domenica 26 marzo 2017

Populismi e fidure femminili - Articolo di Alessandro Lanni e Giorgia Serughetti


Populismi e figure femminili



Marine e le altre

Sono sempre più le donne a guidare partiti e movimenti di estrema destra, creando un nuovo modello di leadership.



Articolo di Alessandro Lanni (giornalista. Ha scritto il libro "Avanti popoli! Piazze, tv, web: dove va l'Italia senza partiti” (2011, Marsilio) e Giorgia Serughetti  (ricercatrice all’Università di Milano-Bicocca. Autrice di “Uomini che pagano le donne” ,Ediesse, 2013 e “Chiedo asilo. Essere rifugiato in Italia” , Egea, 2012). tratto dal Blog  “La tascabile”


La politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti”, come Trump e Putin, diceva Beppe Grillo a gennaio in un’intervista al settimanale francese Journal du Dimanche. Uomini? Nel panorama dei populismi, in Europa e non solo, sono sempre di più donne a guidare partiti e movimenti di estrema destra che, con la loro forza elettorale, minacciano la tenuta dei sistemi politici tradizionali. Se il modello di leadership populista è normalmente associato a caratteristiche maschili come la forza, il vigore fisico, l’assertività, Marine Le Pen e Frauke Petry,Pia Kjærsgaard e Siv Jensen, o in Italia Giorgia Meloni, non solo stanno cambiando il profilo del Front National in Francia o del Partito del progresso in Norvegia, ma lo stanno facendo proprio in quanto donne. Giocando con l’identità femminile e nuovi linguaggi, hanno creato un nuovo modello di leadership, che a sua volta ha convinto nuovi elettori – e soprattutto nuove elettrici. È molto più che pinkwashing. Queste donne, a capo di organizzazioni tradizionalmente maschili, cavalcano temi che sono al cuore dei populismi dell’epoca in cui viviamo, come l’immigrazione: dai muri al “muslim ban”. A volte navigando a vista tra le contraddizioni, come vedremo, sono intenzionate a offrire alle donne dei loro paesi nuovi role model. Come madri, come donne indipendenti, come tutt’e due le cose insieme.

Non solo mamme

Madri del partito, della città, della nazione. Negli Stati Uniti c’è stata la “mamma grizzly” Sarah Palin, la candidata repubblicana alla vicepresidenza Usa nel 2012 e star dei Tea Party. L’associazione tra cura dei figli e cura del popolo intero è un dispositivo simbolico molto forte. Pensiamo a Giorgia Meloni che fece la sua campagna per le amministrative di Roma del 2016 mentre era in gravidanza e rispose, a chi la attaccava: “ho scelto di scendere in campo anche se incinta, Roma ha come simbolo una lupa che allatta due gemelli”. “La nazione è madre e le leader populiste ne sono le rappresentanti naturali” ci dice Nadia Urbinati, politologa della Columbia University. “Per le madri tutti i figli sono uguali, e soprattutto i figli e le figlie sono privilegiati rispetto agli ospiti occasionali della casa. Quindi inclusive verso i propri e non tenere verso gli altri: una visione nazionalista radicale, più che semplicemente populista”. Pia Kjærsgaard, la lady di ferro del Partito del popolo danese (Dansk Folkeparti), che nel 2015 ha ottenuto il 21% dei consensi alle elezioni nazionali (diventando secondo partito), ha spesso presentato se stessa come una donna di casa, icona della filosofia di pace e letizia domestica nota come hygge. Kjærsgaard non fa altro che portare nell’arena politica la stessa attenzione all’ordine che mette nella cura della famiglia: il modello Kjærsgaard è quello della donna forte, che dopo aver messo al mondo e cresciuto i propri figli, secondo un copione piuttosto tradizionale, dà vita a un partito e se ne cura fino a che arriva il tempo di metterlo nelle mani dei giovani. Ciò che ha fatto nel 2012 lasciando la leadership a Kristian Thulesen Dahl.

Madri del partito, della città, della nazione. L’associazione tra cura dei figli e cura del popolo intero è un dispositivo simbolico molto forte.

Marine Le Pen si presenta come donna con tre figli ma pluridivorziata, e nel suo libro Controcorrente (2011) ha raccontato la fatica di crescere figli da sola, celebrando la forza e il coraggio di donne che si assumono un doppio carico, pubblico e privato. Senz’altro un messaggio che un gran numero di donne è oggi pronto a recepire. Ma Marine è anche la figlia del leader di estrema destra Jean-Marie Le Pen, erede e artefice della “de-demonizzazione” del partito del padre, e molti osservatori concordano sull’importanza delle sue qualità “femminili” –moderazione, autocontrollo, gentilezza – come chiavi della crescita di consenso del FN. Madre di quattro figli, separata e convivente con un nuovo compagno è anche Frauke Petry, leader del giovane partito Alternative für Deutschland. In Norvegia, Siv Jensen ha guidato il Partito del progresso a ottenere il 16% alle elezioni del 2013 e a entrare nella coalizione di governo, di cui lei stessa è diventata Ministra delle finanze. Tutto questo, in un partito prevalentemente maschile, e pur essendo single e senza figli. Insomma, mamme o non mamme, donne “tradizionali” o donne “emancipate”, queste leader non giocano su un unico modello femminile, ma offrono al loro elettorato qualcosa di nuovo, forse rassicurante, di sicuro convincente.

Outsider
“Quello che hanno in comune tutti i leader populisti è il fatto di presentarsi come una voce del popolo, come outsider politici e al tempo stesso autentici rappresentanti della gente comune”. Si tratta di un’immagine costruita con attenzione dagli stessi leader populisti, un tratto distintivo, spiegano Cas Mudde e Cristobal Rovira Kaltwasser nel loro recentissimo Populism. A very short introduction. Le donne in posizione di leadership sono ancora, quasi sempre, delle outsider, delle eccezioni, dei casi atipici. Un elemento chiave nel profilo delle leader populiste è dunque la loro “doppia estraneità”. Nella stanza dei giochi della politica si presentano come particolarmente adatte a incarnare l’opposizione tra popolo ed élite, che è l’asse su cui s’incardinano tutti i populismi: le donne sono/rappresentano il popolo perché in quanto donne non sono l’élite e sono escluse dal campo delle decisioni. È questo che dal punto di vista simbolico funziona nel gioco populista, al pari dell’imprenditore e del comico che scendono in campo. “Il solo fatto che un leader populista sia una donna, mentre la vasta maggioranza delle élite (politiche) è composta da maschi, rafforza la sua immagine di outsider politica” proseguono Mudde e Kaltwasser. Questo non significa che le campionesse del populismo in Europa non siano professioniste della politica. Le Pen è nata dentro il Front National, Kjærsgaard è una delle fondatrici del Partito del popolo danese che ha guidato fino al 2012 e di Giorgia Meloni conosciamo la lunga storia politica nella destra italiana. Eppure, quel che è decisivo è il loro essere donne e neanche troppo “ordinarie” in un contesto tradizionale. Eccolo il “fattore Marine”. Donna, non giovanissima ma ancora giovane, ha dato una svolta soft al programma del FN, rifondandolo sulla retorica della Francia repubblicana, e coniugando gli obiettivi della difesa nazionale e resistenza all’“oppressore” con un linguaggio di eguaglianza, libertà e laicità.

Le donne in posizione di leadership sono ancora, quasi sempre, delle outsider. Per questo sono adatte a incarnare l’opposizione tra popolo ed élite: l’asse su cui s’incardinano tutti i populismi.

“Marine Le Pen, la figlia di Jean-Marie Le Pen, ha abbandonato il revisionismo storico del padre (tristemente famoso per aver definito le camere a gas un “dettaglio storico”) e ha cercato di presentare il proprio partito come l’ultimo difensore dei valori repubblicani francesi contro le minacce dell’Islam e della dittatura economica dell’Area Euro da parte della Germania” nota il politologo di Princeton Jan-Werner Müller in Cos’è il populismo?.

Il nemico sono gli immigrati e l’Islam, mentre alcune battaglie conservatrici, sebbene non siano rimosse, restano sotto traccia. “Io sono contraria, ma capisco chi abortisce” ha detto Marine, che sull’interruzione di gravidanza ha posizioni più soft della nipote Marion Le Pen, giovane astro nascente del partito. Anche l’antisemitismo bandiera del vecchio Jean-Marie è cancellato (anche se di recente si è riaccesa una polemica sulla doppia cittadinanza che riguarderebbe anche gli ebrei francesi). Femme, femme, femme. “Essere donna in politica non è un handicap ma un bene”. Sulla copertina della rivista/depliant che ha distribuito in 4 milioni di copie a febbraio, è chiaro come Marine voglia presentarsi: come una donna. Nel lungo e faticoso processo di distacco – quantomeno politico – dal padre questo è un passo fondamentale. Marine è “una madre, una sorella, una donna in politica in un mondo di uomini”.

Conquistare il voto femminile – Le elettrici

Il gender gap tra gli elettori del FN si sarebbe chiuso. Stando ai sondaggi attuali, infatti, la torta elettorale lepenista sarebbe divisa a metà: 50% uomini e 50% donne. Ma c’è di più. Secondo un sondaggio realizzato da Elabe, in un ipotetico – ma ormai non improbabile – secondo turno tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, quest’ultima avrebbe dalla sua più donne che uomini, 39% e 37%. Cinque anni fa, nel voto che avrebbe portato Francois Hollande all’Eliseo erano solo il 17% le donne francesi che sceglievano Marine. Il tradizionale Front National tutto maschile di Jean-Marie non esiste più e l’ex delfina è la responsabile della trasformazione. Parlare alle donne francesi significa al tempo stesso parlare a una fetta d’elettorato dimenticata fino a ieri e intestarsi alcune battaglie che sono “repubblicane” e “femministe”. Negli Usa, la candidatura “femminista” di Hillary Clinton non ha riscosso successo tra le donne, in particolare nelle fasce della società più esposte alla crisi come le elettrici bianche senza laurea che negli stati chiave – per esempio Michigan e Ohio – hanno premiato in massa Donald Trump. La scommessa democratica sul tema del machismo e le accuse di molestie sessuali al candidato della destra non ha pagato. Il fattore (negativo) Trump non c’è stato, gli elettori – uomini e donne – l’hanno scelto senza badare a quello che si raccontava su di lui, spinte da fattori quali la condizione economica e l’appartenenza razziale. Un trend analogo pare sia in corso anche in Europa. La crescita di Marine tra le donne francesi ha delle ragioni precise, spiega la sociologa Nonna Mayer, che da 25 anni studia il Front National. In primo luogo c’è il cambiamento di ruolo delle donne nella società in un’epoca di crisi economica. Negli ultimi dieci anni è aumentato il numero delle donne nelle fasce lavorative meno qualificate, operaie, commesse ecc. Proprio quel popolo degli esclusi e degli “sconfitti dalla globalizzazione” a cui si rivolgono i populisti in tutto il mondo. “Le donne sono la chiave” dice Mayer “Queste donne che spesso si sono astenute oggi sostengono Le Pen per proteggere il loro lavoro e la loro sicurezza”.

Negli ultimi dieci anni è aumentato il numero delle donne nelle fasce lavorative meno qualificate: proprio quel popolo degli esclusi a cui si rivolgono i populisti in tutto il mondo.

“I movimenti di destra attirano oggi perché sono prima di tutto nazionalisti, e non perché siano plebiscitari che inneggiano a un leader. Lo stile populista è machista, non come quello nazionalista che, come detto, è aperto alla nazione materna” ci dice ancora Urbinati. Si sta quindi incrinando quello stigma nei confronti dei partiti di estrema destra europei al quale – secondo il politologo olandese Eelco Harteveld – sarebbero più sensibili le donne rispetto agli uomini.

“Difendiamo le nostre donne”

Difendiamo la libertà delle “nostre” donne (o “difendiamoci, donne!”) dal pericolo dell’immigrato e del musulmano. Ma anche: liberiamo le donne immigrate e musulmane dal giogo patriarcale della loro cultura. Sono questi i due slogan più ricorrenti nella propaganda populista europea che mescola argomenti razzisti con l’appello all’uguaglianza tra i sessi. Lo studio Understanding the Populist Shift individua tre tipologie di discorsi che partiti e movimenti populisti di estrema destra utilizzano per parlare di genere e sessualità: quelli che si richiamano alla “natura”, ai ruoli naturali di donne e uomini; quelli che difendono il modello della famiglia tradizionale ma riconoscono il diritto di ognuno di vivere la propria sessualità come crede, purché resti nel privato; quelli che difendono l’eguaglianza di genere, la libertà sessuale, i diritti delle minoranze come valori caratteristici dell’Occidente, a cui si contrappone la cultura “altra”, inassimilabile, dell’Islam, in particolare dell’uomo musulmano. Le tre tipologie di discorsi sono spesso mescolate tra loro, non senza evidenti contraddizioni, ma la terza sembra prevalere tra le leader populiste di cui stiamo parlando, almeno nei riguardi dei diritti delle donne. All’inizio del 2016, Marine Le Pen utilizzò strategicamente le confuse notizie provenienti dalla notte di Capodanno a Colonia, quando centinaia di donne sporsero denuncia contro stranieri ignoti per aggressioni sessuali e furti, per lanciare l’idea di un referendum anti-immigrati in Francia. “Sono disgustata”, scriveva sul quotidiano L’Opinion, “dall’inaccettabile silenzio e quindi tacito consenso della sinistra francese di fronte a questi attacchi fondamentali ai diritti delle donne”. Richiamandosi alla madre del femminismo francese, Simone de Beauvoir, e al suo monito “soffriremo di una crisi politica, economica e religiosa per cui i diritti delle donne saranno rimessi in questione”, Le Pen identificava nella crisi migratoria, “l’inizio della fine dei diritti delle donne”. Sonore sono state anche le prese di posizione della leader del Front National sul velo islamico, tema sempre caldo nel dibattito francese sulla laïcité. Durante la sua visita in Libano, a febbraio di quest’anno, Le Pen ha rifiutato di indossare il velo per incontrare il Gran Mufti, e il numero due del Front National, Florian Philippot, ha esultato per il messaggio di emancipazione.

Richiamandosi alla madre del femminismo francese, Simone de Beauvoir, Le Pen identificava nella crisi migratoria, ‘l’inizio della fine dei diritti delle donne’.

Nel 2015, Giorgia Meloni approfittò invece della giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre per contrapporre la situazione italiana, in cui – scriveva su Libero “l’arretramento culturale che fomenta il maschilismo e nei casi più gravi la violenza sulle donne è un fenomeno oggettivamente in regressione”, e quella delle nazioni che “soffrono la presenza di un’ideologia religiosa repressiva e discriminante nei confronti delle donne”, in particolare nel mondo islamico. Non possiamo “sottovalutare il dramma con cui talvolta sono costrette a convivere le donne islamiche che vivono in Italia”, affermava la leader di Fratelli d’Italia. Come sopra: eguaglianza di genere in funzione anti-islamica. Anche il partito di Frauke Petry ha assunto nell’ultimo anno posizioni sempre più apertamente anti-islamiche, rappresentando il velo e i matrimoni forzati come tratti di radicale estraneità di questa religione all’identità tedesca. “Una donna ben integrata in Germania”, ha detto la leader dell’AfD, “non ha bisogno del velo”: se coprire il capo e il corpo ha la funzione di proteggere le donne dagli uomini, questo potrà valere nelle società musulmane, non certo in Germania. La norvegese Siv Jensen, spesso descritta come post-femminista perché si presenta come una feroce avversaria del “femminismo di Stato”, propone apertamente un doppio standard: no alle politiche di eguaglianza di genere per le donne norvegesi, che non ne hanno più bisogno; sì a queste politiche per le donne immigrate, in particolare provenienti da paesi a maggioranza musulmana, donne soggette a una cultura patriarcale da cui vanno liberate.

Omosessuali e populismi di destra

Sulle questioni LGBTQ il panorama dei diversi paesi si fa più mosso. Le donne leader dei populismi europei non sembrano riservare ai diritti di gay e lesbiche la stessa attenzione che questi ricevono, per esempio, nel programma dell’olandese Geert Wilders, che afferma di volerli difendere contro l’intolleranza dei musulmani. In Olanda, del resto, c’è il precedente di Pim Fortuyn, omosessuale ferocemente anti-islamista e aperto sostenitore dei diritti delle minoranze sessuali. Anche Marine Le Pen, tuttavia, ha portato il partito ereditato dal padre – che non esitava a definire l’omosessualità come “un’anomalia biologica e sociale” – su posizioni sempre più avanzate, guadagnando un consenso crescente tra i gay francesi. Secondo uno studio dell’istituto Cevipof, alle ultime elezioni regionali ha votato per il Front National il 32% delle coppie omosessuali sposate, contro il 30% delle coppie eterosessuali sposate. Certo, Le Pen intende abolire il matrimonio egualitario, tornando alla situazione precedente quando era disponibile solo l’istituto delle unioni civili, ma questo non sembra turbare il mondo LGBTQ quanto la minaccia identitaria rappresentata dall’“islamizzazione”. La mossa vincente è stata inserire gli omosessuali tra le categorie minacciate dall’Islam radicale, che l’FN è pronto a difendere: “sento sempre più testimonianze sul fatto che, in certi quartieri non è facile essere né donna, né omosessuale, né ebreo né addirittura francese o bianco”, disse nel 2010 in un discorso pronunciato a Lione. Non si può dire lo stesso dei populismi di destra italiani, che restano ostili ai diritti LGBTQ. Anche qui, però, si può notare la maggiore “morbidezza” nel discorso di Giorgia Meloni rispetto alle posizioni classiche dell’estrema destra. Dopo l’annuncio della sua gravidanza, durante il Family Day del gennaio 2016, la leader di Fratelli d’Italia ricevette l’augurio ironico di Vladimir Luxuria “Auguri e figli trans!”, a cui rispose: “Se mio figlio fosse gay, trans, bisex, quadrisex, lo amerei come qualunque madre ama suo figlio, ma continuerei a essere contraria alle unioni omosessuali”. Così torna la leader-madre che difende i figli e li ama prima di tutto. La soglia di casa e della famiglia coincide con le frontiere geografiche del paese e culturali di un popolo. Meglio che gli ospiti si accomodino alla porta.


martedì 14 marzo 2017

La democrazia alla prova del multiculturalismo - Articolo di Valentina Pazè


La democrazia alla prova del multiculturalismo



Articolo di Valentina Pazé



Se c’è una formula che condensa in poche parole paradossi e aporie del  multiculturalismo, credo si trovi nel celebre pamphlet di Charles Taylor, là dove il filosofo canadese difende i provvedimenti legislativi adottati in Québec negli anni Ottanta, presentandoli come una garanzia «that there is a community of people here in the future that will want to avail itself of the opportunity to use the French language» (nota 1).  Il paradosso sta nell’idea che un provvedimento di tipo coattivo, come una legge, possa riuscire nell’obiettivo di creare una comunità di persone che vorrà spontaneamente esprimersi in francese. A scanso di equivoci, Taylor chiarisce che la «politica della sopravvivenza» da lui caldeggiata non richiede semplicemente la previsione legislativa del  bilinguismo, che lascerebbe gli individui liberi di scegliere quale lingua usare nelle varie situazioni, ma implica l’imposizione ai figli dei francofoni (e degli immigrati) dell’uso esclusivo del francese nelle scuole e negli uffici pubblici, come misura necessaria per assicurarsi che «future generations continue to identify as French-speakers» (nota 2).   Espressa in termini imperativi, la formula rientra nel genere delle contraddizioni performative studiate dalla scuola di Palo Alto: “devi volere” o, meglio, “devi fare, oggi, ciò che evidentemente non vuoi (in caso contrario non ci sarebbe bisogno di imposizioni), in modo tale che, in futuro, tale comportamento corrisponda al tuo intimo desiderio (o per lo meno a quello dei tuoi figli)”. Il paradosso ha tutta una serie di precedenti nella storia del pensiero: dal “decidere di credere” di Pascal alla “costrizione ad essere liberi” di Rousseau. Che una simile ingiunzione sortisca i risultati voluti è, tuttavia, difficilmente dimostrabile e sarebbe, anzi, facile citare esempi storici che testimoniano il contrario.     Dietro il paradosso della “costrizione a volere” si nasconde un’aporia che riguarda il concetto stesso di comunità culturale di cui si servono i multiculturalisti, sempre in bilico tra storicismo  costruttivismo.Le comunità culturali – ci insegnano i multiculturalisti – stanno invariabilmente “alle spalle” delle persone, forniscono loro «orizzonti di significato» e «quadri di riferimento» ineludibili, con cui dovranno fare i conti anche qualora decidano di tagliare radicalmente i ponti col proprio passato. Sono le tesi che Taylor ha sviluppato in particolare in Sources of the Self, ma che si ritrovano anche negli scritti di Will Kymlicka, per il quale le culture non sono oggetto di scelta, ma «contesto di scelta» [context of choice], nel senso che forniscono agli individui le indispensabili coordinate linguistiche, cognitive, morali per muoversi e agire nel mondo quali soggetti liberi e consapevoli. In base a una simile concezione, la cultura non si sceglie, come non si sceglie la lingua materna; ciascuno di noi appartiene a una data cultura, nasce al suo interno e, se può certamente criticarne alcuni aspetti, non riuscirà mai nel tentativo velleitario di assumere un punto di vista totalmente esterno ad essa. Se il versante normativo delle teorie dei multiculturalisti ha un senso, tuttavia, bisognerà ammettere che le culture stanno (talvolta) anche “davanti” alle persone, potendo divenire oggetto di progettazione e costruzione consapevole, se non da parte di singoli individui, per lo meno da parte di classi dirigenti impegnate in processi di nation-building. L’esistenza di una componente di artificialità all’origine delle culture è stata ampiamente riconosciuta dagli storici, che hanno ricostruito i processi attraverso i quali le tradizioni sono state “inventate” e le comunità nazionali “immaginate” (nota 3). Di tutto ciò Taylor e Kymlicka sono ben consapevoli. Del resto, se le culture stessero davvero invariabilmente “alle spalle” degli individui, non avrebbe senso concepire politiche della sopravvivenza culturale. E vano sarebbe il tentativo di creare francofoni attraverso l’imposizione dell’uso della lingua francese.  Ma i paradossi legati all’ambiguo statuto delle comunità culturali, a metà strada tra eredità e progetto, non finiscono qui. Si pensi al ruolo svolto dalla lingua e dal linguaggio nella formazione dell’identità personale, cui Taylor ha dedicato innumerevoli scritti, ispirati in gran parte a una rilettura delle tesi di Herder e di Humboldt. «The rather different understandings of the good which we see in different cultures – sostiene Taylor – are the correlative of the different languages which have evolved in those cultures» (nota 4). Lungi dal rappresentare uno strumento neutro, adatto a comunicare i più diversi contenuti, ogni lingua esprimerebbe e trasmetterebbe una “forma di vita”: un patrimonio di significati, simboli, valori, venutosi a formare nell’ambito di una particolare comunità di interlocuzione. Di qui l’enfasi sull’importanza di difendere e promuovere le lingue delle minoranze, destinate a estinguersi o a imbastardirsi senza il sostegno di politiche mirate. Non diversamente, Kymlicka teorizza l’esistenza di un bisogno universalmente umano di appartenenza culturale, insistendo sul contributo della lingua, oltre che della memoria storica, nel dotare le persone degli strumenti necessari per orientarsi nel mondo. Eppure né Taylor né Kymlicka ritengono problematico pretendere dagli immigrati che apprendano la lingua del paese di accoglienza, rinunciando all’uso pubblico della propria. Le politiche di nation- building, denunciate come un sopruso se attuate da uno Stato nei confronti delle proprie minoranze nazionali (come i québécois in Canada o i baschi in Spagna), appaiono loro legittime e anzi necessarie se perseguite da quelle stesse minoranze nei confronti degli immigrati, pericolosi veicoli di pluralismo culturale (nota 5 - nota 6). La contraddittorietà delle tesi dei multiculturalisti è, su questo punto, palese. Se nessuno può spogliarsi del mondo di significati appresi attraverso la lingua materna, se non al prezzo intollerabile di una devastante crisi di identità, come si potrà pretendere da lui l’impossibile? Per quali ragioni, oltretutto, una simile pretesa risulterebbe legittima se rivolta agli immigrati, illegittima se indirizzata alle minoranze nazionali? Kymlicka giustifica questa duplicità di atteggiamento sostenendo che gli immigrati, a differenza dei membri di minoranze residenti da tempi immemorabili in un dato territorio, hanno scelto volontariamente di abbandonare, insieme alla propria terra, la cultura d’origine, rinunciando al diritto di rivendicare la propria specificità culturale. In questo modo egli ammette, implicitamente, che prendere le distanze dalla propria cultura è possibile. Se questo è vero, la sua teoria delle culture come indispensabile «contesti di scelta» vacilla, e fortemente ridimensionata risulta anche l’idea tayloriana che esista un bisogno universalmente umano al riconoscimento dell’identità “autentica” di ciascuno6.  L’esistenza stessa dei migranti, in effetti, confuta la tesi secondo cui la piena integrazione in una – e una sola – cultura costituisce il presupposto indispensabile di una vita dotata di senso. Come ha efficacemente sostenuto Alessandro Dal Lago, i migranti «non minacciano la nostra cultura perché visibilmente appartenenti a un’altra, ma perché esercitano la pretesa di vivere al di fuori della loro» (nota 7). Una pretesa che agli occhi di Taylor e di Kymlicka non può che apparire incomprensibile o esorbitante.     

In realtà sarebbe scorretto presentare le tesi di Taylor e di Kymlicka come se esaurissero i molteplici significati associabili alla nozione di multiculturalismo. Tornata alla ribalta a partire dalla pubblicazione del fortunato libretto di Taylor, prevalentemente dedicato alla questione québécois, la nozione di multiculturalismo veniva per lo più usata, in precedenza, con riferimento a società di immigrazione, come gli Stati Uniti. Proprio qui, alla fine degli anni Sessanta, tale espressione ha iniziato a diffondersi per indicare un modello di integrazione culturale alternativo a quello assimilazionista del melting pot (il crogiuolo in cui tutte le “razze” avrebbero dovuto fondersi). Da allora, l’espressione ha assunto significati tutt’altro che univoci, sia nel linguaggio scientifico sia in quello comune.   Nel tentativo di offrire un qualche contributo di chiarezza concettuale, propongo di intendere con l’espressione multiculturalismo una teoria, o una famiglia di teorie, che comporta l’adesione alle tre tesi seguenti:

a) il mondo è suddiviso in più gruppi culturali (giudizio di fatto);

b) la differenza culturale rappresenta un bene che va tutelato e promosso (giudizio di valore);

c) a questo fine non bastano i classici istituti escogitati dalla teoria liberal-democratica, ma servono provvedimenti politici e giuridici ad hoc (teoria politica prescrittiva).

Perché si possa parlare di multiculturalismo in senso pieno, è necessario che vengano sottoscritte tutte e tre le tesi (come nel caso di Taylor, Kymlicka e degli altri teorici dei diritti culturali). Esse, tuttavia, non risultano logicamente interdipendenti. È possibile ad esempio ritenere che esista al mondo una pluralità di culture, ciascuna delle quali presenta aspetti degni di essere esplorati e apprezzati (tesi a e b), senza pretendere che tali differenze vadano preservate indefinitamente nella loro “purezza” attraverso appositi provvedimenti legislativi (tesi c) (nota 8). Ma è anche possibile limitarsi ad accogliere la tesi a), sostenendo che non tutte le culture esistenti sono dotate di valore e vanno di conseguenza difese: è la posizione di un differenzialismo di matrice razzista o colonialista, che oggi rivive in alcune  teorie della supremazia occidentale sviluppate nell’ambito del neoconservatorismo statunitense (nota 9).    Per non cadere in eccessive semplificazioni, bisogna inoltre tenere presente che di ciascuna delle tesi sopra ricordate sono possibili versioni più o meno radicali. Una cosa è sostenere che l’umanità è suddivisa (da sempre?) in un numero definito di culture, intese come costellazioni chiuse e coerenti di significati, pratiche, valori, ciascuna delle quali corrispondente a un determinato “popolo” e/o territorio (nota 10). Altro è constatare che al mondo si danno una molteplicità di pratiche, costumi, codici simbolici in continua evoluzione, esposti a reciproche contaminazioni e ibridazioni, non invariabilmente associati a singoli gruppi umani. Della tesi a), in altre parole, è possibile fornire una versione essenzialista, che reifica le comunità culturali, rappresentandole come tendenzialmente stabili e omogenee, oppure una versione “fluida”, che parte dalla constatazione del carattere costitutivamente ibrido, meticcio, composito di tutte le culture (nota 11). Questo secondo approccio presta più attenzione alle differenze individuali che a quelle di gruppo, riconoscendo che gli stessi elementi simbolici possono essere diversamente assemblati e interpretati da coloro che, dall’esterno, vengono percepiti come membri della medesima cultura. La concezione “fluida” di cultura è oggi condivisa da molti antropologi (nota 12).    Passando ora alla dimensione assiologica, le diverse identità culturali, comunque esse vengano intese, possono essere approvate in modo incondizionato o con qualche distinguo. Si può ritenere che le culture rappresentino invariabilmente un valore e tutte vadano preservate (in ogni loro aspetto?), in nome della difesa di un elevato grado di “etnodiversità”. Oppure è possibile distinguere e sostenere, ad esempio, il valore umano delle culture che forniscono agli individui le risorse per esprimere la propria personalità, mantenendo al contempo un giudizio negativo su credenze e tradizioni che attentano alla libertà e alla dignità umana. In una simile prospettiva la «difesa delle culture» va di pari passo, e richiede quale sue indispensabile presupposto, la «difesa dalle culture» che, pretendendo di imporre autoritativamente ai propri membri credenze e codici di comportamento, negano loro in effetti proprio il diritto all’autodeterminazione, anche culturale (nota 13).   Anche la tesi c), che sostiene la necessità di provvedimenti speciali per garantire la sopravvivenza delle culture, si presta a una varietà di interpretazioni. Con la dizione “politiche del multiculturalismo” viene comunemente designata una gamma eterogenea di misure politiche e/o giuridiche, alcune delle quali sono giustificabili su un piano prettamente pragmatico e non pongono particolari problemi di principio, mentre altre chiamano in causa i fondamenti e le regole dello Stato democratico di diritto. Si va dal finanziamento statale di associazioni culturali alla previsione del plurilinguismo nelle scuole e negli uffici pubblici, alla deroga a regolamenti ritenuti in contrasto con pratiche tradizionali (riguardanti l’abbigliamento, i giorni festivi, il menù delle mense, i scolastici), fino alla previsione di giurisdizioni speciali per i membri di una data  minoranza, (nota 14)  di quote di seggi riservati nelle assemblee rappresentative, di diritti all’autogoverno, all’autodeterminazione (al limite alla secessione) o di altri diritti collettivi ascritti a particolari gruppi etnici o nazionali. Come dovrebbe essere chiaro, non si tratta di un insieme coerente, del quale si possa dire “prendere o lasciare”. Si potrà ad esempio concordare sull’opportunità e la ragionevolezza di talune deroghe a regolamenti o tradizioni che nulla hanno a che vedere con i principi dello stato di diritto, e sono esse stesse retaggio di vicende storiche particolari (le festività, l’abbigliamento, il menù delle mense), ma al tempo stesso opporsi alla previsione di forme di giurisdizione speciale che violano il principio di eguaglianza. Non solo. I medesimi provvedimenti potranno essere difesi su un piano laico e pragmatico, ad esempio come misure utili a sanare la marginalizzazione sociale degli immigrati, oppure essere rivendicati come veri e propri “diritti culturali”, che integrano e completano il classico catalogo dei diritti umani individuali (nota 15).  Inutile aggiungere che dall’adesione a una versione più o meno estrema della tesi a) e più o meno assoluta della tesi b) dipende in gran parte la posizione che si assumerà in merito alla questione della necessità, o meno, di provvedimenti speciali in difesa delle culture.     

Il multiculturalismo rappresenta una sfida per gli ordinamenti liberal-democratici quando sottende l’adesione a una versione radicale della tesi c), che prescrive politiche della “sopravvivenza culturale” contrarie ai principi e alle regole dello stato democratico di diritto. Non voglio con ciò sostenere che il multiculturalismo non possa prestare il fianco a critiche, anche severe, finché rimane una mera “concezione del mondo” (tesi a e b). Una interpretazione rigidamente essenzialista del “fatto” del pluralismo culturale, oltre ad essere di per sé rozza e implausibile, rappresenta il fertile terreno di coltura di ogni tipo di stereotipi e pregiudizi: gli italiani sono mafiosi, gli arabi bugiardi, gli africani indolenti… Riducendo  gli individui a esemplari rappresentativi della loro presunta cultura originaria, si offre una visione semplificata e deformata del mondo, incapace di cogliere la complessità dei processi di costruzione identitari nelle condizioni di sempre maggiore mobilità create dalla globalizzazione. Finché ci si limita a predicare che “diverso è bello”, tuttavia, ci si colloca sul terreno della legittima competizione tra ideologie e concezioni del mondo, un terreno che non dovrebbe intimorire i democratici. In assenza di una parola altrettanto adatta, direi che le concezioni essenzialiste e fissiste di “cultura” (in senso etnico o nazionale) rappresentano una sfida sul piano “culturale” (nell’accezione più ampia del termine): una sfida che potrà e dovrà essere raccolta innanzitutto dal mondo dell’istruzione e dalla società civile impegnata nella lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale ai danni degli immigrati. Diverso è ciò che accade quando movimenti politici, associazioni o “comunità” dall’incerto statuto giuridico, di cui spesso è difficile capire chi sono i legittimi portavoce, avanzano pretese nei confronti dello Stato, chiedendo finanziamenti, esenzioni, leggi o diritti speciali in loro favore. Anche in questo caso, però, è bene distinguere. Non ogni e qualsiasi richiesta di trattamento speciale da parte di un gruppo che rivendica la propria diversità è di per sé lesiva dei diritti fondamentali o delle regole della convivenza democratica. Sarebbe assurdo, ad esempio, sfoderare il volto intransigente dei liberali offesi di fronte a richieste di deroghe a regolamenti riguardanti i giorni festivi, l’abbigliamento o il menù delle mense. Simili richieste ci ricordano in fondo che anche le nostre società sono storicamente situate e che le nostre istituzioni e modi di vita non sempre sono coerenti con i principi della laicità e della tolleranza proclamati a chiare lettere nelle Carte costituzionali (nota 16). Per altri versi, alcuni di quelli che vengono correntemente presentati come “diritti culturali” possono  essere intesi come semplici specificazioni di diritti umani fondamentali, riconosciuti da tutte le Costituzioni di ispirazione liberal-democratica e da un gran numero di documenti internazionali. Molto si è discusso, in Francia e altrove, sul diritto delle studentesse di indossare il velo islamico. Pochi hanno osservato che, sul piano giuridico, si tratta della pura e semplice specificazione di un classico diritto di libertà (il diritto ad abbigliarsi come si crede, poggiante a sua volta sul principio dell’autonomia della persona). Tutt’altro sarebbe attribuire a una comunità il diritto a costringere i propri membri di sesso femminile a indossare il velo (nota 17). E che dire di quanto previsto dall’art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che attribuisce ai membri di «ethnic, religious or linguistic minorities […] the right in community with the other members of their group, to enjoy their own culture, to profess and practise their own religion, or to use their own language»? Anche i diritti “culturali” che compaiono in questa norma possono essere interpretati come specificazioni di diritti “classici”: libertà di espressione, di religione, di riunione, di associazione (diritti individuali, questi ultimi, anche se esercitati collettivamente)18. Lo stesso, continuamente evocato, diritto all’uso della lingua d’origine non appare in contrasto col paradigma dei diritti fondamentali, e potrebbe forse essere interpretato come uno sviluppo del diritto alla libertà di espressione. Ma – di nuovo – diverso è il caso della previsione legislativa del diritto di un certo gruppo di imporre ai propri membri l’uso esclusivo della lingua d’origine (le leggi canadesi difese da Taylor e da Kymlicka) o l’osservanza dei precetti di una certa religione.    Come si evince da simili esempi, i problemi nascono essenzialmente nel momento in cui la titolarità dei diritti, che la tradizione risalente alle rivoluzioni americana e francese ha attribuito agli individui in quanto tali, superando le antiche distinzioni di ceto e di censo, viene attribuita a enti collettivi come nazioni, comunità, gruppi etnico-culturali.  È allora che i diritti “culturali” entrano in un conflitto non mediabile con i diritti fondamentali della persona, tra cui va annoverato il diritto ad abbandonare e “tradire” la cultura d’origine, o comunque a modificarla e reinterpretarla secondo il proprio giudizio. Sul piano teorico, l’alternativa è nitida: attribuire diritti al gruppo significa sottrarli agli individui. Tertium non datur. Ciò che il gruppo richiede sono infatti proprio strumenti per impedire ai propri membri di fare pieno uso della propria autodeterminazione. Superfluo insistere sul carattere statico e profondamente conservatore dell’idea di cultura soggiacente a simili richieste: lo stesso ricorso al lessico della “sopravvivenza” è indicativo di una tendenza a drammatizzare qualsiasi cambiamento, interpretando ogni tentativo di innovazione culturale come una questione “di vita o di morte” (nota 19). Paternalistici suonano, in questi casi, i tentativi di giustificare la sottrazione di diritti agli individui in nome della loro stessa libertà, asserendo che questa richiederebbe, per essere effettiva, la difesa di un particolare contesto culturale.  Ci sono tuttavia anche casi in cui pretese di regolamentazione di pratiche culturali appaiono in contrasto con i diritti fondamentali non perché formulate nel linguaggio dei diritti collettivi, ma in virtù del loro stesso contenuto. Si pensi all’infibulazione, all’escissione e alle altre forme di mutilazioni genitali femminili largamente diffuse nel continente africano. Nel caso simili pratiche siano rivendicate da donne adulte nel pieno possesso delle loro facoltà mentali, dovranno essere considerate espressione della loro libertà di disporre autonomamente del proprio corpo? O non si dovrà piuttosto invocare l’indisponibilità del diritto alla salute, in quanto tale inviolabile da parte dei suoi stessi titolari? (nota 20). Posto in questi termini, il problema è più teorico che reale. Nella stragrande maggioranza dei casi l’infibulazione e l’escissione vengono praticate su bambine, per decisione dei genitori o di altri adulti cui sono affidate. Di nuovo, ci troviamo di fronte a comunità che decidono per l’individuo, per di più minorenne. Posto che i danni fisici e psichici legati alle varie forme di mutilazione genitale sono stati ampiamente documentati, il diritto-dovere dello Stato di intervenire in difesa della salute e dell’integrità fisica di bambine e ragazze può essere affermato senza esitazioni. Aperta rimane naturalmente la questione di quali siano i modi più efficaci per contrastare pratiche tradizionali fortemente radicate e rivestite di un significato simbolico inaccessibile a chi le valuti dall’esterno. A questo proposito appaiono ragionevoli le considerazioni di chi ha messo in rilievo l’inadeguatezza di una risposta puramente penale al problema, che rischia di suscitare pericolosi fenomeni di rafforzamento e rivendicazione reattiva delle usanze criminalizzate (nota 21).  

Anche nel caso in cui l’esercizio dei diritti “culturali” sia attribuito agli individui, considerati come membri di particolari minoranze etnico-culturali, rimane il problema di determinare con precisione chi fa parte di un dato gruppo. Spesso le politiche del multiculturalismo vengono assimilate ai provvedimenti di azione affermativa adottati in favore delle donne (quote di seggi riservati nelle assemblee politiche, diritto di precedenza in graduatorie per l’accesso all’università, ecc.). Al di là delle possibili critiche che possono essere mosse a simili provvedimenti, il paragone non regge, se non altro perché nel caso delle donne non è controverso stabilire chi è destinatario dei trattamenti speciali, mentre lo stesso non si può affermare a proposito dei gruppi culturali. Che si rivendichi il diritto a una rappresentanza speciale, a politiche di azione affermativa o ad altri trattamenti differenziati sulla base dell’identità etnico-culturale, ecco puntualmente ripresentarsi i paradossi del multiculturalismo. Come stabilire chi fa parte di un dato gruppo e ha dunque titolo a trattamenti particolari? Alle culture si “appartiene” per nascita o esse sono, in qualche misura, oggetto di scelta?  Nel passaggio dalla teoria alla pratica, il maggior problema che i multiculturalisti si trovano ad affrontare è quello della classificazione dei “meticci”. Il fenomeno dei matrimoni misti rappresenta di per sé una patente falsificazione della concezione del mondo del «multiculturalismo a mosaico», che concepisce le culture come tessere omogenee e compatte, giustapposte l’una all’altra. Ma rappresenta soprattutto un gigantesco problema sul piano pratico, ove si insista nel mantenere tale concezione. Dove collocare i figli delle unioni miste?  I criteri concretamente adottabili per tracciare i confini tra i vari gruppi possono essere di tipo oggettivo o soggettivo. Negli Stati Uniti, i governi delle tribù indigene hanno per lo più applicato criteri del primo tipo, stabilendo che possono essere considerati membri delle varie tribù coloro nelle cui vene scorre una certa percentuale di “sangue indiano” (nota 22). Sempre negli Stati Uniti è peraltro divenuta corrente la pratica dei censimenti della popolazione effettuati attraverso questionari che lasciano libere le persone di autoclassificarsi come membri di uno dei cinque «ethno-racial blocs» ufficialmente esistenti (euro-americano, asiatico-americano, afro-americano, ispanico e indigeno). Il criterio prescelto, in questo caso, è di tipo soggettivo. L’adozione di tale regola ha determinato una situazione paradossale di estrema plasticità della mappa delle etnie emergente dai vari censimenti. Tra il 1960 e il 1990, ad esempio, il numero di cittadini statunitensi che si sono dichiarati membri del gruppo indigeno è cresciuto del 259 per cento, probabilmente a causa dei provvedimenti adottati nel corso degli anni in favore di tale minoranza (nota 23). Di nuovo si ripresenta l’interrogativo: indigeni si nasce o si diventa? Come risolvere i casi in cui alla presenza del requisito “oggettivo” del sangue non corrisponde il senso di appartenenza soggettivo al gruppo o, viceversa, tale sentimento esiste anche in mancanza del requisito “oggettivo”? L’evidente difficoltà che il modello di classificazione della popolazione statunitense sulla base delle cinque categorie etno-culturali incontra nel far fronte al crescente fenomeno delle «mixed race peoples» dovrebbe far riflettere sul carattere storicamente contingente e mutevole delle classificazioni etniche e culturali. È quanto hanno fatto notare gli esponenti della Critical Racial Theory, analizzando i modi usuali di classificare le razze negli Stati Uniti, impliciti nel linguaggio comune ma anche nei discorsi dei giudici della Corte Suprema. Due sono, ad esempio, le regole in base alle quali vengono distinti i neri dai bianchi, nella percezione sociale corrente. «In virtù della regola di riconoscimento, ogni persona la cui origine ancestrale nero-africana sia visibile, è per ciò stesso black. In virtù della regola della discendenza, ogni persona della quale sia conosciuta una traccia di origine africana è per ciò stesso black, a prescindere dal suo aspetto; in altri termini, la discendenza di una coppia bianca e nera è nera» (nota 24). In base a questo secondo criterio, noto anche come regola della «ipodiscendenza», basta un’«unica goccia di sangue» nero per essere classificati come black. Si tratta evidentemente di un criterio che non rispecchia un presunto dato genetico oggettivo, ma si fonda sull’implicita considerazione della “razza bianca” come modello di purezza, che il contatto con un’unica goccia di sangue nero è sufficiente a contaminare (nota 25).  Si dirà che le teorie del multiculturalismo non si fondano su classificazioni di tipo razziale, avendo piuttosto a che fare con questioni simboliche e identitarie. Resta il fatto che quando si tratta di tradurre le teorie del multiculturalismo in provvedimenti giuridici e amministrativi, diventa necessario individuare criteri per stabilire chi ha titolo per accedere a particolari trattamenti o per esercitare particolari diritti. Alla ricerca di criteri il più possibile “oggettivi” per stabilire chi fa parte di una determinata cultura, si ricade inevitabilmente in forme di etnicismo o “razzismo” (nel senso descrittivo di “teoria delle razze”) inaccettabili per la coscienza del nostro tempo, prive come sono di qualsiasi base scientifica. Ma anche quando le decisioni relative all’identità etnico-culturale sono lasciate ai diretti interessati, le esigenze burocratico-amministrative di incasellare ciascun individuo in un categoria predefinita hanno come effetto l’enfatizzazione e l’irrigidimento di differenze di per sé fluide e in continua evoluzione, come l’estrema variabilità delle risposte ai questionari etnici negli Stati Uniti documenta. Si ritorna così ai problemi da cui eravamo partiti: quanto sono naturali, quanto sono socialmente e storicamente plasmabili le differenze etnico-culturali? È sensato rivolgersi a uno strumento rigido come il diritto per conservare e riprodurre identità altrimenti destinate a modificarsi, a evolversi, a rinnovarsi? Nel tentativo di rianimare o reinventare ad ogni costo culture e tradizioni che da sole non riuscirebbero a sopravvivere, non si rischia di bloccare sul nascere la formazione di nuove culture, forse più rispondenti ai bisogni delle persone?     



1 - C. Taylor, Multiculturalism and “the Politics of Recognition”, Princeton University Press, Princeton 1992, p. 58. La legislazione sulla lingua cui allude Taylor prevede l’obbligo per i francofoni e gli immigrati di iscrivere i figli a scuole pubbliche francesi, di esporre insegne commerciali esclusivamente in francese e di usare il francese nelle imprese con più di cinquanta dipendenti.  

2 - Ivi, p. 59.

3 - Mi riferisco ai notissimi studi di E. Hobsbawn, T. Ranger, (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983; E. Hobsbawm, Nation an Nationalism since 1780. Programme, Myth, Reality, Cambridge University Press, Cambridge 1990; E. Gellner, Nations and Nationalism, Blackwell, Oxford 1983, B. Anderson, Imagined Communities, Verso, London-New York 1991.

4 - C. Taylor, Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 91. Ma cfr. anche i saggi raccolti in C. Taylor, Human Agency and Language. Philosophical Papers 1, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1985. Ho sostenuto altrove che Taylor e Kymlicka tendono a confondere e a usare in modo interscambiabile le nozioni di lingua e di linguaggio. Cfr. V. Pazé, Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 82.

5 - Discute questo punto anche E. Vitale in Liberalismo e multiculturalismo. Una sfida per il pensiero democratico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 155-56. La distinzione tra minoranze nazionali [national minorities], concentrate in un territorio cui sono storicamente legate, e gruppi etnici [ethnic groups] formatisi per l’effetto di migrazioni, si trova in W. Kymlicka, Multicultural Citizenship. A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford University Press, Oxford 1995. 

6 - A scanso di equivoci, si tenga presenta che entrambi gli autori ritengono imprescindibile il riferimento non a un qualche contesto culturale, ma alla particolare cultura entro cui si è nati.

7 - A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra le culture?, in Multiculturalismo. Ideologie e sfide, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2006, p. 78.

8  - È la posizione desumibile da K. A. Appiah, Cosmopolitanism. Ethics in a World of Strangers, WW. Norton & Company, New York-London 2006. Non dissimile la tesi di Luigi Ferrajoli, secondo cui la difesa delle culture non richiede il ripensamento del paradigma della democrazia costituzionale, bastando a questo fine i classici diritti di libertà, intesi come diritti alla differenza. Cfr. Quali sono i diritti fondamentali? (in Diritti umani e diritti delle minoranze, a cura di E. Vitale, Rosenberg & Sellier 2000), e Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 2007, vol. II, pp 57-61).

9  - Sulla versione razzista del differenzialismo, cfr. P.A. Tagueff, La force du préjugé, Editiond La Découverte, Paris 1987.

10  - È quello che S. Benhabib ha chiamato multiculturalismo «forte», o «a mosaico», criticandolo per la sua implausibilità sul piano epistemologico. Cfr. S. Benhabib, The Claims of Cultures. Equality and Diversity in the Global Era, Princeton University Oress, Princeton 2002.

11  - Mutuo l’espressione “culture fluide” da A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra le culture? cit., pp. 72-79. 

12  - Cfr. per lo meno J. Bayart, L’illusion identitaire, Fayard, Paris 1996; F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma- Bari 2006; J. L. Amselle, Branchements. Antropologie de l’universalité des cultures, Flammarion, Paris 2001; M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004; R. Galissot e A.M. Rivera, L’imbroglio etnico. In quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001. 

13  - Cfr. L. Ferrajoli, Principia juris cit., vol. II, p. 316.

14 - Negli Stati Uniti, ad esempio, alcune tribù indigene hanno ottenuto il diritto di amministrare la giustizia attraverso consigli tribali, contro le cui decisioni non può essere presentato ricorso alla Corte Suprema (Cfr. W. Kymlicka, Multicultural Citizenship cit., pp. 38-39). In altri casi ai membri di determinati gruppi culturali vengono applicate leggi speciali: in India fino al 1986 i musulmani erano soggetti al diritto di famiglia islamico, che prevedeva regole relative al divorzio penalizzanti nei confronti delle donne, in contrasto con quanto stabilito dal codice di procedura penale  (S. Benhabib, The Claims of Cultures cit., cap. 3). 

15 - Quest’ultima è la posizione difesa da Kymlicka, che si serve dell’espressione minority rights per designare una particolare categoria di diritti alla sopravvivenza culturale, da non confondere con gli human rights. Cfr. W. Kymlicka, Politics in the Vernacular. Nationalism, Multiculturalism, and Citizenship, Oxford University Press, Oxford 2001, cap. 4. Una difesa “pragmatica” di alcune dei provvedimenti rivendicati dai multiculturalisti si trova invece in A.E. Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Liguori, Napoli 1999). 16  - F. Baroncelli, Le quattro indegnità dei liberali irresoluti, «Teoria politica» 3, 2001, pp. 23-47.

17 -  L. Ferrajoli, Principia juris, cit., vol. II, p. 318. Sulla questione del velo islamico cfr. anche A.M. Rivera, L’interdetto del “velo”: antropologia di una contesa pubblica, «Parolechiave» n. 33, giugno 2005 e I. Dominjanni, Corpo e laicità: il caso della legge sul velo, in Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2005.

18 -  Cfr. in proposito P. Comanducci, Quali minoranze? Quali diritti? Prospettive di analisi e classificazione, in Diritti umani e diritti delle minoranze, a cura di E. Vitale, Rosenberg & Sellier Torino 2000, p. 54, secondo cui buona parte dei  “diritti culturali negativi”, consistenti in richieste di non interferenza nella sfera culturale, coincide con classici diritti liberali.  

19  - Cfr. l’intervento di Y. Tamir compreso nel volume di S. Moller Okin, Is Multiculturalism Bad for Women?, Princeton University Press, Princeton 1999.

20  - Sull’indisponibilità dei diritti fondamentali, intesa come limite «non solo ai pubblici poteri ma anche all’autonomia dei loro titolari», cfr. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 16.

21  - Cfr. in particolare A. Facchi, I diritti nell’Europa multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2001, cap. 5.

22 - Cfr. D. Hollinger, Postethnic America. Beyond Multiculturalism, Basic Books, New York 1995, pp. 45-46, da cui risulta che i criteri adottati dalle varie tribù sono molto diversi, essendo talvolta ritenuta sufficiente una percentuale di  1/256 di sangue indigeno, in altri quella del 50%.

23  - Ivi, p. 46.

24  - Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, a cura di K. Thomas e G. Zanetti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 29.

25  - Ivi, p. 31.

Diritti e culture: una relazione controversa - Articolo di Valentina Pazè


Diritti e culture: una relazione controversa


Articolo di Valentina Pazé



1. I diritti culturali nei documenti internazionali

Nell’affrontare il tema, spinoso, del rapporto tra diritti e culture, un buon punto di partenza può essere la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, detta anche Carta di Algeri (nota 1). Redatta nel 1976 da alcuni intellettuali, tra cui Lelio Basso, che diedero in seguito vita al Tribunale permanente dei popoli, la Carta di Algeri è a tutti gli effetti un manifesto politico, che esprime bene le ragioni all’origine dell’emergere delle rivendicazioni di diritti culturali. Essa si apre attribuendo a ogni popolo il diritto “all’esistenza” (art. 1) e “al rispetto della propria identità nazionale e culturale” (art. 2).

Contempla poi una sezione IV specificamente dedicata al Diritto alla cultura, che si compone di tre articoli

art. 13 : Ogni popolo ha il diritto di parlare la propria lingua, di preservare e sviluppare la propria cultura, contribuendo così all’arricchimento della cultura dell’umanità; 

art. 14: Ogni popolo ha diritto alle proprie ricchezze artistiche, storiche e culturali; 

art. 15: Ogni popolo ha diritto che non gli sia imposta una cultura ad esso estranea1.

Il diritto alla cultura si presenta qui come un diritto composito: per un verso un diritto-immunità (l’aspettativa meramente negativa di non subire il saccheggio del proprio patrimonio artistico e culturale e l’imposizione della cultura altrui), per altro verso un diritto-facoltà, consistente nella possibilità di parlare la propria lingua e sviluppare la propria cultura.  

La Dichiarazione universale dei diritti dei popoli prevede poi una sezione VI dedicata ai Diritti delle minoranze. In base all’art. 19, “Quando un popolo rappresenta una minoranza nell’ambito di uno Stato, ha il diritto al rispetto della propria identità, delle tradizioni, della lingua, del patrimonio culturale”. I membri della minoranza “devono godere senza discriminazioni degli stessi diritti che spettano agli altri cittadini e devono partecipare in condizioni di eguaglianza alla vita pubblica” (art. 20). 

La Carta di Algeri – come si è detto – è a tutti gli effetti un manifesto politico, scritto per attirare l’attenzione sulle ferite ancora aperte del colonialismo e dell’imperialismo. Per comprendere appieno il significato della rivendicazione del diritto dei popoli alla cultura bisogna tenere conto del contesto storico in cui questo testo è stato redatto (“tempi di frustrazioni e di sconfitte, in cui nuove forme di imperialismo si manifestano per opprimere e sfruttare i popoli” – recita il Preambolo) e farne una lettura sistematica, collocando il diritto alla cultura accanto ai diritti all’autodeterminazione politica ed economica (nota 2):  .

La Carta di Algeri non è comunque la prima carta dei diritti in cui compaia il riferimento alla cultura. Già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 22, menzionava i “diritti culturali”, insieme a quelli economici e sociali, tra i diritti indispensabili per promuovere la dignità umana” e “il libero sviluppo della personalità” di ogni individuo (nota 3). E, all’art. 27, prima comma, affermava che “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità”. Vi sono poi i Patti internazionali del ’66 (nel secondo dei quali l’espressione “diritti culturali” compare fin dal titolo), che dichiarano, all’art. 1 comune, che “Tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di questo diritto essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”. In questi documenti non è sempre chiaro quando la cultura è intesa come un patrimonio di conoscenze, idee, opere artistiche e letterarie cui contribuisce l’umanità intera, e quando ricorre invece l’accezione antropologica di cultura, che include anche la lingua, le credenze, i costumi, i modi di vita. In questa seconda accezione, la cultura si declina al plurale: ogni popolo avrebbe una specifica cultura e il diritto di conservarla e svilupparla.   

Di certo all’accezione antropologica di cultura si rifanno tutta una serie di documenti dell’UNESCO, come la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, del 2001, la Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale immateriale, del 2003, la Convenzione per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, del 2005. Nel primo di questi documenti la cultura è definita, nel Preambolo, come “l’insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettuali e affettivi che caratterizzano una società o un gruppo sociale. Essa include, oltre alle arti e alle lettere, modi di vita e di convivenza, sistemi di valori, tradizioni e credenze”. È con riferimento a questa accezione di cultura che lo stesso documento afferma, all’art. 1, che la “diversità culturale” è necessaria allo sviluppo dell’uomo tanto quanto la biodiversità. Un’affermazione discutibile, se presa alla lettera, su cui tornerò tra breve.   

Vorrei citare ancora per lo meno due documenti particolarmente significativi per il mio discorso. Il primo è la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite, del 2007, che attribuisce tutta una serie di diritti ai popoli indigeni, tra i quali il diritto all’autodeterminazione e allo sviluppo “economico, sociale, culturale” (art. 3), il diritto di “praticare e rivitalizzare i propri costumi e tradizioni culturali” (art. 11), il “diritto alle terre, territori e risorse che hanno tradizionalmente posseduto e occupato o altrimenti utilizzato o acquisito” (art. 26), il diritto “di determinare la propria identità o appartenenza in accordo con i propri costumi e tradizioni” (art. 33), senza che ciò pregiudichi il diritto degli individui indigeni di “ottenere la cittadinanza degli Stati nei quali essi vivono”. I popoli e gli individui indigeni hanno invece, tra l’altro, il diritto a “non essere fatti oggetto di assimilazione forzata e della distruzione della loro cultura (art. 8) (nota 4).   

Da ultimo, la Dichiarazione di Friburgo, risalente anch’essa al 2007, e redatta per conto dell’UNESCO da un gruppo di studiosi incaricati di raccogliere e sistematizzare i diritti culturali già contemplati dai documenti giuridici precedenti, stabilisce, all’art. 3, che ogni persona, “da sola o in comune con gli altri”, ha diritto “di scegliere e di vedere rispettata la propria identità culturale nella diversità dei suoi modi di espressione”. “Ogni persona ha – inoltre – la libertà di scegliere di identificarsi o no in una o più comunità culturali, senza considerazione di frontiere, e di modificare questa sua scelta” e “nessuno può vedersi imporre ed essere identificato o assimilato suo malgrado ad una comunità culturale” (art. 4).          

2.  Una relazione problematica    

Complessivamente, questi documenti possono essere considerati come una tappa significativa di quel processo di moltiplicazione e specificazione dei diritti che ha avuto luogo nel periodo successivo all’approvazione della Dichiarazione universale del 1948 (nota 5). Un processo ispirato dall’accresciuta sensibilità della comunità internazionale per la condizione di debolezza in cui versano specifiche categorie di soggetti: le donne, i bambini, i disabili, ma anche coloro che, per il semplice fatto di essere nati e cresciuti “nel luogo sbagliato”, sono vittime di gravi violazioni dei diritti umani. Popoli e individui che non sono solo stati assoggettati al dominio straniero e spogliati delle loro risorse economiche, ma umiliati e stigmatizzati per la loro cultura, letta in chiave di arretratezza e di inferiorità. 

 Come non schierarsi dalla loro parte? Come non condividere la causa dei popoli indigeni, ieri vittime del genocidio perpetrato dai colonizzatori occidentali, oggi a rischio di essere definitivamente privati delle risorse materiali ed ambientali necessarie alla loro sopravvivenza a causa della rapacità delle multinazionali? Se vogliamo formarci un’opinione più equilibrata sul tema, tuttavia, dobbiamo tenere presente che oggi a rivendicare i diritti culturali sono anche “popoli” le cui vicende non possono essere assimilate a quelle degli indigeni, né a quelle dei popoli colonizzati. Si pensi ai baschi, ai catalani, agli scozzesi, ai francofoni del Quebec. O, ancora più vicino a noi, ai veneti. Da alcuni anni esiste in Veneto un assessorato alle Politiche per la cultura e l’identità veneta, che ha tra l’altro promosso la pubblicazione di un manuale per le scuole intitolato Noi Veneti. Viaggi nella storia e nella cultura veneta. In questo testo l’identità veneta è definita in termini di “appartenenza a una storia, una lingua, una cultura, un territorio”, oltre che di “alcune caratteristiche morali comuni” (nota 6). Possiamo sorridere di fronte a simili asserzioni e pensare che la cultura veneta, o quella padana, non esistono, o non esistono nello stesso senso in cui esistono le culture indigene, e in ogni caso non sono bisognose di protezione allo stesso modo (nota 7). Ma ragionare in termini di esistenza o inesistenza di una cultura, di autenticità o contraffazione, apre tutta una serie di problemi, estremamente difficili da affrontare. Storici come Hobsbawm, Gellner, Anderson, ci hanno insegnato che le tradizioni “si inventano”, le comunità “si immaginano”, le identità culturali si costruiscono, e nulla è più lontano dalla realtà del mito romantico secondo cui a ogni “popolo” corrisponderebbe una, e una sola, “cultura” (nota 8). Gli stessi antropologi ci mettono oggi in guardia contro la sopravalutazione del ruolo della cultura nell’interpretazione dei processi sociali e contro le “ossessioni” e le “illusioni” identitarie (nota9). E tuttavia, nella logica universalistica dei diritti umani, se il “diritto alla cultura” vale per il popolo Inuit o Maori, forse dovrebbe valere per qualsiasi altro collettivo che si autorappresenti come un “popolo”…

Già, ma che cos’è un “popolo”? È  questo solo uno dei problemi che si pongono a chi provi ad approfondire la relazione tra diritti e culture. Una relazione che è, in effetti, molto più controversa di quanto non possa apparire a prima vista.  Fermiamoci allora a riflettere su questa relazione, e chiediamoci se la via maestra da percorrere per risarcire le vittime del colonialismo e del razzismo passi per forza attraverso il riconoscimento a tutti i “popoli” di diritti culturali.           

3. L’individuo come soggetto di diritti

Come abbiamo visto, i diritti culturali che sono stati teorizzati e positivizzati nelle carte  internazionali sono talvolta attribuiti agli individui, in quanto membri di determinati gruppi, ma molto più spesso a soggetti collettivi, come i “popoli” o le “minoranze”.  Il problema è che la logica dei diritti fondamentali, che si afferma nella modernità, è individualistica, ed è incompatibile con l’attribuzione di diritti a soggetti collettivi. Individualismo non significa  naturalmente atomismo, solipsismo, egoismo, come talvolta si sostiene, non senza qualche ragione se si pensa all’epoca storica in cui i diritti si sono originariamente affermati (nota 10). Tra i diritti oggi contemplati dalle costituzioni e dalle dichiarazioni internazionali ci sono le libertà di riunione e di associazione, che sono diritti individuali, ma si esercitano collettivamente. Anche la libertà di espressione o i diritti politici, pur spettando all’individuo, lo mettono in relazione con gli altri membri della società. Allora perché insisto sul fatto che la logica dei diritti è individualistica? Perché i diritti nascono, nella modernità, per difendere gli individui contro lo Stato, ma anche contro altri soggetti collettivi, come la famiglia o la comunità religiosa, che possono interferire ingiustificatamente con la loro libertà.  

Tra coloro che per primi hanno teorizzato l’esigenza di garantire i diritti dei bambini, anche contro il volere dei genitori, c’è Hegel, pensatore spesso ingiustamente dimenticato nelle ricostruzioni storiche sull’origine dei diritti. Nelle Lezioni da lui tenute nel 1824-25, egli sostiene a chiare lettere che “la società civile ha il diritto e il dovere di obbligare i genitori a inviare i figli a scuola”; “i bambini hanno il diritto di essere educati […] e se i genitori trascurano questo diritto, deve intervenire la società civile” (nota 11). In modo analogo, le pubbliche istituzioni – questo è il significato che l’espressione “società civile” assume in questo contesto – devono provvedere alla vaccinazione dei bambini contro il vaiolo, anche contro il volere dei genitori, che possono non essere consapevoli della sua importanza. Quello che vale per la famiglia, vale per comunità più ampie in cui l’individuo si trova ad essere inserito fin dalla nascita, come il villaggio, la chiesa, la comunità etnico-culturale. E ciò che vale per i bambini vale anche per altri soggetti, cui per lungo tempo è stato negato lo status di persone autonome e razionali, come le donne. In quest’ottica, è problematico quanto afferma l’art. 35 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni: “I popoli indigeni hanno il diritto di determinare le responsabilità degli individui verso le loro comunità”. Nella sua genericità, questo articolo rischia di legittimare ingiustificate limitazioni della libertà individuale da parte della comunità, (o, meglio, da parte dei suoi capi). Problematico è anche il riconoscimento ai popoli indigeni del diritto di scegliere i propri rappresentanti “in conformità alle proprie pratiche” e di “mantenere e sviluppare le proprie istituzioni decisionali indigene” (art. 18). In alcuni casi questo principio si è tradotto nel riconoscimento di modalità decisionali poco democratiche, che non garantiscono la segretezza e la personalità del voto (nota 12). Più in generale, i numerosi articoli della Dichiarazione che ascrivono ai popoli indigeni il diritto di conservare, tramandare e rivitalizzare costumi e tradizioni avite non tengono conto del fatto che non tutte le tradizioni sono meritevoli di essere difese. Che dire di usi e costumi che contraddicono il principio di eguaglianza tra “individui indigeni di genere maschile e femminile”, principio che, pure, è affermato dall’art. 44 della stessa Dichiarazione? 

Problematica è anche l’analogia, istituita dalla Dichiarazione universale sulla diversità culturale, tra differenza culturale e biodiversità, dietro la quale non è difficile scorgere la concezione statica di cultura propria degli antropologi che collaboravano con l’UNESCO negli anni Sessanta (nota 13). Tale concezione non tiene conto di quanto le culture siano continuamente soggette a cambiare, evolversi, adattarsi, contaminarsi, interagendo tra di loro. Porsi l’obiettivo della conservazione a tutti i costi delle culture tradizionali significa in effetti tentare di arrestarne la fisiologica evoluzione e trasformazione, adottando un atteggiamento “museale”. In quest’ottica “non esistono possibilità di arricchimento di una cultura a opera di un’altra, di ‘fertilizzazione incrociata’ […]. La scomparsa di una cultura è una perdita irrimediabile per l’umanità, il che implica la difesa del diritto delle differenti culture a esistere, anche se ciò equivale in ultima istanza a rinchiudere gli attori sociali in riserve culturali e identitarie dalle quali non possono evadere” (nota 14). Ecco allora la possibile implicazione illiberale dell’analogia tra bio- ed etno-diversità. Se è indubbia l’utilità di conservare in laboratorio il bacillo del vaiolo, a fini di ricerca scientifica, non altrettanto si può dire a proposito dell’ipotetica difesa di pratiche come la fasciatura dei piedi delle bambine e l’infibulazione, o la consuetudine ben più diffusa della violenza domestica nei confronti delle donne. In questi casi, il rispetto per la cultura,  intesa come totalità compiuta e coerente, entra inevitabilmente in tensione con il rispetto nei confronti delle persone. Che, nella logica dei diritti, non possono non venire prima delle culture. Si torna così al punto di partenza. I diritti sono stati inventati, nella modernità, come strumenti al servizio dei più deboli. Rispetto al gruppo, sono sempre gli individui i soggetti deboli e bisognosi di protezione. Nei confronti dello Stato, del mercato, ma anche della famiglia e degli altri gruppi e istituzioni in cui si trovano ad essere coinvolti. 

4. “Popoli” in che senso?

Un secondo grande problema che pongono le norme internazionali sui diritti culturali è quello – già menzionato – della difficoltà di stabilire concretamente a quali soggetti deve essere riconosciuta la titolarità di diritti collettivi. Che cos’è un “popolo” o una “minoranza”? Quali sono i criteri per stabilire che qualcuno ne fa parte? Si tratta di interrogativi cruciali quando si passa dalle generiche dichiarazioni di principio al vero e proprio riconoscimento di diritti, in senso giuridico. 

Qual è il popolo che ha diritto all’autodeterminazione politica, economica e culturale, diritto che è stata interpretato, col passare degli anni, in modo sempre più estensivo, fino ad essere talvolta identificato con la pretesa, in ultima istanza, di separarsi dalla comunità politica di cui si fa parte, dando vita a uno Stato autonomo?  I Croati e gli Sloveni che si sono separati dalla Federazione iugoslava erano “popoli” che esercitavano il diritto all’autodeterminazione? Così ha decretato, dopo qualche esitazione, la comunità internazionale, nonostante fino a quel momento tale diritto fosse stato riconosciuto soltanto ai popoli assoggettati a dominio coloniale o occupazione militare, o a minoranze etniche e religiose vittime di gravi discriminazioni (nota 15). Gli Albanesi del Kossovo costituivano un “popolo” titolato ad avvalersi dello stesso diritto? Inizialmente sembrava di no, ma di fronte al fatto compiuto della dichiarazione unilaterale dell’indipendenza l’atteggiamento della comunità internazionale è mutato. E che dire, oggi, dell’Ucraina? In Crimea un referendum ha deciso la secessione e l’annessione alla Russia, ma nuove rivendicazioni secessionistiche vengono avanzate dai russofoni dell’Ucraina dell’est, non privi di qualche argomento a sostegno della tesi della loro specificità linguistica e culturale… 

Questi esempi ci fanno capire che, se inteso come diritto di qualsiasi “popolo” a farsi Stato, il diritto di autodeterminazione non è universalizzabile, e non può dunque essere considerato un diritto fondamentale, al pari dei diritti ascritti agli individui dalla Dichiarazione universale e dalle costituzioni nazionali (nota 16). “Ammesso che sappiamo che cosa sono un ‘popolo’ e una ‘minoranza’ – ha sostenuto Luigi Ferrajoli - […], è infatti impossibile generalizzare questo diritto in favore di tutti i popoli: giacché il medesimo criterio di identificazione di un popolo sarà applicabile a minoranze che con esso convivono nel medesimo territorio e che non potranno godere del medesimo diritto senza contraddire quello rivendicato dal popolo di maggioranza”. Questa tesi - aggiunge lo stesso autore - “può essere estesa a tutti i diritti delle minoranze e, in generale, a tutti i diritti cosiddetti ‘collettivi’, siano essi culturali, politici o economici” (nota 17).  Anche quando i diritti non sono attribuiti ai popoli o alle minoranze, ma agli individui che ne fanno parte, si pone il problema di identificare con precisione chi appartiene a quale gruppo. Il figlio di una coppia mista come può essere classificato? Se il criterio per stabilire l’appartenenza a una minoranza “etnica”, nell’ambito di Stati multiculturali, è quello della discendenza, quale percentuale di “sangue” dovrà dimostrare di possedere un individuo per essere considerato membro di un determinato gruppo? Nella pratica, questi problemi si pongono e si risponde ad essi in diversi modi. Negli Stati Uniti, le tribù indigene che si autogovernano nelle riserve hanno stabilito le regole più varie: in alcuni casi è stata ritenuta sufficiente una percentuale di  1/256 di sangue indigeno per essere considerati parte della comunità, in altri quella del 50% (nota 18). Altrove l’identificazione avviene in base al fenotipo, ma in questo modo può accadere – ed è effettivamente accaduto – che due fratelli con la pelle di diversa gradazione di colore vengano classificati come membri di diverse “etnie”.   Anche quando si rinuncia alla chimera dell’oggettività per rivolgersi ai diretti interessati, chiedendo loro di dichiarare la propria identità etnica o linguistica – come avviene negli Stati Uniti, attraverso periodici censimenti – rimane il problema del carattere in gran parte arbitrario di tali auto-classificazioni, da cui tuttavia può dipendere il godimento di specifici diritti (nota 19). Ma c’è soprattutto il rischio che la trasformazione di identità culturali, di per sé sempre ibride e fluide, in rigide categorie amministrative rafforzi le differenze, alimentando atteggiamenti di chiusura e di diffidenza (nota 20). Il gesto di Alexander Langer che, nel 1995, rifiuta di rispondere al censimento etnico previsto per legge in Alto Adige, risultando così escluso dalla possibilità di candidarsi a sindaco di Bolzano, fa riflettere sui possibili effetti perversi di politiche introdotte “a fin di bene”, per proteggere minoranze discriminate.          

5. Conclusione. Diritti  culturali o diritti economico- sociali?

Ho iniziato questo mio intervento mettendo in luce le ragioni storiche della rivendicazione dei diritti culturali, a difesa di individui e popoli che sono stati – e sono tuttora – vittime di gravi discriminazioni. Se leggiamo con attenzione le norme dedicate ai diritti culturali, ci accorgiamo tuttavia che dal punto di vista giuridico la loro portata innovativa è limitata. Al di là delle formule, spesso ridondanti, i diritti culturali che le carte internazionali oggi attribuiscono agli individui sono in gran parte interpretabili come specificazioni di diritti fondamentali già sanciti Diichiarazione universale del 1948 e dalla maggior parte delle costituzioni (nota 21). In che cosa si traduce, ad esempio, il diritto di “ogni persona, da sola o in comune con altri”, di “scegliere e vedere rispettata la propria identità culturale” (art. 3 della Dichiarazione di Friburgo), se non nell’esercizio delle libertà di coscienza, di religione, di espressione, di riunione e associazione? Su che cosa si fonda il diritto dei membri delle minoranze a parlare la propria lingua, se non sul principio di eguaglianza? Principio che, se correttamente interpretato, non conduce all’omologazione, ma all’attribuzione di pari valore a tutte le differenze, “che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e, insieme, di ciascun individuo una persona come tutte le altre” (nota 22). 

Se questo è vero, non si tratta di arricchire ulteriormente il catalogo dei diritti, ma di dotare di efficaci garanzie i diritti già riconosciuti a livello internazionale, a partire da quelli sociali alla sopravvivenza, alla salute, all’istruzione, in assenza dei quali la possibilità di scegliere “se identificarsi o no in una o più comunità culturali” rischia di rimanere puramente ipotetica. In proposito non si può non notare come l’accresciuta sensibilità nei confronti della dimensione culturale e identitaria tenda oggi a non accompagnarsi a una pari consapevolezza delle responsabilità dell’attuale modello di sviluppo nel generare diseguaglianze e conflitti. Si concentra l’attenzione sul riconoscimento simbolico delle culture dei popoli oppressi, talvolta scegliendo soluzioni discutibili23, ma si dimentica di denunciare le politiche neo-imperialistiche e neo-coloniali che i paesi ricchi continuano a perseguire ai danni dei paesi poveri. Varrebbe allora la pena di ricordare che un testo come la Dichiarazione di Algeri contempla anche una sezione dedicata ai diritti economici, in cui è attribuito a ogni popolo “il diritto esclusivo sulle proprie ricchezze e risorse naturali” (art. 8) e il diritto alla “giusta valutazione del proprio lavoro” e a “scambi internazionali […] in condizioni paritarie ed eque” (art. 10). Diritti che, se presi sul serio, contribuirebbero non poco a creare le condizioni per il mutuo rispetto tra le diverse culture.            

                                                          

1  - La Carta di Algeri. Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, in F. Rigaux, I diritti dei popoli e la Carta di Algeri, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, p. 180.

2  - Ivi, p. 178. 

3  - “Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità”.

4  - Sul processo che ha condotto all’adozione della Dichiarazione del 2007 e al riconoscimento dei diritti degli indigeni in molte costituzioni latinoamericane, cfr. B. Clavero, Stato di diritto, diritti collettivi e presenza indigena in America, in Lo stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa e D. Zolo, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 537-65.

5  - Cfr. in proposito N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 62 ss.

6  - Cit. in M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, pp. 27-28.

7  - Aime fa notare, tra l’altro, che “sia Cortina d’Ampezzo sia Chioggia sono in Veneto e ci sarebbe da chiedersi quanto le loro rispettive ‘culture’ abbiano in comune: dolomitici a un passo dal Tirolo gli uni, adriatici, affacciati sull’Oriente gli altri” (ivi, p. 28). 

8  - Cfr. E. Hobsbawm e T. Ranger, L’invenzione della tradizione (1983), Einaudi, Torino 1987; B. Anderson, Comunità immaginate (1983), Manifestolibri, Roma 1996; E. Gellner, Nazioni e nazionalismo (1983), Editori Riuniti, Roma 1985.  Per un approfondimento su questi temi, mi permetto di rinviare a V. Pazé, Comunità, cultura, globalizzazione, “Teoria politica” XIX, 2-3, 2003, pp. 123-136.

9  - Oltre al già citato volume di Aime, Eccessi di culture, cfr. J. F. Bayart, L’illusion identitaire, Fayard, Paris 1996 ; F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996; Id., L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010; J. L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 

10  - Si pensi alla critica dei diritti dell’uomo “egoista” e “isolato dalla comunità” sviluppata da Marx nella Questione ebraica, che in gran parte risente del nesso indissolubile istituito da Locke tra libertà  e proprietà privata. Cfr. K. Marx, La questione ebraica, in B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004.

11  - G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, a cura di D. Losurdo, Leonardo, Milano 1989, p. 361.

12  - Sulle strumentalizzazioni cui si presta il voto secondo “usos y costumbres”, riconosciuto ai municipi indigeni  dalla Costituzione dello Stato messicano di Oaxaca, cfr. R. Bertrand, J.L. Briquet, P. Pels, Culture of voting. The Hidden History of the Secret Ballot, Hurst Company, London 2007. 

13  - J.-L. Amselle, Contro il primitivismo (2010); tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 73 ss. L’autore insiste in particolare sul contributo di Lévi Strauss all’elaborazione dei documenti dell’UNESCO. “Per Lévi Strauss la gamma complessiva delle culture del pianeta costituisce un insieme determinato in partenza, una serie finita che non può che alterarsi, degradarsi e diminuire nel corso della storia. Nel quadro di questa concezione statica ed entropica della(e) cultura(e), qualsiasi evoluzione storica, qualsiasi contatto, qualsiasi métissage culturale è in definitiva dannoso al mantenimento della biodiversità” (p. 78).  

14  - Ibidem. Contro la visione essenzialista delle culture, propria del “multiculturalismo a mosaico”, ha argomentato anche S. Benhabib in La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale (2002); tr. it. il Mulino, Bologna 2005.

15  - Cfr. in proposito A Cassese, Self-determination of People. A Legal Reappraisal, Cambridge University Press, Cambridge 1984; C. Margiotta, L’ultimo diritto. Profili storici  e teorici della secessione, il Mulino, Bologna 2005; V. Pazé, Il diritto di autodeterminazione dei popoli, tra federalismo e secessionismo, in Quale federalismo?, a cura di E. Vitale, Giappichelli, Torino 2011, pp. 11-27.

16  - Mi attengo qui alla nozione di diritto fondamentale messa a punto da Luigi Ferrajoli, come diritto soggettivo ascritto universalmente a tutte le persone, i cittadini, i capaci di agire. Cfr. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001.

17  - Ivi, pp. 336-7. Problemi specifici pone l’identificazione dei popoli “indigeni” o “autoctoni”, espressione ambigua con cui i documenti internazionali designano ora i popoli che per primi si sono insediati in un certo territorio, ora popoli “oppressi”, privilegiando peraltro quelli particolarmente “primitivi”, fermi allo stadio socio-economico dei cacciatori-raccoglitori. Cfr. J.-L. Amselle, Contro il primitivismo cit., pp. 66 ss. 

18  - Cfr. D. Hollinger, Postethnic America. Beyond Multiculturalism, Basic Books, New York 1995, pp. 45-46.

19 - Si pensi al fatto che gli americani auto-dichiaratisi “indigeni” sono cresciuti, tra il 1960 e il 1990, del 259 per cento, dato verosimilmente spiegabile tenendo conto delle politiche di azione affermativa riservate ai membri di tale minoranze. Cfr. Hollinger, Postethnic America cit., p. 46.

20  - U. Hannerz, La diversità culturale, il Mulino, Bologna 2001, p. 44.

21  - Diverso – come abbiamo visto – è il caso dei diritti culturali attribuiti a soggetti collettivi. 
22  - L. Ferrajoli, Presentazione, in I.M. Young, Le politiche della differenza (1990); tr. it. Feltrinelli, Milano 1996, pp. X- XI.  23 Cfr. ad esempio la critica di Appiah alla dottrina della “proprietà dei beni culturali” sviluppata dall’UNESCO e alla politica del copyright applicata alla “cultura immateriale” dei popoli: K.A. Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei (2006); tr. it. Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 117 ss.