mercoledì 16 novembre 2016

Le parole per dire No al razzismo quotidiano - Articolo di Paolo Rumiz su La Repubblica del 13/11/2016


Le parole per dire no al razzismo quotidiano

"Come replicare all’odio verso i profughi? Che parole può usare il cittadino contro il tam-tam del rancore — assai più vasto di quanto si creda — che serpeggia via Facebook con parole indecenti?"

Articolo di PAOLO RUMIZ

Come l’epidemia di mucca pazza, la vittoria di Trump ha imbarbarito all’istante il linguaggio in Europa e in Italia. Era prevedibile: i beceri parlano più ad alta voce per strada e nei mezzi pubblici e il web, già saturo di imbecillità, ha dato la stura a nuove ondate di demenza razzista. Ora, siccome le parole sdoganano i fatti, sappiamo in anticipo che dovremo fronteggiare il peggio anche a livello politico e che l’Unione finirà per vedersela brutta. Ma quello che preoccupa, più ancora delle urla di odio, è il silenzio attonito dei benpensanti. Come se non ci fosse nulla da fare, come se il mondo stesse già deragliando. Homo homini lupus, et dominus vobiscum. Troppo ricorda l’Europa degli anni di Weimar.
E allora la domanda da porci subito è: come replicare all’odio verso i profughi? Che parole a caldo può usare il cittadino di buona volontà, specie se impregnato di valori cristiani, contro il tam-tam del rancore — assai più vasto di quanto si creda — che serpeggia via Facebook con parole indecenti? Valide analisi sul come ci siamo ridotti a questo punto ne abbiamo anche troppe. Siamo pieni di libri e analisi. Quello che disperatamente manca è un prontuario, un manualetto, una rubrichetta quotidiana che insegni a rispondere per le rime alla liquidazione della misericordia, a costruire l’anatema dal pulpito giusto, anziché porgere l’altra guancia o trincerarsi in un verginale politicamente corretto. È di questo che abbiamo bisogno ora per attivare una guerra di resistenza. Che fare? Quando sento quelle urla oscene mi sale la pressione e mi tocca andar dal medico. Il malessere è ormai di vecchia data. È cominciato con la guerra in Bosnia, quando ho sofferto tutta la mia impotenza di reporter non solo nella difesa degli innocenti ma soprattutto nel far capire ai lettori che un giorno sarebbe potuta toccare a noi, perché “loro” erano come noi, e il disastro balcanico non era che l’avvisaglia di un disastro europeo. Oggi è peggio, perché la lezione non è servita a niente. Penso a questo mio Paese che non si indigna più di nulla ma grida contro i poveracci e allora sento una pressione alla bocca dello stomaco che nasce appunto dal mio mancato allenamento a controbattere ai barbari. Qualche giorno fa ci ho provato a trovarle, le parole, nella mia Trieste. Ecco come è andata. Sono in macchina, fermo a un semaforo del centro. Vedo una famigliola di profughi, forse siriani, che traversa la strada. Mamma, papà, due bimbi di circa tre e cinque anni, una valigetta e uno zaino. Gente distinta, signorile. Sono diretti alla stazione. Ma ecco, accanto a me, arrivare un’utilitaria con una bionda e il suo moroso al volante. Il quale, in un raptus improvviso, abbassa il finestrino e urla: «Stronzi! Non avete capito che non vi vuole nessuno?». Bersaglio facile: i fuggiaschi non reagiscono. Poi si gira verso la ragazza in cerca di un’approvazione. Lei esulta. Ah, che uomo. Mi guardo intorno. Un passante ride. Ma la maggioranza tace, di fronte alla violenza delle parole. Mi sale il sangue alla testa. Alla mia età non ho ancora raggiunto la pace dei sensi.
Scatta il verde, riparto e tengo d’occhio il bellimbusto fino al semaforo successivo. Respiro forte, ho il cuore a mille. Mi passa davanti un film. Sempre lo stesso. Il film dell’Esilio. È da ragazzino che li vedo, a Trieste, quelli con la valigia e i bambini per mano. Prima gli istriani e i dalmati, costretti a vagare per l’Italia, bloccati anche loro da picchetti, presi per fascisti dai “rossi” nelle stazioni. Poi gli jugoslavi in fuga dalle stragi, bollati come “nipotini degli infoibatori” dagli stessi avanguardisti in malafede che a Belgrado trescavano con i massacratori veri. E poi i curdi, gli afghani, i siriani. Ogni volta, uomini e donne in fuga dalla barbarie che venivano presi per barbari con un cinico ribaltamento della realtà. Ieri come oggi capri espiatori perfetti per far voti. Ora l’auto è di nuovo vicina. Tocca a me abbassare il finestrino. Faccio alla bionda: «Mi scusi, dica a quel signore che preghi Iddio — non so come riesco a essere calmo — di non provare mai una guerra in vita sua e di non avere cinque minuti di tempo per mettere le sue cose in una valigia prima di scappare. E soprattutto di non sentire mai urla come le sue. Buongiorno ». I due restano senza parole, forse stupiti dalla determinazione di uno con la barba bianca. Si riparte, il traffico ci divide. Respiro. Mi sento meglio. Ho rotto il silenzio. Sono certo che parecchie persone hanno udito, e penso che a qualcuna di esse avrò pur dato una voce. Non ci credo che una frontiera come la mia, che ha visto tante disperate migrazioni, abbia perso completamente la memoria.
Rompere il silenzio degli “innocenti” e trovare le parole giuste: è questo il problema pratico da superare per affrontare i tempi nuovi. Se lo facessimo, si creerebbe un fronte. Sapremmo cosa dire ai vigliacchi aggressivi con i deboli e tremebondi con i forti. E allora verrebbe alla luce, come nei Balcani, l’inganno della guerra tra poveri. Il trucco dello scontro etnico costruito per risparmiare la resa dei conti politica ai veri responsabili delle crisi. Gli esiliati parafulmini ideali per depistare la nostra legittima frustrazione su falsi obiettivi. Qualcosa che rende l’odio razziale utile ai poteri senza patria che dettano le regole di un’economia globale di rapina. Per questo è importante rispondere picche a chi cavalca la discordia. Non solo per motivi umanitari, ma per smascherare il Grande Gioco di cui essi sono complici, e talvolta vittime inconsapevoli.


martedì 15 novembre 2016

Relazione sul seminario di Gianluca Cuozzo: “La memoria fra filosofia e letteratura”
                      (a cura di Enrica Gallo)

Col seminario sulla memoria fra filosofia e letteratura CircolarMente ha inteso proseguire un discorso iniziato con la riflessione dello storico Giovanni De Luna sulla costruzione della memoria pubblica nel nostro paese, che si vuole ora allargare allo statuto stesso della memoria riaffrontando, con uno sguardo disciplinare diverso, quel nodo del rapporto fra passato e futuro che rappresenta uno dei problemi fondamentali della contemporaneità. Un tema sicuramente complesso, che può peraltro avvalersi con Gianluca Cuozzo di un relatore d’eccezione, capace di coniugare passione espositiva e ampiezza di sguardo: i suoi studi infatti attingono, pur partendo dallo specifico filosofico, alla letteratura, alle arti visive, al mondo dei media, per individuare le coordinate di questo nostro presente immemore.
Perché è così che si presenta, nella riflessione critica di questo filosofo, un mondo in cui mostra ormai di prevalere una disaffezione generale rispetto all’esercizio della memoria: un costante obliare che nasce direttamente dall’imperativo del consumo, votato all’obsolescenza programmata dei prodotti come allo scioglimento dei legami libidici che intratteniamo con gli oggetti stessi, al fine di volgerci verso nuovi investimenti affettivi che ci permettano di riconoscerci in quel consesso dei consumatori che ha poi nelle discariche il suo luogo del rimosso, la sua minacciosa Ombra. Sempre nuovi al mondo, dunque, come il protagonista di un racconto di Paul Auster che si sveglia ogni giorno immemore di sé e che rappresenta per Cuozzo un perfetto simbolo di quel tempo puntiforme e spezzato di cui parla Zygmunt Bauman, impossibilitato a creare quella continuità personale e storica in cui possono nascere progetti trasformativi. L’azione politica eticamente impostata presuppone infatti a suo giudizio uno sguardo vigile in cui trovi posto il contenimento delle azioni passate, perché solo attraverso di esso possiamo davvero prendere le distanze dall’ideologia dominante che si cela sotto il bagliore luccicante delle merci.
E’ dunque su questo sfondo, delineato con accenni incisivi anche se forzatamente limitati dall’economia del discorso, che il relatore ha impostato la sua indagine sullo statuto della memoria, scegliendo alcuni autori la cui riflessione ha dato vita a paradigmi concettuali assai diversi, pur muovendosi da una comune consapevolezza della natura enigmatica di questa potenza dell’anima, ravvisabile in  una sorta di “eccedenza” della memoria rispetto al soggetto stesso che ricorda.

*  il paradigma del rimpatrio teomorfico del soggetto:    la memoria come approdo nel divino

A mettere in luce con insuperabile profondità e con accenni ricchi di pathos questa sproporzione fra l’Io che ricorda e il mare infinito della memoria è stato sicuramente Agostino nelle sue “Confessioni”. Quando ricordo, dice il grande filosofo cristiano, io mi addentro in un immenso edificio in cui percepisco l’eco dei miei passi comprendendo di essere in realtà “compreso” da qualcosa di molto più grande di me che mi sovrasta: una sensazione spiazzante che potrebbe provocare sgomento, se non sentissi che questi passi esitanti mi riportano all’origine di quella Verità che abita all’interno dell’uomo e in cui posso trovare il mio riconoscimento come soggetto e insieme la mia destinazione, così che l’edificio della memoria diventa un sacro tempio. In questo mare in cui è possibile perdersi esiste dunque per Agostino un approdo, un porto sicuro cui ritornare: nonostante la grazia divina rimanga inesplicabile, il nostro errare avverrà comunque all’interno di una dimensione di verità.
Un paradigma concettuale che secondo il relatore trova in un autoritratto giovanile di Durer (“Autoritratto con pelliccia”) una singolare corrispondenza. In esso infatti il pittore si rappresenta in situazione frontale, con lo sguardo ieratico e le mani, poste ad unire i lembi del mantello, ambiguamente benedicenti, dando vita ad una sorta di sovrapposizione fra un volto umano presentato con tratti di bellezza e nobiltà e il volto del Cristo, a simboleggiare la possibilità di trovare in esso la garanzia di un pieno riconoscimento di sé come soggetto dotato di un potere creativo che deriva direttamente dal grande artefice divino.

             * il paradigma dell’erranza senza riconoscimento:                 la memoria come frammento e labirinto 

Nessun rimpatrio è invece possibile per uno scrittore contemporaneo come Paul Auster, che pur rifacendosi in modo esplicito ad Agostino e alla sua indagine sull’enigma di una memoria tanto vasta quanto eccedente al soggetto che ricorda ne stravolge poi l’esito, vedendola non come luogo di approdo ma come terra di esilio, di erranza senza riconoscimento. Nel suo romanzo autobiografico “L’invenzione della solitudine”, e in particolare nella prima parte del testo in cui cerca di ricostruire la figura di un padre che anche in vita è stato assente al figlio come a se stesso, lo scrittore si trova infatti di fronte ad un caleidoscopio di immagini contradditorie, e lo stesso accade quando l’oggetto della  riflessione diventa il suo stesso percorso di vita. Nell’edificio della memoria, dove i passi di Agostino suscitano echi che rimandano all’infinito, Auster trova solamente le linee di un reticolo spaesante, simile al sistema circolatorio umano o ad una città tentacolare dove le coordinate per orientarsi non sono visibili o mutano al mutare dei passi, rendendo impossibile un vero riconoscimento del soggetto. Non è possibile per l’uomo contemporaneo ricostruire il passato alla ricerca della continuità personale, perché la cifra di questo mondo, secondo  questo scrittore che Cuozzo considera uno degli interpreti più interessanti del pensiero postmoderno, sta nel frammento, nel gioco fra gli specchi riflettenti di quelle “città di vetro” che danno il titolo ad  uno dei suoi libri più noti.
Così accade anche in una tela di René Magritte, il pittore surrealista che il relatore accosta ad Auster in questa concezione dell’impossibilità di riconoscimento dell’io. Nella “Reproduction interdite” vediamo infatti un uomo che si specchia cercando la sua immagine ma che si trova la strada sbarrata dal proprio osso occipitale, mettendoci di fronte  ad un enigmatico ritratto senza volto.
Quella che si delinea in questo secondo paradigma concettuale, di segno opposto a quello agostiniano, è dunque una memoria condannata ad una peregrinazione senza approdo e pertanto impossibilitata alla ricostruzione dell’integrità del soggetto: una memoria che trova una significativa torsione allucinatoria nei personaggi di Kafka come nelle illustrazioni delle Carceri di Piranesi, in cui al posto  delle città tentacolari di Auster incontriamo spaventosi incubi notturni. Gli spazi inabitabili e labirintici tracciati dal bulino di rame di questo incisore settecentesco, in cui scorgiamo figure disperse e schiacciate come in un gigantesco Panopticon in cui si viene costantemente osservati senza avere mai la possibilità di ricambiare lo sguardo, corrispondono, secondo la suggestiva interpretazione del relatore, agli immensi corridoi del tribunale e ai tanti luoghi spaesanti del mondo angoscioso di Kafka. Anche in esso infatti si aggirano personaggi sperduti, resi estranei a se stessi dall’impossibilità di trovare i fili della propria innocenza, perché hanno dimenticato ciò che sono stati e che proprio per effetto di questo oblio vengono esposti ad una colpa senza nome e senza possibile redenzione. 

     *il paradigma della memoria come archeologia del             residuale

Ma non è solo questo, la memoria. Non dobbiamo necessariamente pensarla, secondo Cuozzo, come imprigionata senza scampo nell’alternativa concettuale fra il paradigma dell’approdo al divino e quello dell’erranza nella frammentazione dell’io, perché altri paradigmi interpretativi sono possibili (pensiamo alla memoria involontaria  descritta magistralmente da Proust…). Quello che il relatore oggi ha scelto di illustrarci assume peraltro a suo giudizio una particolare significanza rispetto a quell’agire etico-politico cui abbiamo fatto prima accenno, offrendoci nel contempo un’alternativa molto interessante rispetto ai due paradigmi precedenti. 
Attraverso la suggestione di un dipinto del 17°secolo (una delle tante “Gallerie dell’antiquario”, che porta con sé un riferimento biografico - l’autore che Cuozzo presenta apparteneva ad una famiglia alto borghese di antiquari ebrei - oltre ad alludere ad una concezione della memoria in cui la capacità conservativa si coniuga con il suo potenziale trasformativo) incontriamo pertanto un ultimo paradigma, elaborato nelle sue “Tesi sul concetto di storia” da Walter Beniamin: uno dei più originali pensatori del novecento, che ha vissuto in prima persona la tragedia del nazismo, rimanendone schiacciato (si suiciderà infatti al termine di una disperato tentativo di sottrarsi alla cattura).
Per Benjamin la memoria non è soltanto un’attività volta a scoprire la Verità, come in Agostino, e per quanto la vastità del male non le sia sconosciuta, non si risolve negli incubi kafkiani. Allo stesso modo non è qualcosa di essenzialmente impolitico, che appartiene unicamente alla sfera individuale, ma afferisce tanto alla storia del soggetto quanto a quella della comunità, operando nella storia in senso trasformativo. Per questo pensatore infatti il ricordo è la capacità di riprendere dal passato quegli elementi che avrebbero potuto rappresentare una chance decisiva per cambiare le modalità dell’esistenza collettiva a cui siamo stati indotti dal nostro dimenticare; rappresenta l’unica occasione di uscire da una concezione della storia mitica, in cui tutto accade secondo una necessità intrinseca, e insieme il fermento indispensabile per svincolarci da quella falsa utopia a cui siamo stati condotti dal connubio fra un capitalismo prevaricatore e l’idea illuministica del progresso (ricordiamo che per Benjamin ciò che ne risulta è quella tempesta che impedisce all’Angelo della Storia – una delle sue figure di pensiero più note, ispirata ad un piccolo acquerello di Paul Klee che gli era particolarmente caro – di raccogliere e redimere le macerie della storia, verso cui pure si volge il suo sguardo compassionevole).

Solo l’inversione del tempo, solo a partire dal ricordo di ciò che gli uomini hanno vissuto e sofferto, solo riscoprendo la storia dalla parte dei vinti e cogliendo quelle “schegge messianiche” dense di valore profetico che si celano nelle pieghe del passato il futuro può essere ripensato e modificato: e questo, se possiamo aggiungere una nota sul relatore, è anche il pensiero che Cuozzo esprime in molti dei suoi scritti, condividendo l’idea di Benjamin che la storia vada “spazzolata contropelo” attraverso una memoria consapevole che ci permetta di uscire dal cerchio magico di un presente ibernato. 

lunedì 14 novembre 2016

" I barbari. Essere un ferramenta del Wyoming" Articolo di Alessandro Baricco – La Repubblica del 10/11/2016


" I barbari. Essere un ferramenta del Wyoming"

Articolo di Alessandro Baricco – La Repubblica del 10/11/2016



Ecco quel che ho fatto: mi sono immaginato il proprietario di un negozio di ferramenta in Wyoming: ho pensato al giorno in cui, otto anni fa, ha visto diventare Obama presidente. Quel giorno si sarà chiesto se il mondo non era impazzito. Avrà pensato preoccupato ai suoi figli. Forse avrà dato una controllatina al suo fucile da caccia. Poi sarà andato a lavorare, semplicemente. Okay. Ce l’ha fatta lui, ce la farò anch’io. Il mondo non era impazzito allora, non sarà impazzito oggi. Do una controllatina al mio computer. A lavorare, adesso.
Apro il mio negozio di ferramenta per dire che vista molto dall’alto, da un punto per cui la politica è solo uno degli arti con cui l’animale-uomo si muove sul pianeta, l’elezione di Trump fa parte di un movimento – di una mossa animale, voglio dire – che conosciamo: è una delle tre, forse quattro, che noi umani occidentali abbiamo deciso di fare una trentina di anni fa, decidendo di avviarci verso una mutazione culturale, e forse antropologica, a cui abbiamo affidato la nostra speranza in un mondo migliore. La mossa animale è questa: eliminare tutte le mediazioni che si possono eliminare. Quando è impossibile farlo, limitare le mediazioni al minimo. Servono degli esempi? TripAdvisor, Airbnb, Amazon, Wikipedia.
Perché passare da un’agenzia di viaggi, quando posso scegliermi e prenotarmi l’albergo da solo? La risposta ci sarebbe: perché l’agente di viaggio ne sa qualcosa e tu non ci capisci una fava. Questa risposta è la risposta che negli ultimi vent’anni è morta, è diventata falsa, è risultata inutile. Il motivo è semplice: se io sostituisco al parere di un esperto quello di un milione di gente inesperta che però una sua idea ce l’ha, arrivo più vicino alla verità, ci arrivo più velocemente, ci arrivo spendendo meno soldi e ci arrivo in un modo che mi dà una certa idea di libertà: di fatto, una situazione irresistibile. Google funziona, grosso modo, su questo principio logico. Ora, attenzione: la vera conseguenza di questo processo è solo una, e non è che vi prenotate gli alberghi da soli (quello è un dettaglio): la vera conseguenza è che da qualche anno la gente si sta allenando a fare a meno degli esperti, cioè delle élite. Ti alleni per anni in piccole cose (la scelta del ristorante, la cura per il piede dello sportivo, le ricerche copiate da Wikipedia) e inizi ad acquisire una certa sicurezza di te e soprattutto una silenziosa capacità di ribellarti alle élite. Non a quelle economiche, quella è un’altra storia, lì dormiamo tutti un sonno profondo. Parliamo di élite culturali: quelli che hanno studiato, quelli che sanno. Nel tempo accumuli anche la sorda convinzione di essere stato per lungo tempo vittima di una truffa: se te la puoi cavare benissimo senza quelle élite, evidentemente per anni quelli ti hanno fregato, portandoti via soldi, tempo, controllo della tua vita, indipendenza, libertà. Caricato a molla in questo modo, guardi la tua vita: è quel che è. Dato che l’Occidente usa come strategia di sviluppo l’imporre modelli performativi altissimi, facile che, a guardarti bene intorno, un po’ tutto risulti vagamente fané, deludente, miserello. Accade che quel giorno ti chiedano: vuoi che il tuo Paese esca dall’Europa o no?
È in quel momento che ti accorgi che tutte le élite culturali che conosci NON lo vogliono. E’ anche piuttosto impressionante notare come la loro vita non sembri poi così fané.
Eh eh eh. Brexit! Ci sono naturalmente moltissime piccole e grandi cause che hanno portato gli inglesi a diventare degli extracomunitari e una boutade dei Simpson a diventare realtà (Trump
Presidente). Ma io tenderei a riportare il tutto, comunque, a quella mossa animale che, a monte, sta cambiando il nostro mondo. In questo senso, ritrovarsi Trump presidente è una lezione altissima, da non perdere assolutamente. Dice una cosa con grande chiarezza: se lo lasci andare, il gesto che elimina le mediazioni non si ferma e va fino in fondo, usando il combustibile del risentimento nei confronti delle élite. Una parte della nostra comunità non pensa che questo sia un rischio. Un’altra sì. Non lo scontro, ma il dialogo tra queste due anime dell’Occidente è uno dei tavoli da gioco che ci aspetta. Sarà affascinante. C’è un equilibrio da trovare, un baricentro, una linea rossa. Per quel che ci capisco io, il salto delle mediazioni è in effetti una mossa geniale, irrinunciabile, non si torna indietro: ma c’è da capire in che punto, esattamente, può diventare rovinosa: il punto esatto in cui è che ci conviene mantenere un’élite, formarla, curarla: fidarsi di lei. Non è un punto facilissimo da trovare. Come ho detto: sarà una partita molto affascinante. Andrà giocata, sono sicuro, senza alcuna paura (astenersi apocalittici, grazie) ma anche con una certa fermezza, questo sì. Trump obbliga tutta una parte di noi a riacquisire una certa fermezza. Per chiunque ha studiato e fa parte, in qualche modo, di un’élite (eccomi qua, per dire) è finito da un po’ il tempo dell’arroganza, della cecità, del privilegio e delle vittorie facili: la ricreazione è finita, gente! Arroccarsi sdegnosamente dietro alle mura della nostra raffinatezza sarebbe criminale. Ma anche lasciar allegramente passare il vento del tempo, incapaci di usarlo per far girare i mulini che macinano lo splendido grano dell’uomo, sarebbe imperdonabile. Per usare una bella espressione cara a Buffon, non è il momento di scansarsi, ecco.
Non si è scansato il ferramenta del Wyoming, figurati se mi scanso io.

-Umanesimo e democrazia, contro i populismi - Articolo di Maurizio Ferraris su La Repubblica 07/11/2016


Tutto l’umanesimo che serve per salvare la democrazia
Contro i populismi, l’arte del buon governo non può ignorare l’idea di verità.  Anche mettendo in discussione valori individuali

Articolo di Maurizio Ferraris – Uscito su La Repubblica del 07/11/2016, in data precedente al voto americano, non contiene quindi valutazioni riferibili all’esito elettorale, ma considerazioni generali utili a valutare non solo la situazione americana ma quella di tutte le democrazie


Domani un numero non grandissimo di cittadini americani sarà chiamato a pronunciarsi nell’alternativa tra Hillary Clinton e Donald Trump. È in fondo una buona cosa che negli Stati Uniti il voto sia una procedura complicata, perché se bastasse premere un pulsante sul telecomando è altamente probabile che il vincitore sarebbe Trump che, come si dice con una espressione che fa riflettere, “parla alla pancia della nazione”. Nel caso si verificasse questa eventualità, ci si potrebbe chiedere come reagirebbero gli ultimi postmoderni, che con un grande filosofo come Richard Rorty, avevano teorizzato la superiorità della democrazia sulla filosofia, e della solidarietà sull’oggettività. Il populismo non è forse la realizzazione di queste condizioni? Poco importa che gli argomenti usati dai contendenti siano corretti, basta che le procedure siano democratiche; poco importa che il vincitore possa dire cose che non stanno né in cielo né in terra, basta che il pubblico sia contento: America drinks and goes home, come cantava Frank Zappa. Sono sicuro che, entrando in contraddizione con la propria teoria, Rorty (scomparso nel 2005) avrebbe sostenuto Clinton, ma questo non risolve, bensì acuisce, il problema, che ha due aspetti. Il primo è che pretendere di separare democrazia e verità, giustizia sociale e osservanza dei valori cognitivi, non è una buona idea. La democrazia in cui, per rispetto dei valori individuali, fosse ammessa come vera la teoria secondo cui i vaccini causano l’autismo, non sarebbe una vera democrazia, non solo perché l’inosservanza dei valori cognitivi non eviterebbe i conflitti (anzi, li aumenterebbe, in assenza di criteri oggettivi di arbitrato), ma soprattutto perché metterebbe la società su una china scivolosa (se i vaccini causano l’autismo come escludere che lo si possa curare con gli esorcismi?). Questa circostanza è al centro di un piccolo e importante libro di Julian Nida-Rümelin, Democrazia e verità, uscito in Germania nel 2006 e tradotto in italiano da Franco Angeli (gli stessi argomenti hanno trovato uno sviluppo più ampio e sistematico nel monumentale Humanistische Reflexionen, uscito da Suhrkamp). Nida-Rümelin è professore di filosofia nell’Università di Monaco ma, cosa altrettanto importante per questo discorso, ha una lunga esperienza politica, a vari livelli (è stato tra l’altro ministro della cultura nel primo governo di Gerhard Schröder). Il fatto che il richiamo alla necessità della verità nella democrazia venga da una persona che conosce dall’interno la macchina della democrazia è particolarmente significativo. Il professore di Stanford (come era Rorty), che ha passato tutta la sua vita tra colleghi educati e tolleranti, e che si è confrontato con poste in gioco politiche che nel migliore dei casi consistevano nell’attribuzione di una cattedra, può sviluppare l’utopia di un mondo senza verità e senza realtà. Il professore che ha conosciuto la politica dall’interno (e che insegna nella stessa università in cui la rosa bianca rappresentò l’unico tentativo tedesco di resistenza contro il sovrano antirealismo di Hitler) la vede diversamente. Di fronte a interessi robusti, a questioni di vita e di morte, a conflitti che trasformano anche la più clamorosa battaglia accademica in una tempesta in un bicchier d’acqua, ci si rende conto che l’addio alla verità ha conseguenze devastanti. Da una parte, vien meno l’unica possibilità di porre un freno alla volontà umana, che è infinita, e di fornire argomenti conclusivi. Dall’altra, costituisce l’unico vero strumento di lotta contro “i grandi artisti del governo”, contro i populisti che sanno avvalersi al meglio della strepitosa indifferenza degli umani rispetto ai valori cognitivi.
E con questo veniamo al secondo problema annunciato all’inizio. Si tratta di una situazione vecchia quanto il mito della caverna raccontato da Platone nella Repubblica. I prigionieri, cioè tutti noi, sono abituati a muoversi nella penombra, mentre il filosofo, che ha visto il sole della verità, è straordinariamente goffo (diciamo, goffo come Platone a Siracusa), perché non vede niente. Il mito suggerisce due cose: che gli umani abbiano una predilezione per le tenebre, e che la luce del sole sia riservata a pochi illuminati. Platone tirava l’acqua al suo mulino, all’idea che la democrazia sia un male e che la sola forma di governo più giusta sia quella che anacronisticamente definiremmo una tirannia illuminata. E Popper a suo tempo ha dato ottimi argomenti contro la critica platonica della democrazia. Se dunque il ricorso al tiranno illuminato è impraticabile, resta il fatto difficilmente contestabile della propensione dell’umanità alle tenebre e alle catene. Che fare? Dal 1789 la politica si è concentrata, con ottimi argomenti, nella denuncia dell’imbecillità del tiranno, e ha fornito le istituzioni democratiche in cui ci troviamo oggi, e che, per quanto limitate, sono infinitamente superiori, soprattutto sul piano dei diritti, a quelli di qualunque stato di antico regime. Nel momento in cui il web ha dato voce e potenziale visibilità politica al resto dell’umanità, è opportuno concentrarsi sul problema complementare, della naturale propensione dell’umanità verso le tenebre. È naturale? Certo che sì. L’animale umano è molto più inadatto alla vita rispetto alla maggior parte degli animali non umani. Non basta a se stesso, perciò ha bisogno di tecnica, per esempio dell’accogliente situazione descritta da Platone: una caverna ben riscaldata con la televisione accesa, un Truman Show in stile attico: Athens drinks and goes home. Ora, però, non dimentichiamo che la tecnica non è solo alienazione, e non finisce con i rasoi elettrici. La tecnica è tutto ciò che gli umani hanno inventato per rimediare alle loro insufficienze, compresi il linguaggio, la scrittura, il pensiero e la cultura. L’umano non è il punto più alto del creato, bensì un prodotto contingente e difettoso, il suo cervello non possiede niente di più di quello di tanti altri animali non umani. Tuttavia, e proprio in forza della sua deficienza, l’umano ha creato delle esteriorizzazioni tecniche che ne definiscono la specificità. Contrariamente a quello che sosteneva Rousseau, l’uomo non nasce libero. Questa è la cattiva notizia. La buona è però che può diventarlo, attraverso lo sviluppo delle sue dotazioni tecnologiche. Ecco il significato sempre attuale dell’umanesimo, che non si contrappone alla tecnica ma ne è la quintessenza, giacché l’essenza dell’umano consiste nel non averne una, e ciò che ci rende umani non è in noi, ma fuori di noi, nel mondo culturale. Questo non significa che, per esempio, il web può diventare immediatamente democrazia, come hanno teorizzato utopisti e furfanti. Significa però che il web costituisce un ingranaggio indispensabile di quella tecnologia della libertà chiamata a contrastare, come cultura (dunque come sensibilità ai valori cognitivi) la propensione alle tenebre che costituisce il tratto più appariscente e fastidioso della natura umana.

mercoledì 2 novembre 2016

"Che fine ha fatto il capitalismo italiano'" - saggio di Giuseppe Berta, presentazione di Salvatore Tropea (LaRepubblica 01/11/16)


Il capitalismo nostrano
 che non fece l'impresa

Esiste ancora il capitalismo italiano? Da tempo questa domanda è ricorrente come l'avvicendarsi delle stagioni nella storia del paese. Questa volta però è più urgente ed è in parte legata al passato che già si conosce, in parte al futuro che si vuole o più esattamente si deve costruire per riappropriarsi di un posto e di un ruolo in un mondo profondamente cambiato sotto la spinta di nuovi attori che estromettono i vecchi. A porsela è Giuseppe Berta, storico e sociologo della Bocconi e la sua risposta è no se la forma di capitalismo è quella che abbiamo conosciuto negli anni Sessanta del secolo passato e che di fatto è stata smontata tra la fine del Novecento e l'inizio del Duemila senza che ad essa sia sopravvissuto un modello economico capace di offrire una prospettiva. Insomma, Olivetti, Fiat, Pirelli, Iri sono un altro mondo consegnato agli archivi al quale potrebbe subentrare un altro tipo di capitalismo, quello fatto dalle tante aziende virtuose la cui caratteristica è quella di «enfatizzare le condizioni peculiari in grado di animare una crescita magari più lenta, ma costante e solida».
È una scommessa e un atto di coraggio. Nel suo ultimo saggio, edito da il Mulino, con il titolo Che fine ha fatto il capitalismo italiano? Berta mostra di crederci e spiega in maniera accattivante questo suo prendere partito in un paese che tende a inseguire soluzioni improbabili per i suoi tanti mali, compreso il declino economico. Quel che viene fuori è il racconto della transizione dal capitalismo del Novecento basato sulla fabbrica e la produzione di beni che il lavoratore poteva acquistare in quanto possessore di un reddito che glielo consentiva a quello di una capitalismo del low cost dove l'illusione di prendervi parte svanisce con la feroce tendenza a pagare poco il lavoro ignorando o sottovalutando l'effetto perverso di andare incontro a un mercato fatto di consumatori deboli. E c'è posto anche per un rilettura del ruolo dell'Iri.
E poiché ogni buon saggio per essere tale deve indicare una "via d'uscita" Berta non si sottrae a questo impegno e nel sostenere che «l'Italia economica ha più che mai urgenza di uno sguardo realistico rivolto a se stessa, che la sottragga, al contempo, alla retorica e alla decadenza», invita a prendere atto che le nostre imprese «non sono e non possono essere le incarnazioni di un capitalismo che oggi si muove con rapidità estrema e con la mobilitazione di capitali immensi, fuori dalla portata degli operatori italiani». Cosa che, a suo dire, non equivale a sminuire o sottovalutare la loro qualità. Quindi nessuna nostalgia del «secolo manifatturiero, dell'Italia del triangolo industriale, dei capitani di industria». Quella è storia passata, Berta dice «una parentesi», mentre oggi occorre pensare a un capitalismo leggero fatto di piccole e medie imprese proiettate verso le lontananze del mercato globale. Che per lui non è un "downgrading autoimposto" ma semplicemente l'ultima frontiera del made in Italy.

Che fine ha fatto il capitalismo italiano? di Giuseppe Berta
( Il Mulino, pagg. 160, euro 14)

martedì 1 novembre 2016

La parola del mese - Novembre 2016 (questo mese è una/trina)


LA PAROLA DEL MESE 


A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

NOVEMBRE 2016



ontologia/epistemologia/etica

ontologia = Nel linguaggio filosofico., la scienza dell’essere in quanto essere: il termine è stato introdotto nel sec. 17° e deve in particolare la sua fortuna al filosofo tedesco. Christian Wolf (1679-1754) che nella sua Philosophia prima sive Ontologia (1729) lo definiva come equivalente di «filosofia prima» (espressione usata da Aristotele per la scienza dell’essere, poi chiamata metafisica) «in cui sono contenuti tutti i principî della conoscenza umana»; è stato poi ampiamente riutilizzato nel nostro secolo, con valenze diverse, da E. Husserl, N. Hartmann e M. Heidegger.



epistemologia = Nella filosofia del sec. 19°, la parte della gnoseologia che più in particolare si occupava dei metodi e dei fondamenti della conoscenza scientifica. In un’accezione più moderna e corrente, che prescinde dalla priorità dell’indagine gnoseologica e preferisce insistere sull’esemplarità della scienza positiva, s’intende per epistemologia l’indagine critica intorno alla struttura e ai metodi (osservazione, sperimentazione e inferenza) delle scienze, riguardo anche ai problemi del loro sviluppo e della loro interazione, sinonimo. quindi di filosofia della scienza; può riferirsi anche all’analisi critica dei fondamenti di singole discipline: epistemologia della matematica, e. della fisica, ecc., o della conoscenza in quanto tale (e. genetica, e. evoluzionistica).



etica = Nel linguaggio filosofico., ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso sé stessi e verso gli altri, e quali i criterî per giudicare sulla moralità delle azioni umane: etica socratica, etica edonistica, etica kantiana, etica utilitaristica, etica nietzschiana; Etica Nicomachea e Etica Eudemea, titoli di due opere morali di Aristotele. In senso più ampio, complesso di norme morali e di costume che identificano un preciso comportamento nella vita di relazione con riferimento a particolari situazioni storiche: etica greca, etica cristiana; etica protestante, quella che, secondo le tesi del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), avrebbe informato in Europa lo spirito del capitalismo dopo il 16° sec. nei paesi protestanti, o fra le sètte protestanti all’interno dei paesi cattolici (si tratterebbe di un’etica razionalistica che assegna fini essenzialmente mondani, quali l’impegno, il lavoro, la riuscita, e soprattutto l’accumulazione metodica della ricchezza).



Perché questa composizione di tre parole unite come parola del mese?

Perchè tutte tre, fra di loro legate, sono al centro di un vivo dibattito in campo filosofico che ha importanti ricadute per ogni attività culturale e per chi, come noi di Circolarmente, cerca di comprendere la realtà, sociale, economica, scientifica e culturale in senso lato, nella quale siamo inseriti. A maggior ragione se, come quest’anno, intendiamo riflettere su temi quali “memoria e trasformazioni”. Restando a quanto si sta muovendo in campo filosofico sembra definitivamente superata la sbornia “post-moderna” che, all’insegna di un “pensiero debole” e soprattutto nella sua variante francese, aveva negato l’oggettività dei fenomeni osservabili (……non esistono fatti ma solo interpretazioni…..). Oggi da più parti viene riproposta una forte attenzione alla “realtà”; diverse scuole di pensiero sono riconducibili ad un filone filosofico riassumibile in quello che viene definito “nuovo realismo”. Uno dei maggiori pensatori di questo movimento è sicuramente il filosofo torinese Maurizio Ferraris, autore di numerosi saggi sul tema a partire da quello intitolato proprio  “Manifesto del nuovo realismo” (Laterza 2012).

Le questioni legate a questa svolta significativa sono ovviamente molte e molto complesse, volendo in qualche modo sintetizzare al massimo il suo pensiero per quanto qui ci interessa è possibile sostenere che per Ferraris alla base di ogni riflessione umana sta l’aspetto ontologico (quello che c’è) dal quale derivano sia l’epistemologia (quello che sappiamo e come arriviamo a saperlo) sia l’etica (quello che dobbiamo fare in relazione a quello che c’è). Tutto semplice come all’apparenza può sembrare? Tutti convinti di questa catena? Ebbene no, molti dei pensatori comunque riconducibili al nuovo realismo lo sviluppano con varianti significative. Fra questi va iscritto Paolo Flores d’Arcais il quale, pur dichiarando di aderire pienamente al nuovo realismo, ha da tempo avviato con  Maurizio Ferraris un confronto, tanto garbato quanto acceso (il cui ultimo atto può essere letto in dettaglio nell’ultimo numero di MicroMega 7/2016), proprio sulla relazione fra ontologia, i fatti, e l’epistemologia e l’etica. Procedendo con altrettanta massima sintesi il pensiero di Flores d’Arcais si differenzia da quello di Ferraris in quanto egli sostiene che, pur derivando in ambedue i casi da “fatti”, è diversa l’epistemologia riferibile a quelli scientifici, conoscenza “dura” in quanto falsificabili, piuttosto che a fatti “sociali”, conoscenza “debole e sempre opinabile”. Egli nega inoltre che l’etica derivi dai fatti ritenendola al contrario una “creazione” culturale umana a sé stante tale da far percepire l’ontologia in modo diverso a seconda della diversità dei valori che la compongono. La differenza fra queste posizioni, seppur riconducibili nel comune alveo del nuovo realismo, non è cosa di poco conto. Difficile in questo nostro blog sviluppare un dibattito specifico sui temi più strettamente filosofici ma è bene, proprio nel momento in cui la nostra attenzione si rivolge ai “fatti” riferibili alla memoria e a quelli prodotti dalle trasformazioni, tenere in una certa considerazione i modi diversi di guardarli e giudicarli. Un primo passo può essere anche soltanto capire fra di noi se ci pare più convincente l’approccio di Ferraris rispetto a quello di Flores d’Arcais.