maschi che uccidono


Femminicidio: l'ossessione dei maschi che uccidono

Non basta la psicologia a spiegare l'orrore delle tante donne assassinate



Articolo di MICHELE SERRA – La Repubblica del 12/06/2016




Sui maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo scopo, lucidamente feroce, di renderla "inservibile" ad altri maschi) si esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo - e lo dico da maschio - che su quella rovente, tremenda questione, non si eserciti abbastanza la parola politica. Al netto dei materiali psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo ripugnanza etica del furto. Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. "Il privato è politico", si diceva allora, volendo significare che ogni nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e producesse il suo effetto politico. Era una forzatura ideologica che l'esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a diradare, facendoci sentire un poco meno "responsabili del mondo" almeno dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr'otto, libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà. Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l'abbandono, la gelosia. Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso pubblico, impoverendolo e istupidendolo. Per esempio l'idea - e veniamo al punto - che la donna appartenga a se stessa ("io sono mia"), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Se c'è mai stata, al mondo, un'idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio. Perché non se ne sente più l'eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun "principio" assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo.  Eppure, volendo ridurre all'osso la questione del femminicidio, è proprio l'ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio - io sono mia - il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita. Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il "via libera" all'aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione "ideologica" interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine.Politica e cultura (ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona cultura e di idee liberali. Ma è l'eccezione che conferma la regola: costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente migliorati, dalla temperie politica e culturale dell'epoca. È nell'Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma inequivocabile "io sono mia" prefemminista e presessantottino, con la mitezza luminosa di una Lucia aggiornata che rimette al suo posto il donrodrigo di turno. È sempre in quell'Italia che, con fatica, si arriva finalmente a mettere in discussione l'obbrobrio giuridico del "delitto d'onore", che verrà finalmente cancellato vent'anni dopo. Ed è a livello popolare, mica solo nei "salotti", è nel profondo della società che quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti indirizzano il senso comune. Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall'esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell'altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.Come disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno fa, "chi picchia una donna è uno stronzo". Poi, certo, è soprattutto di aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva mai spiegato nessuno?

lunedì 6 giugno 2016

Mezzi uonini che uccidono le donne - Articolo di Gavriel Levi su la Stampa (segnalato da M. Antonietta Fonnesu)


Mezzi uomini che uccidono le donne

Articolo di Gavriel Levi - La Stampa del 05/06/2016

Cerchiamo di pensare qualche altra mezza verità. Un uomo che, oggi, massacra e uccide una donna è (così giustamente si dice). Un omicida incontrollato, un femminicida annunciato, un avanzo della società medioevale o dell’orda preistorica, un cannibale del potere. Potrebbe altrettanto essere: un suicida potenziale ma vigliacco, un omofobo che non sa di esserlo, un prodotto outlet della modernità affollata, gassosa e solitaria, un compratore insaziabile di insicurezze. Forse tutte queste mezze verità vanno confrontate e messe assieme, per completarsi. Probabilmente, in ogni singolo caso, i diversi fattori si compongono e si squilibrano in misture diverse e complesse. Ad una prima analisi: un uomo che, per eternare e congelare un rapporto, ammazza una donna, nebulosamente amata, ha un problema con il suo immaginario femminile/maschile. Ma in controluce: un uomo che, per aggrapparsi ad una donna che gli sfugge, la uccide è, comunque, un mezzo individuo, che ha un problema con la sua individualità umana. Un problema che questo individuo dimezzato cerca di spostare e di nascondere in una sua guerra fantastica, segreta e miserabile fra tutti gli uomini e tutte le donne. Se, per prendere le distanze, parliamo di narcisismo distruttivo e di odio sociale contro le donne, diciamo una cosa giusta ma corriamo il rischio di confondere le dimensioni. Il narcisismo è una maschera ingannevole, specie quando il narcisista identifica tutte le relazioni umane con la relazione fra i due sessi.  Il narcisista a rischio, può diventare sempre più fragile e pericoloso quando nella sua storia personale con una donna, cerca la segregazione e costruisce ogni momento una scommessa fra avere tutto ed essere nulla, fra dominazione ed umiliazione, fra rabbia vitalizzante e vergogna mortale, fra idolatria e disgregazione, fra trionfo e disperazione.  Il narcisismo è una maschera ingannevole anche nel mito originario. Perché Narciso, proprio per esistere, deve far morire Eco. E la Ninfa Eco, terribilmente, almeno in parte, collabora, uccidendosi da sola. Forse si uccide proprio per non essere uccisa. Lo fa in diversi modi: qualche volta lo fa illudendosi che tutto potrà andare bene e quindi non riconoscendo i segnali della violenza omicida; qualche volta donandosi sempre di più, per curare chi non vuole essere curato; qualche volta spegnendosi lentamente e fuggendo troppo tardi e senza prendere le necessarie difese. Ma queste ultime considerazioni valgono di meno per la ninfa Eco e di più per le donne reali di oggi. Il punto è proprio questo. I fatti degli ultimi anni ci stanno parlando di un femminicidio che riflette alcune tematiche dell’antichità, ma non trova i suoi veri meccanismi nelle piccole logiche mediatiche della modernità. Ovviamente nelle sue sacche sociali più paludose, dove molto si gioca sempre più su immagini di sé più fittizie. Ed è in questa area che possiamo e dobbiamo lavorare se vogliamo combattere la fabbrica del femminicidio, oltre che deprecare i suoi carnefici e santificare le loro vittime. E’ l’immagine del femminicida che va compresa e presentata per quello che è; un suicida senza coraggio che crolla quando si accorge che la sua compagna non è un’ombra ma una persona. Questa immagine tanto ridicola quanto dolorosa può essere individuata direttamente dai tanti protagonisti di queste storie. Dai potenziali femminicidi che possono imparare a conoscere in tempo la loro fragilità; dalle loro potenziali compagne, che possono imparare almeno a non cadere nell’illusione dell’io ti cambierò/io ti salverò; da coloro che li hanno educati a crescere nell’altalena rabbiosa tra fantasie di onnipotenza e fantasie di impotenza. A tutti noi che davanti ai problemi della crescita umana dobbiamo pensare senza retoriche e schemi prefabbricati.  

domenica 5 giugno 2016

La nuova lotta di classe - Saggio di Slavoj Zizek (sintesi di Giancarlo Fagiano)


La nuova lotta di classe

di Slavoj Zizek



Piacevole ed interessante la lettura dell’ultimo agile saggio di Slavoj Zizek (filosofo sloveno, molto impegnato in campo sociale e politico si autodefinisce “comunista”) che conferma anche in questo caso il suo particolare stile. Capace di riflessioni di notevole spessore, da qui l’interesse, partendo da osservazioni variegate – fatti di cronaca, cinema, letteratura, fonti varie – condite con una scrittura sempre scorrevole e accattivante, da qui il piacere della lettura, affronta una dei temi centrali della realtà politica e sociale: la migrazione “epocale”. Lo fa mettendo a nudo con grande lucidità l’inconsistenza di tanti luoghi comuni, a partire dal “multiculturalismo”, patrimonio della “sinistra”, e costruendo su un approccio al tema decisamente innovativo alcune basi per quella che definisce, fin dal titolo, “la nuova lotta di classe”.

Lettura che pertanto consigliamo senz’altro, per intanto offriamo una sintesi in pillole dei passaggi più significativi seguendo l’ordine esatto dei Capitoli del saggio (le frasi in grassetto colore blu sono estratte dal testo)

 

mercoledì 1 giugno 2016

Domande di aiuto non raccolte - Articolo di Bia Sarasini "Il Manifesto" del 01/06/2016 (post suggerito da Nives Enrietti)


Sara e le altre, domande di aiuto non raccolte

L'omicidio della Magliana. Ci si chiede «ma io, cosa avrei fatto?». Domanda che incalza senza lasciare scampo. Il nodo è cosa occorre fare per aiutare le donne in pericolo

Articolo di Bia Sarasini - “Il Manifesto” del 01/06/2016

Lascia impietriti, la fine di Sara Di Pietrantoni. Non solo per la furia del ragazzo, Vincenzo Paduano, così carino nelle foto insieme pubblicate su Instagram, una furia che lo ha portato a darle una morte crudele, né più né meno che un supplizio. Lui parla di sé stesso come un mostro, e sembra troppo facile. Non per lui, che chissà se mai ritroverà nel tempo tracce della propria umanità, ma i titoli dei giornali, le denunce fatte sempre dopo. Gela invece il cuore immaginare quei minuti, lei che cerca di scappare, riesce a buttarsi in mezzo alla strada, eppure le rare auto che passano non si fermano. Anche se chi guida vede una ragazza bionda che si sbraccia e chiede aiuto.E non è l’identificazione con lei, Sara, amica sorella figlia, a guidare le mie parole. È la domanda di aiuto non raccolta, che mi agghiaccia. Una domanda evidente, concreta. Consumata tra i minuti che passano dal tentativo di fuga di Sara, e dal fuoco che brucia implacabile. Un’immagine molto efficace dell’incapacità di aiutare le donne a rischio, in situazioni difficili. Anche quando i segnali sono chiarissimi. Prevale l’indifferenza, il farsi i fatti propri. Manca il coraggio.In effetti ci vuole coraggio, per fermarsi di notte e andare in soccorso di chi ha bisogno di aiuto. Sui social da ieri questa è la domanda prevalente. Io, cosa avrei fatto? È una domanda che non permette abbellimenti, indulgenze. Interroga senza lasciare scampo. È con tutta evidenza facile, troppo facile, dirsi: io mi sarei fermata, fermato. Io sì che l’avrei aiutata. E se non avremo mai una risposta netta, sicura, proprio l’inquietudine che ne viene può essere lo stimolo per affrontare il nodo cruciale. Cosa occorre fare, per aiutare le donne in pericolo? Le leggi ci sono, per aiutare le donne. Non ci sono i finanziamenti. I posti letto, nelle case in cui le donne possano rifugiarsi, sono troppo pochi. E la rete dei centri antiviolenza non ha il sostegno sufficiente. Ma la storia di Sara insegna che il pericolo non è solo nelle coppie che vivono insieme. Occorrono altri strumenti. Insegnare, per esempio, ma soprattutto convincersi, che la gelosia non è un segno sicuro dell’amore. È geloso, quindi mi ama, quindi ci tiene a me, mi dà valore. Un geloso è uno che considera la donna roba sua, non tollera la sua libertà. Le ragazze devono essere educate a capirne il pericolo, i ragazzi a non farne una questione di identità: sta con me quindi deve fare quello che voglio io. E frequentare solo me.

Sembra assurdo dover scrivere questo, su questo giornale, nel 2016. Eppure non molto è cambiato, nell’educazione sentimentale dei maschi, negli ultimi decenni. E nell’educazione collettiva. Tanto è vero che a scrivere, a commentare, siamo prevalentemente noi, le femmine della specie. Non c’è molto di nuovo nell’insegnare alle bambine a fare attenzione, a non fidarsi dei maschi. Non è quello che si è sempre tramandato? È vero che la parità, il sentirsi uguali può avere reso le ragazze più ingenue o meglio più incredule, non si può pensare che quel ragazzo che in fondo fa la mia stessa vita possa trasformarsi, farmi del male. Ma non è un problema delle donne, la violenza degli uomini. È che ci vuole coraggio. Molto coraggio a essere uomini, oggi. Rinunciare ai confini certi di un’identità di genere consegnata dalla tradizione. Il possesso delle donne, di una almeno, era garantito da quella formazione sociale che chiamiamo patriarcato a ogni uomo, anche il più miserabile. Un sistema sgretolato, ma ancora forte nel produrre immaginario sociale, magari condito dal rancore venato di vittimismo. Basta leggere i social, dove si discute violentemente l’idea stessa dell’esistenza del femminicidio. Parola sgradevole e necessaria. Ciechi di fronte alla traccia di sangue, che giorno dopo giorno dice degli effetti dell’odio violento per le donne. Non che tutti uccidano, menino, stuprino. Eppure pochi, pochissimi hanno la forza della parola pubblica. La forza di andare contro un ordine che vive della passività di chi, invece di chiedersi a quale vita è costretto, ricerca il privilegio perduto, con uno sguardo volto all’indietro. Manca la forza di andare contro l’ordine sociale in cui viviamo. Forse anche per questo ribellarsi non è all’ordine del giorno.


La parola del mese - Giugno 2016

LA PAROLA DEL MESE 
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni


Giugno 2016


Femminicidio
Composto dal s. f. femmina con l’aggiunta del confisso -cidio.
Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale.
La parola femminicidio esiste nella lingua italiana solo a partire dal 2001. Fino a quell'anno, l'unica parola esistente col significato di uccisione di una donna era uxoricidio. Ma uxoricidio, composta con quella parola latina, uxor, quindi moglie, alludeva per l'appunto solo all'uccisione di una donna in quanto moglie e veniva estesa anche agli uomini, quindi al coniuge in generale. Non avevamo una parola che alludesse all'uccisione della donna proprio in quanto donna. Nella lingua inglese invece, dal 1801 esisteva la parola femicide. E a questa prima parola se ne accostò, a partire dal 1992, un'altra che è feminicide. La parola fu coniata dalla criminologa Diana Russell, che la usò in un proprio saggio. Nell'anno successivo, il 1993, l'antropologa messicana Marcela Lagarde usò la parola femminicidio, per l'appunto, e la parola cominciò a diffondersi. L'antropologa aveva usato questa parola per studiare, per ricordare i numerosissimi omicidi di donne che erano stati compiuti ai confini tra il Messico e gli Stati Uniti. E appunto, la parola femminicidio serviva proprio ad indicare questo tipo particolare di uccisione. La parola femminicidio si è diffusa nella lingua italiana a partire dal 2008. In quell'anno è stato pubblicato da Barbara Spinelli un libro intitolato Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale. E da quel momento in poi la parola ha cominciato a circolare, prima di tutto nella stampa, nei giornali e poi a entrare proprio nel circolo della nostra lingua. Contrariamente a quanto si sente ripetere spesso, femminicidio non è una brutta parola. E' una parola formata del tutto regolarmente, unendo e componendo insieme la parola femmina, con quella parte finale -cidio, che ha il significato appunto di uccisione. Uccisione di una donna. Non è la parola ad essere brutta e spesso si ha paura delle parole non per il loro aspetto esterno, ma per il significato e per l'avvenimento che evocano