martedì 24 gennaio 2017

Il bisogno di "uomo forte"


Il bisogno di un “uomo forte”



E’ apparso su La Repubblica del 24/01/2017 l’esito di un sondaggio svolto da Demos – Demetra sul bisogno espresso dagli italiani di “un uomo forte” al comando del paese.

Questo sondaggio è stato svolto nella seconda metà di Novembre 2016 quindi pochi giorni prima del voto referendario del 04 Dicembre il cui esito è stato unanimemente salutato come grande dimostrazione di esercizio democratico.

Difficile stabilire se tra queste due espressione di volontà popolare possa esistere una contraddizione, certo è che, nonostante le “lezioni” della storia, il bisogno di affidare la chiavi del potere ad un “uomo forte” emerge con rilevanza in ogni temperie storica caratterizzata da problemi, incertezze e paure.

I percorsi della democrazia dimostrano in effetti, in molte situazioni storiche, una significative difficoltà ad affrontare e risolvere in modo efficace le problematiche sociali, economiche e politiche, perlomeno con modi e in tempi soddisfacenti le ovvie aspettative.

Non di meno colpisce, e preoccupa, il consenso che sempre raccoglie in queste circostanze una soluzione, o presunta tale, che puntando tutto sulla semplificazione dell’affidare il potere ad un “uomo forte” dimostra in sostanza una forte, fortissima, sfiducia sulla capacità e sulla autorevolezza della pratica democratica. Storicamente appare evidente che l’ opzione dell’ ”uomo forte” non si è mai dimostrata in grado, da sola, di risolvere i problemi che l’’hanno promossa, anzi semmai ha aggiunto problematiche gravi se non drammatiche.

Ma, a riprova che l’esercizio pieno e maturo della democrazia è un traguardo quanto mai difficile da conseguire ed è costantemente soggetto a crisi di sfiducia, la semplificazione dei processi decisionali di comando sembra irresistibilmente crescere con l’acuirsi dei problemi.

Non di meno i risultati di questo specifico sondaggio colpiscono, e preoccupano, per la loro rilevanza percentuale, per l’omogeneità sostanziale di adesione nei diversi gruppi elettorali e nelle diverse fasce di età.







Intervento sulla "memoria" di Zigmunt Bauman


Abbiamo tutti accolto con un poco di tristezza la recente scomparsa di Zigmunt Bauman. intellettuale a tutto tondo capace di fornire importanti chiavi di lettura dei nostri così travagliati tempi.

Nella inevitabile, non meno che giusta, ripubblicazione, a titolo di commiato, di alcuni dei suoi interventi e articoli uno in particolare può interessare noi di Circolarmente. E’ infatti apparso nell’inserto “Robinson” de La Repubblica del 22 Gennaio un breve testo che, in relazione alla commemorazione della Shoah, Bauman dedica al tema della memoria, uno dei due filoni di approfondimento al centro del nostro programma di quest’anno.

Questa è una brevissima sintesi di questo testo, che inseriamo nel nostro blog come ricordo di Zigmunt Bauman, fatta per punti sviluppabili in successivi approfondimenti e discussioni per coerenza con l’invito che Bauman ha lucidamente sempre portato avanti al confronto ed all’approfondimento culturale.

_________________________________________________________________________



…….in questo testo (Bauman) analizza che cosa significa per le società e per gli individui ricordare la loro storia. Un processo complesso che Bauman riassume così: la nostra memoria seleziona ed interpreta e ciò che deve essere selezionato, ed il modo in cui interpretarlo, è una questione controversa e costantemente contestata. E proprio per questo così importante……



· Se è opinione accettata che per le collettività (gruppi) perdere la memoria del proprio passato significa perdere la loro stessa identità, è bene però dire che, in questo senso, la memoria può essere….un dono ed al tempo stesso una maledizione…..

· Il passato è infatti un mare vasto di avvenimenti, che l’uomo è portato a ricordare trasformandoli da materia grezza in “storie”, e la memoria così costruita non ……li conserva mai tutti e non li riproduce mai nella (loro) forma pura e originale…..

· La memoria inevitabilmente, guardando al passato rivisto nella forma di “storie”…… seleziona e interpreta……..ricordare diventa, così facendo, …..prendere posizione sul corso degli eventi passati……

· Questa presa di posizione si articola, come già messo in evidenza da Todorov (Tzvetlan Todorov, filosofo e saggista bulgaro contemporaneo)  …..tra le due trappole della sacralizzazione e della banalizzazione…..ossia nel trasformare un evento passato in un fatto unico, irripetibile (operazione che Todorov ritiene quasi inevitabile se quell’evento è visto e vissuto come “fondativo”)  piuttosto che, non comprendendolo nel suo possibile e vero significato, in un avvenimento ordinario

· Queste trappole scattano in modo diverso a seconda se si stia esercitando una memoria individuale piuttosto che una memoria collettiva

· Le collettività (gruppi) non sono…..come gli individui solo più grandi……sono organismi sociali che si costituiscono proprio condividendo memorie al proprio interno ma al tempo stesso…..non tenendole nascoste e impedendone l’accesso agli estranei….

· In questo senso la sacralizzazione di un evento, se riferita alle finalità di una singola collettività (gruppo), ……impedisce di trarre lezioni valide per tutti da casi particolari e di conseguenza impedisce la comunicazione tra passato e presente……

· Non meno rilevante è il peso negativo della banalizzazione che, se all’apparenza segue un percorso opposto, non di meno priva, a priori, quel passato ….di quel valore unico che può giustificare la stessa necessità di un dialogo tra un gruppo (collettività) e l’altro…..

· La conseguenza più grave è la maturazione consolidata della convinzione che …..le ragioni del destino di ogni gruppo (collettività) possono essere esplorate e rivelate se la ricerca si concentra unicamente sulle azioni, o le omissioni, della collettività (gruppo)  stesso….

· In questo senso la banalizzazione, per contrasto paradossale, crea il terreno fertile alla ricerca di eventi del passato che si prestino alla sacralizzazione, creando una sorta di osmosi fra le due trappole

· …….sia la sacralizzazione che la banalizzazione, dunque, separano i gruppi (collettività) e li mettono in contrasto tra loro……perché entrambe si dimostrano impossibilitate a comprendere l’importanza fondativa della condivisione della memoria

· In particolare la banalizzazione, intesa come l’annacquamento in una indistinta generalizzazione della peculiarità ricavabile da un evento del passato operato da un gruppo (collettività) specie quando questo evento ha caratteristiche “negative” (come è sicuramente la stessa Shoah) annulla la possibilità di…….trarre (da quell’evento)  principi universalmente validi…. (Bauman cita l’esempio di Moshe Landau che, già giudice al processo ad Eichmann (gerarca nazista comandante del campo di concenttramento di Dachau) presiedette anni dopo una commissione che legalizzò l’uso di torture contro “terroristi”, o presunti tali, palestinesi)

· La banalizzazione, e la collegata sacralizzazione di eventi scelti all’uopo, diventa la premessa che una collettività (gruppo) mette in atto per giustificare i propri errori annacquandoli nell’indistinto “così fan tutti”

· Contraddicendo, in questo modo, l’unica vera lezione che la memoria del passato, se esercitata evitando le due trappole della banalizzazione e della sacralizzazione, può trasmettere al presente: la necessità inderogabile di una……universalità etica……

· Ossia la lezione, che può essere innanzitutto tratta proprio dalle “storie” di “omicidi categoriali” (Bauman indica con questo termine l’eccidio di una intera collettività /gruppo, come nel caso della Shoah) che è: amare/rispettare il prossimo e indurre il prossimo ad amarci/rispettarci …….il solo servizio ragionevole, efficace e duraturo che singoli individui e gruppi (collettività) possono rendere al proprio amore per sé……esercitando un giusto uso della memoria

· …….in un pianeta globalizzato i problemi umani possono essere affrontati e risolti solo ricorrendo a una umanità solidale…..e la solidarietà nasce anche dalla condivisione della memoria di tutti i passati

sabato 21 gennaio 2017

- Ancora a proposito di informazione e verità in Rete - Articolo di Mafe De Baggis, scrittore


Bucare le bolle

Che gli ambienti digitali siano un mondo a parte è la prima filter bubble da cui uscire.



Articolo di Mafe de Baggis, scrittore. Tra i suoi ultimi libri il manuale "World Wide We. Progettare la presenza online: le aziende dal marketing alla collaborazione" (Apogeo 2010) e il saggio "#Luminol. Tracce di realtà rivelate dai media digitali" (Informant, 2015).

Nel 2011 esce in America Il filtro. Quello che Internet ci nasconde (Il Saggiatore 2012) di Eli Pariser, un saggio che inventa il termine filter bubble (spesso tradotta anche come “bolla” o “camera dell’eco”), denunciando la crescente personalizzazione delle informazioni in rete. Negli anni successivi alla diffusione del web chiunque utilizzasse la rete aveva accesso a tutte le pagine, che si presentavano uguali per chiunque: i contenuti erano in grandissima parte pubblici e indicizzati dai motori di ricerca. Oggi non è più così: è un processo iniziato da qualche anno, in particolare da quando Google ha iniziato a mostrare risultati diversi a seconda di chi sta effettuando la ricerca. La personalizzazione dipende da informazioni molto diverse tra di loro: si va dalla posizione all’orario, dalla cronologia di navigazione (quello che si è cercato e quello su cui si è cliccato) al programma usato. Anche Facebook ha seguito la stessa strada, proponendoci contenuti (e pubblicità) tagliati sui nostri comportamenti, per cui noi non vediamo tutto quello che viene pubblicato dalle persone e dalle aziende che scegliamo di seguire, ma solo quello che viene pubblicato dalle persone e dalle aziende con cui abbiamo interagito (non per forza su Facebook, ma anche su WhatsApp, Messenger e Instagram, tutti di sua proprietà). Non vale solo per Google o per Facebook, ovviamente: la personalizzazione arriva a modificare i prezzi dei prodotti e dei servizi, che in buona parte sono ormai dinamici, cioè cambiano a seconda di chi, quando e dove li cerca. Anche la possibilità di decidere se far vedere a tutti i nostri contenuti, modificando le impostazioni della privacy, significa che molte pagine sono nascoste ai motori di ricerca e alle persone fuori dai nostri contatti: in sintesi, il web non è più del tutto pubblico e ricercabile. La personalizzazione è una buona soluzione a un problema reale: il sovraccarico di informazioni. Neanche dieci anni fa Clay Shirky, consulente e ricercatore, diceva “non è eccesso di contenuti, ma fallimento dei filtri”. Se oggi ci lamentiamo dell’eccesso dei filtri è perché questi hanno un possibile effetto collaterale, e cioè la progressiva sparizione della diversità dal nostro orizzonte socio-culturale. Quella di Pariser è una teoria semplice, elegante e convincente, che però subisce una pesante lettura strumentale: la maggior parte delle persone che la apprezza, la usa o la cita non prende però in considerazione il contesto in cui l’autore la colloca.  Pariser cioè lamenta la fine della rete democratica e uguale per tutti, ma viene troppo spesso usato per lamentarsi dell’avvento della rete tout court. Esattamente il contrario del suo pensiero, ovvero, “abbiamo davvero bisogno che Internet sia quello che sognavamo che fosse”. Vale la pena ricordare chi è Eli Pariser e come è arrivato nel 2011 sul palco di TED a lanciare questa sfida ai giganti della rete. All’indomani dell’11 settembre 2001, a soli 22 anni, creò il sito 9-11peace.org (oggi non più attivo) per chiedere una risposta non militare all’attentato terroristico. Il sito raccolse dal nulla mezzo milione di firme, portandolo alla direzione e poi alla presidenza di MoveOn.org, piattaforma utilizzata per raccogliere e spingere ad agire concretamente chi voglia cambiare le cose. Pariser è un professionista nato e cresciuto in rete, un attivista politico capace di unire le posizioni di milioni di persone usando con efficacia i media digitali, un imprenditore che ama e sa usare alla perfezione la rete. Uscendo da MoveOn ha fondato Upworthy, una testata giornalistica che confeziona notizie virali, pensata per dare corpo all’idea che “siamo tutti parte della stessa storia”, per mettere cioè in pratica, in rete, il suo ideale di una rete uguale per tutti. La preoccupazione sui filtri e sulla personalizzazione è in crescita perché diminuendo la diversità delle fonti a disposizione in rete rischiamo di rinchiuderci in gruppi di persone simili a noi e con idee identiche alle nostre, creando quelle che vengono spesso definite “camere dell’eco”, cioè ambienti in cui sentiamo solo la nostra voce, convincendoci che sia la verità. È così che le cosiddette post-verità (o post-fatti) si consolidano, portando molti osservatori ad attribuire molte inattese svolte politiche (da Brexit all’elezione di Trump al No al Referendum) alla diffusione di dati, informazioni e notizie false, ma convalidate dal gruppo di pari in cui rischiamo di finire senza neanche accorgercene. Ma quando Pariser denuncia la personalizzazione dei risultati di una ricerca di Google o l’impatto dei filtri sulla nostra timeline di Facebook non sta confrontando le “camere dell’eco” digitali con la società precedente a Internet, ma con la Internet precedente ai filtri. La tesi di Pariser è stata insomma vittima di una fallacia logica della stessa categoria e gravità dell’attenzione selettiva che alimenta le bolle: la tendenza umana a prendere di una teoria solo quello che conferma le nostre posizioni, ignorando quello che ci impone di allargare lo sguardo. Le camere dell’eco sono sempre esistite e i media sono sempre stati un antidoto alla loro permanenza: come spiega benissimo Joshua Meyrowitz in Oltre il senso del luogo (Baskerville 1985), la televisione è stato il catalizzatore del femminismo e dei movimenti del  ’68 semplicemente perché ha mostrato persone in luoghi diversi che vivevano in modi diversi dai nostri. Per usare le parole dell’autore: “la mia tesi fondamentale è che molte differenze che una volta si percepivano tra individui appartenenti a diversi gruppi sociali, a diversi stati di socializzazione e a differenti livelli di autorità, erano sostenute dalla suddivisione degli individui in mondi di esperienza molto diversi.” Non c’è peggior ambiente chiuso e refrattario a posizioni diverse di un paesino, di una famiglia, di votare quello che dice il parroco o di leggere tutta la vita un unico giornale, magari di proprietà di una fabbrica: eppure tantissime persone anche colte e intelligenti hanno sposato con entusiasmo una teoria prendendone solo la parte in cui credevano già, e cioè che Google e Facebook ci stanno costringendo al pensiero unico. Cosa dice invece Pariser? Dice che Google e Facebook hanno reso la rete – un ambiente libero e aperto – più simile alla società precedente di quanto lo fosse alle sue origini: un luogo in cui vedi e trovi solo quello che pensi già, che conosci già, che non ti mette in discussione. Il titolo della seconda edizione del libro in cui espone la sua tesi (non uscita in Italia) lo dice chiaramente, mettendo l’accento sulla parola “new”, non sulla parola “web”: The Filter Bubble: How the New Personalized Web Is Changing What We Read and How We Think. Insomma, secondo Pariser sarebbe la nuova rete personalizzata a cambiare come leggiamo e come pensiamo, non la rete in sé. La comprensione di come si formano e consolidano le camere dell’eco serve non solo a fare chiarezza (cosa che non guasta) nel presente ma anche a evitare nuovi, tragici errori in futuro, come per esempio permettere, anzi, chiedere a Facebook e Google (e ai loro pari) di decidere tra verità e finzione, tra giusto e sbagliato, tra rilevante e secondario. Per combattere gli effetti dei filtri stiamo chiedendo più filtri e filtri più invasivi, e non filtri migliori o filtri aperti. Aperti come le persone, e qui sta, secondo me, la debolezza dell’idea di Pariser, affascinante ma limpidamente riduzionista. L’idea che l’impatto dei filtri digitali sia tale da trasformare una persona colta e curiosa in un’ameba o da impedire a una persona di cambiare idea è figlia della convinzione che siano le macchine a farci fare cose, e non noi a far fare cose alle macchine. È infatti vero che i filtri rischiano di restringere lo spettro di diversità proposto dai mezzi di comunicazione, ma è anche vero che sono stati una soluzione all’eccessivo rumore di fondo che avrebbe comunque complicato e peggiorato la qualità dell’ecosistema dell’informazione. È possibile una soluzione migliore? A mio parere sì, ma pochi sembrano averne voglia, e il timore di Pariser è diventato una profezia autoavverante. Vogliamo davvero credere che un software non possa essere programmato in modo diverso o migliore da come lo vediamo adesso? Vogliamo davvero credere, per esempio, che l’enorme crescita dei volumi di conversazioni digitali impedisca a un algoritmo soluzioni scalabili di gestione della violenza e dell’aggressività, o di proporci opinioni e contenuti in modo evolutivo e non in modo conservativo? Lo dice lo stesso Pariser nel suo TED del 2011: un algoritmo potrebbe proporci non solo quello che già ci piace e che è facile da consumare, ma anche qualcosa che ci stimola, ci incuriosisce, ci mette in difficoltà. E se questo algoritmo non dovesse incontrare il gradimento di milioni di persone che vogliono restare a mollo nella loro comfort zone il problema è del software o della società? Molto si può fare anche modificando lo stile con cui ci si confronta e ci si mette in relazione, perché una rasoiata di Occam alla teoria delle camere dell’eco mi porta a pensare che se non capisco un pensiero diverso dal mio non ho modo di prenderlo in considerazione, soprattutto quando è espresso in modo paternalista o con il disprezzo tipico di chi per lavoro dovrebbe informare (e non insegnare). E se le bolle non si consolidassero intorno ai contenuti, ma intorno alla forma che questi prendono? Se io scegliessi contenuti che capisco, più che contenuti simili a quello che già penso? Tanti anni fa ho avuto la fortuna di intervistare Ester Dyson, l’imprenditrice che nel 1997 ha scritto Release 2.0, uno dei primi libri a interrogarsi sull’impatto di Internet nelle nostre vite, e non ho mai dimenticato due sue affermazioni. La prima è che non vogliamo più entrare in relazione con chi non ci vede e ci tratta come pari. La seconda è che le comunità spontanee, prima che geografiche o tematiche, sono linguistiche (in senso sia geografico, di lingua nazionale, sia tematico, delle parole e dei riferimenti che usiamo). Nella maggior parte dei casi chi lavora per smontare le bufale è animato da un pesante disprezzo nei confronti di chi le segue e le diffonde, e chi scrive per spiegarti che non hai capito niente e sei un cretino lo fa usando il suo linguaggio, non il tuo. Tutto il contrario della buona scrittura divulgativa, che come sintetizza Steven Pinker nel suo The sense of style consiste nel mostrare a un proprio pari, come in una chiacchierata, qualcosa che da solo non riesce a vedere, ma una volta condiviso è immediatamente chiaro. Quasi sempre invece il debunking, l’atto di smontare le bufale, assomiglia a una lezione impartita al buon selvaggio con un linguaggio molto più adatto a consolidare il legame con chi la pensa come noi che a creare un ponte con chi la pensa diversamente. È concepibile dare ascolto e attenzione a chi ci tratta con paternalismo? Io non credo (e non è sarcasmo). Prima di correlare strettamente camere dell’eco, diffusione delle bufale e tendenza a voler vedere solo quello in cui già si crede (come hanno fatto tutti quelli che hanno costretto Pariser ad aggiungere un “new” nel titolo della seconda edizione) dovremmo provare a trovare, usare e negoziare un linguaggio diverso, una terra di mezzo comune. Solo quando avremo seriamente e sinceramente eliminato il disprezzo dal debunking potremo prendere in considerazione la prima e più semplice ipotesi, cioè che chi crede a una bufala non è minimamente disposto né ad approfondire né a cambiare la propria posizione; che il problema quindi non sia tanto nelle informazioni presentate, quanto nella capacità delle persone di accettare una visione del mondo diversa da quella con cui hanno familiarità. Un debunking fatto bene non ci garantisce di ottenere il risultato desiderato (evitare la diffusione di notizie e informazioni sbagliate), ma è un tentativo doveroso. Pensiamo per esempio alla disinformazione sui vaccini: l’esempio di Bebe Vio potrebbe rivelarsi molto più efficace di moltissimi articoli e post informativi, proprio perché lo stesso messaggio viene fatto passare con un sorriso e con gentilezza, senza colpevolizzare chi la pensa diversamente. L’incredibile aumento della potenza dei computer degli ultimi anni ci permette non solo di misurare più dati e di superare i limiti che rallentano ancora la ricerca, ma ci fa anche sperare di poterli misurare e comprendere in modo diverso. Possiamo cioè finalmente studiare il pensiero, la società e la comunicazione come un sistema aperto e collegato e non chiuso e isolato; per usare le parole del fisico Giuseppe Vitiello, “il cervello è permanentemente accoppiato con l’ambiente esterno, esso è un sistema intrinsecamente aperto”. Non possiamo ragionevolmente credere a un pensiero isolato che subisce una riduzione delle scelte a disposizione contro la sua volontà, anche perché la restrizione delle possibilità a nostra disposizione, una restrizione invisibile, secondo Pariser, avviene comunque in uno solo degli ambienti che frequentiamo (Internet), lasciandoci esposti ad altri stimoli in altre situazioni (colleghi, amici, media tradizionali, l’ambiente in cui vivo). Anche se fosse vero che il “nuovo web personalizzato” ci impedisce di vedere altro da noi, viviamo ancora in un ambiente ricco di stimoli per chi è interessato a raccoglierli. La prima post-verità da cui liberarsi è ancora questa: pensare che gli ambienti digitali siano un mondo a sé, che non influenza e non è influenzato dalla realtà di cui invece sono parte integrante. Realtà che dipende dalle nostre scelte: per bucare le bolle dei filtri è sufficiente cercare esperienze diverse, perché la personalizzazione del web rispecchia quello che facciamo. Onore a Pariser per aver sollevato il problema: non facciamogli il torto di usare il suo pensiero per non prenderci le nostre responsabilità.

mercoledì 18 gennaio 2017

Il populismo risposta legittima - Articolo di Thomas Piketty


Il populismo risposta legittima


Fra meno di quattro mesi, la Francia avrà un nuovo presidente. O una presidente: dopo Trump e la Brexit non si può escludere che i sondaggi ancora una volta si sbaglino, e che la destra nazionalista di Marine Le Pen si stia avvicinando alla vittoria. E anche se si dovesse riuscire a evitare il cataclisma, esiste un rischio reale. Il rischio Le Pen riesca a posizionarsi come la sola opposizione credibile alla destra liberale per il round successivo. Sul versante della sinistra radicale, si spera naturalmente nel successo di Jean-Luc Mélenchon, ma purtroppo non è lo scenario più probabile.Queste due candidature hanno un punto in comune: rimettono in discussione i trattati europei e il regime attuale di concorrenza esacerbata fra Paesi e territori, e questo attira molti di coloro che la globalizzazione ha lasciato indietro. Ci sono anche delle differenze sostanziali: nonostante una retorica distruttiva e un immaginario geopolitico a tratti inquietante, Mélenchon conserva malgrado tutto una certa ispirazione internazionalista e progressista.Il rischio di queste elezioni presidenziali è che tutte le altre forze politiche — e i grandi media — si accontentino di fustigare queste due candidature e fare di ogni erba un fascio definendole «populiste». Questo nuovo insulto supremo della politica, già utilizzato negli Stati Uniti con Sanders, con il successo che sappiamo, rischia una volta di più di occultare la questione di fondo.
Il populismo non è nient’altro che una risposta, confusa ma legittima, al sentimento di abbandono delle classi popolari dei Paesi sviluppati di fronte alla globalizzazione e all’ascesa della disuguaglianza. Bisogna fare affidamento sugli elementi populisti più internazionalisti (e dunque sulla sinistra radicale, incarnata nei diversi Paesi da Podemos, da Syriza, da Sanders o da Mélenchon, indipendentemente dai loro limiti) per costruire risposte precise a queste sfide: altrimenti il ripiegamento nazionalista e xenofobo finirà per travolgere tutto.
Sfortunatamente è la strategia della negazione quella che si apprestano a seguire i candidati della destra liberale (Fillon) e del centro (Macron), determinati tutti e due a difendere lo status quo integrale sul fiscal compact, il patto di bilancio europeo firmato nel 2012. Non che la cosa stupisca, visto che uno lo ha negoziato e l’altro lo ha applicato. Tutti i sondaggi lo confermano: questi due candidati seducono innanzitutto i vincitori della mondializzazione, con sfumature interessanti (i cattolici col primo e i borghesi radical- chic col secondo), ma in definitiva secondarie rispetto alla questione sociale. Pretendono di incarnare il perimetro della ragione: quando la Francia avrà riguadagnato la fiducia della Germania, di Bruxelles e dei mercati, liberalizzando il mercato del lavoro, riducendo la spesa pubblica e i disavanzi, eliminando la patrimoniale e aumentando l’Iva, allora sarà finalmente possibile chiedere ai nostri partner di venirci incontro sull’austerità e sul debito.Il problema di questo discorso che appare ragionevole è che non lo è affatto. Il trattato del 2012 è un errore monumentale, che imprigiona l’Eurozona in una trappola mortifera, impedendole di investire nel futuro. L’esperienza storica mostra che è impossibile ridurre un debito pubblico di questo livello senza fare ricorso a misure eccezionali. A meno di condannarsi a registrare avanzi primari per decenni, zavorrando sul lungo periodo qualsiasi capacità di investimento.Dal 1815 al 1914, il Regno Unito ha passato un secolo a registrare eccedenze di bilancio enormi per rimborsare i suoi rentier e ridurre il debito esorbitante prodotto dalle guerre napoleoniche. Quella scelta nefasta produsse investimenti in formazione inadeguati e un ulteriore stallo del Paese. Tra il 1945 e il 1955, al contrario, Germania e Francia sono riuscite a sbarazzarsi rapidamente di un debito di proporzioni analoghe con una combinazione di misure di cancellazione del debito, inflazione e prelievi eccezionali sul capitale privato, mettendosi nelle condizioni di investire sulla crescita. Bisognerebbe fare lo stesso oggi, imponendo alla Germania un Parlamento della zona euro per alleggerire i debiti con tutta la legittimità democratica necessaria. Se così non sarà, il ritardo negli investimenti e la stagnazione della produttività già osservati in Italia finiranno per estendersi alla Francia e a tutta l’Eurozona (ci sono già dei segnali in tal senso).È rituffandoci nella storia che riusciremo a uscire dallo stallo attuale, come hanno appena ricordato gli autori della magnifica Histoire mondiale de la France, ottimo antidoto ai ripiegamenti identitari tricolori. In modo più prosaico, e meno divertente, bisogna accettare anche di tuffarsi nelle primarie organizzate dalla sinistra di “governo” (la chiameremo così visto che non è riuscita a organizzare primarie con la sinistra radicale, cosa questa che rischia, in primo luogo, di allontanarla stabilmente proprio dal governo). È essenziale che queste primarie designino un candidato deciso a rimettere drasticamente in discussione le regole europee. Hamon e Montebourg sembrano più vicini a questa linea rispetto a Valls o a Peillon, ma a condizione che superino le loro posizioni sul reddito universale e il made in France e formulino finalmente delle proposte precise per sostituire il patto di bilancio del 2012 (evocato solo di sfuggita nel primo dibattito televisivo, forse perché cinque anni fa lo hanno votato tutti: ma è proprio per questo che è tanto più urgente chiarire le cose presentando un’alternativa dettagliata). Non tutto è perduto, ma bisogna agire in fretta, se si vuole evitare di mettere il Front national in una posizione di forza.

Traduzione di Fabio Galimberti
(La Repubblica - 17 gennaio 2017)

domenica 8 gennaio 2017

Dati su cui riflettere - Sondaggio DEMOS Dicembre 2016/Gennaio 2017


Rapporto annuale sugli atteggiamenti degli italiani nei confronti delle istituzioni e della politica

realizzato su incarico del Gruppo L'Espresso da Demos (Ilvo Diamanti)

Sabato 08 Gennaio La Repubblica ha pubblicato, con relativi qualificati commenti, una interessante indagine svolta dall’istituto DEMOS (Ilvo Diamanti che, nell’articolo in questione, ne ha illustrato i risultati) sul tema “Italiani nello spazio pubblico” e “Democrazia, politica e architettura dello Stato”.

Abbiamo ritenuto utile recuperare in questo post alcune delle tabelle riassuntive del sondaggio per offrire a tutti noi di CircolarMente spunti per riflessioni legate ai temi che già abbiamo affrontato o dei quali potremo dibattere.

Ci limitiamo in questa prima battuta a presentare asetticamente i risultati dell’indagine per lasciare spazio, senza pre-indirizzarli, alle vostre valutazioni e ad eventuali commenti.

Tabella 1

Non sembra emergere un trend confortante, ma la “piccola” svolta del 2015, confermatasi nel 2016, merita attenzione. Specie se raffrontata alla collegata Tabella 2
  
Tabella 2

E’ certamente difficile avere un quadro davvero indicativo del “sentire pubblico” su temi di carattere generale molto complessi. Oltretutto quando fatti di cronaca possono avere sul breve periodo un impatto significativo per non parlare, più in generale, delle modalità attuali di formazione della cosiddetta pubblica opinione, misurabile per un significativo parametro: la fiducia negli altri descritto nella successiva Tabella 4 . Ciò detto la Tabella 3 offre uno spaccato utile a dimensionare meglio una impressione in qualche modo già del suo diffusa
Tabella 3
Tabella 4


Il tema della “salute” della democrazia è da tempo al centro del dibattito; sono molti i commentatori che segnalano il rischio di un decadimento dello spirito democratico. Quanto emerge dalle Tabella 5 e 6 dimensiona questo problema

Tabella 5

Tabella 6

A poco più di un mese dal referendum costituzionale, il cui esito, aspetto molto importante, è stato confermato da un successivo sondaggio condotto dallo stesso istituto Demos anche come dimensioni del voto, è utile capire, andando oltre il suo significato strettamente politico, quali opinioni sono espresse dal campione intervistato. Pare emergere, dalle successive Tabelle 7 e 8, che chiudono questo post, un orientamento non pregiudiziale sulla opportunità di modifiche, mirate, alla Costituzione sugli stessi temi oggetto del referendum. La domanda “sorge spontanea”: ciò che non è piaciuto è stata la modifica proposta in sé? La modalità con la quale è stato gestito il percorso referendario? I protagonisti della proposta? Altro?
Tabella 7

Tabella 8

domenica 1 gennaio 2017

La parola del mese - Gennaio 2017


LA PAROLA DEL MESE 

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni


GENNAIO 2017  


Si presta a declinazioni diverse, quando non apertamente contrapposte, questa parola del mese. Un verbo. Spesso invocato, ma altrettanto spesso malamente applicato. viene giudicato, all’apparenza in modo unanime, un “modus pensandi”, uno schema logico, indispensabile, se non doveroso, per meglio affrontare e comprendere argomenti e questioni. Ma non mancano al suo riguardo perplessità e diffidenze, per il rischio di un suo utilizzo esasperato. Alcuni in particolare ne diffidano ritenendolo una sorta di scorciatoia verso il  relativismo (una posizione che nega l'esistenza di verità assolute, o mette criticamente in discussione la possibilità di giungere a una loro definizione definitiva)



Contestualizzare

contestualizzare = considerare un’affermazione, un concetto, un fenomeno, un comportamento, una teoria, riferendola al contesto nel quale è maturata e si è manifestata



Esempio (provocatoriamente) “universale” = Contestualizzare l’intera vicenda umana nell’ambito spaziale e temporale nel quale “……..è maturata e si è manifestata……”  vuol dire fare i conti con dimensioni che da sole potrebbero rendere, ad un qualsiasi osservatore esterno,  tutti i nostri storici affanni materia insignificante (ovviamente e comprensibilmente non è la nostra prospettiva di osservazione).

-      La Terra è un piccolo pianeta orbitante attorno ad una stella, il Sole, di medio/piccole dimensioni collocata, con il sistema di pianeti che la circondano, in una posizione decentrata in una galassia, la Via Lattea, composta da circa trecento miliardi di altre stelle. A sua volta la nostra galassia concorre con cento miliardi di altre galassie, composte da cento a quattrocento miliardi di stelle l’una, a comporre l’Universo così come ci è stato finora possibile conoscere

-      Tutte le galassie, le stelle, gli ammassi gassosi ed i pianeti compongono il cinque per cento dell’Universo, il restante  novantacinque per cento è formato da materia a noi finora sconosciuta, la materia oscura

-      Questo Universo ha iniziato a formarsi, trecento-ottantamila anni dopo il Big Bang, ed ha tredici miliardi e settecento milioni di anni di vita

-      La nostra stella, il Sole, con i suoi pianeti, Terra compresa, ha circa quattro miliardi e seicento milioni di anni

-      L’Homo Sapiens, cioè noi, è comparso nel percorso evoluzionistico della vita sulla Terra circa duecentomila  anni fa e le vicende umane definite “storia” hanno poco più di diecimila anni

Ritorniamo pure a volgere lo sguardo sulla Terra e su di noi ma è davvero difficile restare indifferenti di fronte a questo “contesto” e non percepirne il peso “ontologico” (l’oggetto in sé).  Al punto da rendere legittima una visione complessivamente “relativista”?  E sarà magari per questo che la teoria principale di Einstein si chiama “relatività generale”?