venerdì 29 settembre 2017

Il dilemma della blockchain - Articolo di Andrea Daniele Signorelli


Un articolo utile a capire quanto si muove nel mondo della Rete, andando oltre i social, le fake news, i soliti siti. Non spaventatevi per alcuni passaggi forse un poco troppo tecnicisti, quello che deve interessare in questa vicenda, sicuramente esemplare delle partite complesse che si giocano attorno alla Rete,  è la comprensione che l’universo Rete può essere popolato da lodevoli utopie, ma anche che queste stesse rischiano spesso di trasformarsi in pericolose distopie



Il dilemma della blockchain
Potenzialità, valori e inquietanti prospettive future di una della tecnologie più rivoluzionarie degli ultimi anni.

Articolo, tratta dalla rivista on-line La Tascabile, di Andrea Daniele Signorelli milanese, classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel 2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti” per Informant Edizioni.

C’ è un aspetto fondamentale che differenzia la blockchain – il registro digitale, distribuito, anonimo e crittografato che rende possibile l’esistenza dei bitcoiun (è una moneta elettronica creata nel 2009 da un anonimo inventore, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, che sviluppò un'idea da lui stesso presentata su Internet a fine 2008. Per convenzione, il termine Bitcoin, con l'iniziale maiuscola, si riferisce alla tecnologia e alla rete, mentre il minuscolo bitcoin si riferisce alla valuta in sé.. A differenza della maggior parte delle valute tradizionali, Bitcoin non fa uso di un ente centrale: esso utilizza un database distribuito tra i nodi della rete che tengono traccia delle transazioni, ma sfrutta la crittografia per gestire gli aspetti funzionali, come la generazione di nuova moneta e l'attribuzione della proprietà dei bitcoi) e non solo – dalle altre grandi innovazioni tecnologiche di questi anni (dall’intelligenza artificiale alla Internet of Things): la forte impronta ideologica che ne sta alla base e che si può riassumere nella volontà di rendere superflua ogni forma di entità centrale (governi, aziende, banche e qualunque istituzione si frapponga tra i liberi cittadini/proprietari). Una sorta di versione tecnologica dell’anarco-individualismo che va molto oltre il generale libertarianesimo che ammanta la Silicon Valley. L’obiettivo ultimo della blockchain, e delle applicazioni che su essa si reggono (le note criptomonete, ma anche agli smart contracts o le organizzazioni decentralizzate), è infatti quello di liberare l’uomo da qualunque forma di fiducia siamo oggi costretti ad accordare agli intermediari che regolano buona parte delle nostre vite di cittadini. Grazie alla blockchain, almeno nella teoria, resterebbero solo liberi individui che scambiano beni e prendono accordi tra di loro, approfittando degli automatismi garantiti da questa tecnologia. In questa utopia libertaria non ci sono banche, non ci sono notai, non ci sono finanziarie; un domani, volendo esagerare, forse nemmeno governi: ogni ente centrale viene sostituito da un codice matematico che non richiede nessuna fiducia e che non può essere manomesso. A questo punto, una breve digressione sul meccanismo che regola questa tecnologia è d’obbligo. La blockchain può essere definita come un registro aperto e distribuito: una “catena di blocchi” a cui chiunque può partecipare – diventando così un nodo – semplicemente installando sul proprio computer il registro che contiene la storia delle varie transazioni (per esempio dei bitcoin) e iniziando così a monitorare automaticamente i vari passaggi che avvengono attraverso la catena. Restando al caso dei bitcoin, il lavoro svolto dai nodi viene incentivato per via economica: quando viene dato il via libera a un passaggio di denaro, risolvendo per via informatica una complessa equazione, questi ottengono in cambio delle criptomonete (al momento, 12 bitcoin per ogni transazione). Ogni volta che un gruppo di transazioni è approvato, viene collegato al blocco precedente attraverso un hash, un’impronta unica e immutabile che fornisce la garanzia che nessuno potrà manomettere i dati registrati. A meno di riuscire a conquistare il 51% del potere di calcolo dell’intera blockchain, è impossibile per il singolo apportare modifiche al registro; perché verrebbe meno il consenso necessario tra i nodi. Questo è un elemento fondamentale: la decentralizzazione della blockchain è ciò che la rende sicura e distribuita; oltre a consentire l’eliminazione di ogni ente centrale facendo invece affidamento sulla “democrazia del potere di calcolo” assicurata dalle migliaia di partecipanti alla blockchain dei bitcoin. Ma c’è un problema: il numero dei nodi che partecipano alla catena dei bitcoin sta calando. In particolare, sta scendendo rapidamente il numero dei “full nodes”; ovvero di chi mantiene una copia dell’intera blockchain sul proprio computer. Com’è possibile, considerando che il successo crescente delle criptomonete dovrebbe portare sempre più persone a diventare parte di un meccanismo che offre importanti incentivi economici? È qui che le cose si fanno un po’ tecniche. È qui, soprattutto, che si capisce come l’idea anarco-capitalista di un sistema interamente decentralizzato stia fallendo di fronte al suo stesso successo. I problemi sono diversi. Prima di tutto: più il tempo passa, più il peso della blockchain aumenta; se due anni fa era sufficiente scaricare sul proprio computer 40 giga di dati, oggi questa cifra si sta approssimando a 130 GB, rendendo sempre più complesso diventare un “full node” della catena per chi possiede un normale computer casalingo. Non è tutto: il numero di transazioni in bitcoin continua a crescere, mettendo a dura prova un sistema che, al momento, può processare solo 3/7 transazioni al secondo (per fare un paragone, un circuito finanziario come VISA può convalidare 60.000 transazioni ogni secondo). Dal momento che ogni blocco della catena (all’interno del quale vengono racchiusi i dati cifrati delle transazioni) non può avere una dimensione superiore a 1 MB, l’attesa per vedere convalidati i pagamenti, che teoricamente dovrebbe essere di pochi minuti, spesso diventa di ore se non giorni (facendo inoltre salire le commissioni). Con questi tempi, i bitcoin rischiano di diventare inutili: a chi serve una moneta virtuale che fa aspettare giorni prima di sapere se il pagamento è andato a buon fine? Le soluzioni tecniche esistono, ma il prezzo da pagare è molto alto. Sul finire di luglio, i programmatori che, di fatto, gestiscono la blockchain dei bitcoin hanno introdotto un nuovo protocollo (SegWit), che riduce il peso dei blocchi spacchettando i dati relativi alla firma digitale e liberando così un po’ di spazio. Più importante ancora, nei prossimi mesi la dimensione dei blocchi dovrebbe salire a 2 MB, aumentando il numero di transazioni processabili ogni secondo. Nonostante le ultime modifiche siano state apportate dopo l’accordo che ha posto fine a una vera e propria guerra civile all’interno della comunità Bitcoin, non tutti sono rimasti soddisfatti. Una parte dei programmatori ha quindi dato vita a un hard fork (una biforcazione irreversibile della blockchain) per creare una nuova catena i cui blocchi – se il processo avrà successo – avranno una dimensione massima di 8 MB, scalando di diverse misure la rapidità con cui si possono convalidare le transazioni. La moneta creata con questa biforcazione è la neonata Bitcoin Cash.Ma perché fermarsi a 8? È sufficiente modificare una riga di codice per proporre (ma poi bisogna vedere quanti nodi seguono la proposta) una blockchain i cui blocchi abbiano dimensioni di 10/20/30 MB; quanti se ne vuole. Ogni volta che si aumentano le dimensioni dei blocchi, però, ai miners viene richiesto maggiore potere computazionale, e di conseguenza strumenti più costosi e maggiore energia da consumare per far girare le macchine. Il risultato è facilmente intuibile: sempre meno attori saranno in grado di agire come nodi, riducendo progressivamente la distribuzione che è proprio il valore alla base della blockchain. Non è un problema del futuro. Anzi, è esattamente la ragione per cui, ormai un anno e mezzo fa, lo storico sviluppatore Mike Hearn aveva dichiarato la morte dell’esperimento Bitcoin. Già oggi, infatti, la parte del leone la svolgono i cosiddetti mining pool: gruppi di minatori professionisti che uniscono le forze per avere la potenza di calcolo sufficiente a risolvere un blocco prima che lo faccia qualcun altro. I primi otto mining pool più potenti al mondo si trovano in Cina; ma basterebbe un accordo tra le prime quattro di queste società per superare o avvicinarsi drasticamente alla fatidica quota del 51% della potenza del network, che, in linea teorica, permette di prendere il controllo della blockchain. È questo il dilemma che attanaglia sostenitori e fautori della blockchain: scalabilità ed efficacia portano inevitabilmente a una drastica riduzione della decentralizzazione; un sistema veramente decentralizzato, invece, rischia di restare un prodotto di nicchia per pochi appassionati, non in grado di incidere sulla società (da notare che su GitHub, invece che di dilemma, si parla di trilemma; perché l’aumento della dimensione dei blocchi espone l’intero sistema anche a maggiori rischi). Quale dev’essere, allora, lo scopo dei bitcoin: diventare una moneta in grado di fare concorrenza a quelle tradizionali, aumentando però la concentrazione, o restare principalmente un asset speculativo (o un bene rifugio) che non ha vero uso nel mondo, ma che mantiene in vigore (almeno in parte) la distribuzione che è alla base del progetto? Al momento, come forse inevitabile, sembra essere la prima opzione a farsi largo. E non è detto che si possa parlare di tradimento dello spirito originario, dal momento che lo stesso titolo del white paper con cui Satoshi Nakamoto (chiunque esso sia o essi siano) lanciò l’idea dei bitcoin parlava di un “peer to peer electronic cash system”: il che fa pensare che la sua priorità fosse quella di creare un sistema per i pagamenti davvero funzionante, in grado di competere con i canali tradizionali. La ragione per cui si sta favorendo la scalabilità in luogo della decentralizzazione, però, è anche un’altra: nei primi sei mesi del 2017 i venture capitalists hanno investito oltre 300 milioni di euro nelle startup che lavorano con i bitcoin o in generale con i molteplici utilizzi della blockchain; nel settore, inoltre, hanno fatto il loro ingresso colossi del calibro di R3, un consorzio che ha riunito le 40 banche più grandi del mondo (tra cui le italiane Unicredit e Intesa Sanpaolo) per studiare le potenzialità della catena di blocchi. Per attori di questo calibro, la distribuzione non è necessariamente una virtù: quello che conta è che sia uno strumento efficace. “Se il Bitcoin continuasse ad avere successo, la rete è destinata a crescere a dismisura”, si legge su un sito italiano specializzato. “Se le transazioni raggiungessero la frequenza di utilizzo di Paypal o Visa, la blockchain crescerebbe esponenzialmente, rimanendo prerogativa di pochi o pochissimi full nodes. (…) Se il Bitcoin dovesse addirittura rimpiazzare l’utilizzo del contante, necessiteremmo di enormi datacenter per memorizzare la blockchain”. E quindi, addio decentralizzazione. Fin qui abbiamo parlato principalmente di bitcoin, ma lo stesso discorso varrà sempre più anche per Ethereum e i suoi smart contracts e per ogni applicazione che, per funzionare davvero bene, deve quanto meno limitare la propria decentralizzazione. Ma a questo punto, cosa diventerebbe la blockchain? Da sogno anarco-libertario, si trasformerebbe in un metodo efficace, crittografato e solo parzialmente sicuro (pochi data center sono più facilmente aggredibili rispetto a migliaia di computer sparsi nel mondo); in cui l’aspetto ideologico viene meno e in cui gli intermediari di cui ci si doveva sbarazzare riemergono con in mano le chiavi della catena (gli istituti bancari, in effetti, sono stati i primi a investigare le potenzialità di questa tecnologia). Al di là di qualche possibile soluzione (Bitcoin Cash dovrebbe utilizzare lo sharding – una sorta di frammentazione dei compiti – per aumentare le capacità conservando la distribuzione), la verità è che la strada sembra essere segnata. Lo dimostra il fatto che si parla sempre più spesso di creare blockchain private: “Invece di avere un network pubblico e non controllato, è possibile creare un sistema in cui i permessi per accedere sono strettamente controllati e in cui solo alcuni utenti hanno il diritto di leggere o modificare la catena, pur mantenendo alcune delle caratteristiche, in termini di autenticità e decentralizzazione, che la blockchain fornisce”, scrive Vitalik Buterin, fondatore di Ethereum, sul suo blog. “Questi sistemi sono di fondamentale interesse per le istituzioni finanziarie e hanno provocato una reazione da parte di chi vede in questi sviluppi qualcosa che fa venire meno la ragione stessa della decentralizzazione, oppure l’atto disperato di alcuni dinosauri che provano a mantenere la loro posizione”. Buterin, che sul tema sembra essere molto pragmatico, si spinge anche a evidenziare alcuni fondamentali vantaggi tecnici delle blockchain private; di cui almeno due sono da evidenziare: “Solo dei soggetti noti avranno il permesso di convalidare le transazioni, quindi ogni rischio di un attacco del 51% portato da eventuali collusioni di miner cinesi verrebbe meno. Inoltre, le transazioni diventerebbero più economiche, perché sarebbero verificate solo da pochi nodi dall’elevatissimo potere di calcolo”. In poche parole, eliminando dal trilemma la distribuzione, si ottiene la scalabilità senza nemmeno rinunciare del tutto alla sicurezza. Tutto bene, quindi? In verità, alcuni aspetti inquietanti iniziano a farsi largo quando si pensa a blockchain private completamente nelle mani di grandi aziende. Ciò che doveva essere un’utopia della liberazione rischia di trasformarsi in una dittatura del codice, governata da aziende ed enti centrali in grado di sfruttare gli automatismi garantiti dalla blockchain per trasformare in realtà i loro sogni più reconditi. Per capirci qualcosa di più, basta pensare agli smart contracts: contratti basati sulla catena di blocchi che si eseguono automaticamente nel momento in cui le condizioni vengono soddisfatte. Teoricamente, nascono per eliminare il bisogno di terze parti come i notai o anche solo le agenzie di scommesse; nel momento in cui questa tecnologia si fonde con la internet of things, però, le prospettive vanno molto oltre. “Immaginiamo che tutti i lucchetti di un appartamento siano connessi a internet”, ha spiegato Chris Ellis di Feathercoin a Fast Company. “Quando fai una transazione in bitcoin per affittare la casa, lo smart contract che tu e io abbiamo sottoscritto ti permette di aprire automaticamente l’appartamento, usando le chiavi che hai sul tuo smartphone”. Uno dei primi teorici degli smart contracts, Nick Szabo, aveva portato un esempio simile: anche il mutuo dell’auto si potrebbe stipulare attraverso gli smart contracts; se salti un pagamento, la blockchain può automaticamente cancellare le chiavi digitali che permettono di far funzionare la macchina. Qualcosa del genere esiste già nella realtà: Slock.it è una startup tedesca che progetta serrature collegate alla internet of things e agli smart contracts, studiate per rendere completamente automatico l’affitto di appartamenti su AirBnb o dare la possibilità di noleggiare la propria auto a terzi e guadagnare  senza dover fare nulla (lo smart contract, in base alle vostre indicazioni, può valutare se il rating di chi vuole noleggiare l’auto è sufficiente). Le prospettive, però, potrebbero anche prendere una brutta piega: “Lo stesso sistema potrebbe venire programmato per impedire l’apertura del lucchetto dopo il pagamento dell’ultimo mese di affitto”, si legge sull’Atlantic. “O magari potrebbe togliere l’energia o la connessione a internet se il sensore all’interno dell’appartamento determinasse che gli occupanti stanno facendo troppo chiasso”. E ovviamente si può anche andare oltre: oggi le famiglie morose possono tutelare i loro interessi ed evitare di subire uno sfratto rivolgendosi alle istituzioni preposte; ma come fare se lo smart contract al quale hanno aderito permette al proprietario di negare l’accesso alla casa, l’utilizzo dell’energia, dell’acqua e di tutto ciò che può essere gestito attraverso la internet of things? “Se tutto questo vi suona familiare”, prosegue Ian Bogost sull’Atlantic, “è perché la cultura contemporanea si è già trovata ad affrontare situazioni simili. Le tecnologie di controllo e sorveglianza, al confronto modeste, usate da Google, Facebook e gli altri – il cui impatto ormai conosciamo bene – hanno proliferato basandosi sull’assunto che avrebbero reso le vite delle persone migliori e più efficienti (…) Ugualmente, il futuro della blockchain sembra essere legato alla visione a breve termine di investitori e imprenditori a cui piace parlare di un’ipotetica utopia distribuita, senza prendere le misure contro la tirannia che potrebbe ugualmente realizzare”. Invece di liberarci dalla fiducia obbligata che dobbiamo accordare a enti centrali, la blockchain potrebbe rafforzare ulteriormente governi, istituti finanziari, aziende e quant’altro, automatizzando meccanismi e tagliando fuori attori a cui oggi il cittadino può rivolgersi per chiedere di essere difeso da eventuali soprusi o per far valere i suoi diritti; fornendo in questo modo un livello di controllo centrale, e automatizzato, che non ci si sarebbe certo attesi da un semplice “registro distribuito”. Ancora una volta, utopia e distopia dimostrano di essere due facce della stessa medaglia, perfettamente in grado di convivere. Le esperienze del passato – dall’open web che si trasforma in walled garden, ai social network che diventano strumenti di raccolta dati a strascico – ci dovrebbero però mettere in guardia dal fatto che, il più delle volte, la bilancia non tende a pendere dal lato della libertà

giovedì 28 settembre 2017

"L'innominabile attuale" . saggio di Roberto Calasso


Ci sembra interessante l’ultimo saggio di Roberto Calasso dal titolo


“L’innominabile attuale”


in quanto si collega a tematiche affrontate nei nostri programmi precedenti e ad alcune che  affronteremo a breve.

Così cita il risvolto di copertina:+



……..Turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: sono tutte tribù che abitano e agitano l'innominabile attuale. Mondo sfuggente come mai prima, che sembra ignorare il suo passato, ma subito si illumina appena si profilano altri anni, quel periodo fra il 1933 e il 1945 in cui il mondo stesso aveva compiuto un tentativo, parzialmente riuscito, di autoannientamento. Quel che venne dopo era informe, grezzo e strapotente. Nel nuovo millennio, è informe, grezzo e sempre più potente. Auden intitolò L'età dell'ansia un poemetto a più voci ambientato in un bar a New York verso la fine della guerra. Oggi quelle voci suonano remote, come se venissero da un’altra valle. L’ansia non manca, ma non prevale. Ciò che prevale è l’inconsistenza, una inconsistenza assassina. È l’età dell’inconsistenza……..



E questa è la sintesi critica, molto bella, che Marco Belpoliti ne fa sulla rivista on-line “Doppio Zero” (sito caldamente consigliato)



…………..Roberto Calasso è interessato ai terroristi. Non quelli del passato, ma a quelli del presente: i terroristi islamici. Sono l’incarnazione di una questione che lo ossessiona dai tempi della Rovina di Kasch (1983): il sacrificio. I giovani terroristi suicidi di Parigi, Londra, Berlino, Nizza, Barcellona con il loro sacrificio protraggono nel mondo contemporaneo – l’età dell’inconsistenza, come la chiama Calasso – un rituale fondamentale che sembrava scomparso nel regno della modernità. Attraverso i ragazzi dell’Isis e di al-Queda il sacrificio celebra nuovamente i suoi fasti: “Il terrorismo islamico è sacrificale: nella sua forma perfetta, la vittima è l’attentatore”. Un ritorno al passato? Non proprio. C’è una differenza sostanziale rispetto al sacrificio arcaico del mondo ciclico evocato nella Rovina di Kasch. In quel libro, costruito per frammenti, giustapposizioni, montaggi, l’antica macchina sacrificale “era concepita per stabilire un contatto e una circolazione tra visibile e invisibile”, mentre l’attentatore che oggi uccide morendo è perfettamente visibile, misurabile, quantificabile, fotografabile. In L’innominabile attuale, volume appena pubblicato da Adelphi, Calasso aggiorna il libro del 1983, aggiunge 180 pagine di postille trent’anni dopo. Il mondo è cambiato, ma la lettura che Calasso ne dà resta imperniata sull’asse cosmico, con una differenza di prospettiva: “Come i missili, l’attentato sacrificale punta verso il cielo, ma ricade sulla terra”. Nel nuovo sistema sacrificale dei terroristi islamici il Cielo non è raggiunto. Lo scambio tra visibile e invisibile, quantità e qualità, non accade più, e tuttavia il paradigma sacrificale di Calasso resta identico. Come aveva notato Italo Calvino, recensendo all’epoca La rovina di Kasch, con la nascita della modernità il sacrificio cruento aveva lasciato le ragioni del sacro per trasformarsi in “esecuzioni ispirate dalla ragion politica o dagli stermini nel corso di qualche esperimento che dovrebbe avvicinarci alla felicità umana”. Un nome per tutti: Pol Pot e i Khmer rossi, uno dei più sconvolgenti genocidi della seconda metà del XX secolo condotto in nome dell’ideologia. E ora? Quale novità ci racconta Calasso? Il suo libro è intriso di malinconia e insieme cinismo, di catastrofismo e lucidità; è un libro scritto sull’orlo di un precipizio con lo scopo di reiterare la propria condanna del mondo contemporaneo, una condanna che continua con costanza e intelligenza da molti anni. Calasso coglie però in questo libro il tema fondamentale del terrorismo islamico attuale e lo mostra in poche frasi: le vittime sono i terroristi, non i morti. Sono loro, le vittime, che uccidendosi rendono perfetto l’omicidio di decine di persone. Una verità che è stata spiegata benissimo da Albert Camus in L’uomo in rivolta (1951), un libro che stranamente Calasso non cita, e che è la più lucida disanima del terrorismo dall’epoca del suo debutto nella Russia zarista nel XIX secolo. Ora “predominano gli attentati degli assassini-suicidi che si fanno esplodere”. Perché lo fanno? Il loro gesto contiene una grandezza, o presunta tale, che a noi sfugge: io mi uccido, dice il terrorista islamico, per ciò in cui credo; lo faccio contro i vostri valori, quelli per cui voi invece vivete: i valori del materialismo, a partire dal consumismo. Voi vivete per questo, io mi sacrifico contro questo. L’autore di L’innominabile attuale non scandaglia le ragioni psichiche o sociali di questi giovani, preferisce tenere il discorso su un piano che un tempo si sarebbe detto “ideologico”, e che, nel suo caso, è più giusto chiamare “metafisico”. Calasso ragiona solo per grandi orizzonti, evidenziando le immense forze che muovono il mondo, spesso a nostra insaputa. Egli osserva quello che accade dall’alto, da una posizione elevata. Paradossalmente è proprio quest’altezza dello sguardo, il titanismo implicito nella sua posizione, titanismo che si sposa spesso a un sarcasmo pungente, che gli permette di cogliere dettagli decisivi alla comprensione del tutto. Il primo è la coincidenza tra il terrorismo islamico e la diffusione della pornografia in rete. Negli anni Novanta attraverso internet, scrive, diventa disponibile “ciò che avevano sempre fantasticato e desiderato”. Loro sono gli islamici, gli ultimi credenti, stando allo stesso Calasso, che in questa definizione coglie nel segno: l’Islam è oggi l’ultima religione (ne aveva scritto nel 1981 Naupaul in Tra i credenti, poi tradotto da Adelphi). Scrive: “Il mondo secolare aveva invaso la loro mente con qualcosa d’irresistibile, che li attirava e al tempo stesso li irrideva e li esautorava”. Gli uomini di fede islamica erano attratti e contemporaneamente scandalizzati. La pornografia mostrava loro un eccesso con una doppia valenza: negava tutti i valori della loro cultura tradizionale, e questo li faceva infuriare; e insieme mostrava che l’eccesso era possibile, compreso quello dell’attacco all’Occidente corrotto. Un complesso davvero difficile da districare. Il brano solleva una questione che spesso in Occidente viene ignorata, o peggio sottovalutata: la connessione che esiste tra sesso e terrorismo. Negli anni Settanta, agli albori del terrorismo di sinistra, della lotta armata, Pier Paolo Pasolini aveva indicato in un articolo su un giornale, “Tempo”, proprio nell’eccesso di libertà sessuale la causa del terrorismo stesso. Ne ha scritto di recente anche Houellebecq in Sottomissione (Bompiani ). Con il suo tono icastico e insieme apocalittico Calasso scrive che la risposta dei giovani islamici alla pornografia in rete sarebbe stata: andare “oltre”. Aggiunge: “di là dal sesso, c’è solo la morte. Una morte sigillata dal significato”. Osservazione apodittica, ma non priva di fondamento e perfetta per la sua lettura sacrificale. Calasso ha scandagliato, oltre al sacrificio, anche questo aspetto fondamentale che al sacrificio si lega, ovvero la sessualità, protagonista assoluta di almeno un paio di suoi libri. Un continente che lo scrittore ha esplorato nel suo aspetto storico e culturale forse più complesso: l’India del Kamasutra. Quello che di nuovo hanno i terroristi islamici – e qui sta il punto centrale della sua lettura – è il “terrore secolare”. Così lo definisce, e subito spiega: il nuovo terrorismo non è né religioso né politico né economico né rivendicativo, bensì fondato sul caso. Questo è il tema che gli permette di saldare le prime pagine dedicate al terrorismo con quelle centrali del saggio “Terroristi e turisti”; il tema è quello del dominio della casualità moderna imperniata sul numero – l’algoritmo nella sua versione materialista. Anche a questo riguardo Houellebecq ne ha fatto materia di narrazione in Piattaforma nel 2001 (Bompiani). “Secolare” è un aggettivo che Calasso aborrisce: sta per secolarizzazione, cioè ciò che ha distrutto in Occidente il Sacro. Il nuovo terrorista si differenzia da quello nichilista – i russi del XIX secolo, ma anche gli anarchici del XX e probabilmente persino i brigatisti rossi, culmine del nichilismo, seppure questo non lo dica esplicitamente. “Il terrorismo secolare – scrive – vuole innanzitutto uscire dalla coazione sacrificale. Passare al puro assassinio”. Qui starebbe la differenza, ammesso che si possa davvero differenziare tra i terroristi nichilisti del passato, del passato prossimo, e i nuovi terroristi del presente, gli islamici. Il terrorismo casuale sarebbe “la forma di terrorismo più corrispondente al dio dell’ora”. Chi è il “dio dell’ora”? Il nostro dominatore, il tempo degli orologi, il tempo rettilineo, opposto al tempo dell’eterno ritorno, al tempo circolare. A questo punto del libro il suo discorso sembra girare in tondo, ritornare su se stesso. Non può proseguire dal momento che la differenza effettiva non sta nel terrorismo nichilistico e quello che Calasso chiama terrorismo casuale. Cosa sarebbe il caso cui si appella? L’uccidere a caso, come nell’azione con il camion, come a Nizza, o con le bombe sui treni come alla stazione di Atocha a Madrid? Non aveva fatto così anche Mario Buda, l’attentatore di New York, l’inventore dell’autobomba nel 1920? L’anarchico italiano aveva colpito a caso a Wall Strett. Calasso definisce il regime sacrificale del passato mediante “la scelta della vittima”: non è mai a caso. Ma non basta dire che il terrorismo causale non fa discriminazione di ceto o di età, come scrive, perché tutti coloro che sono morti in questi anni di terrorismo suicida hanno una cosa in comune, e non sono affatto casuali. Sono miscredenti, i nemici dell’Islam o, in versione minore, gli islamici tiepidi. I terroristi sono i “supermusulmani” come lo psicoanalista francese d’origine tunisina Fethi Benslama. Tutti i non-credenti meritano di morire, secondo i predicatori dell’Isis. In una cosa Calasso però coglie nel segno parlando del nuovo terrorismo: l’uccidere uccidendosi. Il martire è un suicida, solo così giustifica la sua azione, solo così merita il Paradiso di Allah dove lo attende la schiera delle vergini. Questa è la chiave per comprendere il terrorismo islamico attuale. Non c’è metafisica che tenga: la nuda verità materiale sta in questo gesto assurdo dal punto di vista della psicologia occidentale (l’idea del martire era ben presente alla chiesa cristiana delle origini, bagnata dal sangue del sacrificio dei martiri, ma non si trattava di suicidi). Il sacrificio rende puri, per questo il terrorista può uccidere: l’attende, non solo il Paradiso, ma prima di tutto l’assoluzione preventiva da ogni senso di colpa. Ci si uccide per uccidere. Se il terrorista sopravvive alla propria azione, è un fallito. Per lui ogni strada è chiusa. Non solo quella del Paradiso. Nessuna organizzazione terrorista, dall’Isis ad al-Qaeda, ha previsto di “salvare” i martiri sopravissuti: sono abbandonati a loro stessi. La parte centrale del primo saggio, ricca d’intuizioni, immagini e connessioni impreviste – nel cortocircuito sta la forza della prosa di Calasso, che porta il lettore in cima alle montagne russe e lo fa precipitare di colpo nel breve giro di una frase –, lavora intorno al nodo del secolarismo, ovvero al medesimo nucleo di La rovina di Kasch dove, come aveva visto Calvino nella sua recensione, si riconosceva come unico valore possibile in questo mondo secolarizzato la leggerezza. Ora in L’innominabile attuale la leggerezza è scomparsa, annegata nella metafisica degli ultimi giorni dell’umanità. Non che Calasso sia per l’apocalisse. Le sue pagine procedono piuttosto nell’ambito dell’apocatastasi, ovvero nella zona che è definita dal penultimo. Tutto per lui è penultimo, mai ultimo. Le sue frasi non si chiudono mai su se stesse, lasciano sempre qualcosa d’inconcluso, come la struttura stessa dei suoi libri, lascia sempre una menda, un foro, da cui si può fuggire, perché i tempi penultimi permettono questo. Gran parte del pensiero, della letteratura, che lo scrittore ha radunato sotto le bandiere della casa editrice, che dirige dagli anni Settanta, sono pensatori del penultimo, non dell’ultimo. A partire da Bobi Bazlen, che è stato il mentore, il maestro di Calasso. Bazlen era un genio del penultimo. Ebbene questa parte centrale, per quanto elegante e affascinante (ad esempio la figura dei “transumanisti” contrapposti ai “secolaristi”), non porta molto di nuovo rispetto al libro del 1983. Il secondo termine che dà forma al titolo – turisti – suona invece nuovo. La diade “terroristi e turisti” sa molto di Adorno, dell’autore dei Minima moralia, un modello che Calasso ha sempre tenuto d’occhio anche quando ha respinto il pensiero del francofortese (e qui, nell’abbozzo di critica del Turismo c’è pure qualche traccia di Enzensberger, nipotino di Adorno e Horkheimer). In comune terroristi e turisti hanno l’extraterritorialità e la condizione di apolidi. Sono degli inappartenenti. Scrive Calasso: “Se i turisti vengono osservati con qualche imbarazzo e un accenno di riprovazione, è l’umanità che guarda se stessa e sospetta di aver perduto qualcosa. Non sa bene che cosa, ma sa che non sarà recuperabile. Qualcuno ha detto che con la democrazia viene esteso a tutti il privilegio di accedere a cose che non sussistono più”. Per l’autore il turismo è il modello della realtà virtuale: una realtà seconda. In queste pagine la passione metafisica dell’autore va crescendo, centrando spesso l’obiettivo dell’aforisma, ispirato da un altro dei suoi modelli, questo sì palese: Karl Kraus. Ma davvero il turista è questa cosa, una realtà seconda? Nel 1773 il dottor Johnson in una lettera a Hester Thrale scriveva: “L’utilità del viaggiare è di regolare l’immaginazione per mezzo della realtà e invece di pensare come le cose possono essere, vederle come sono”. Il viaggiare di cui parla Johnson è il turista? Nel 1869 Mark Twain, come ricorda Marco d’Eramo in un recente libro dedicato al turismo (Il selfie del mondo, Feltrinelli), pubblicò un libro fondamentale con cui comincia ufficialmente l’Età Turista: Innocents Abroad (Gli innocenti all’estero). Si trattava del resoconto della crociera a bordo del Quaker City, la prima organizzata negli Stati Uniti per visitare l’Europa, che definì “il progresso dei nuovi pellegrini”. Twain si poneva il problema dello sguardo: che cosa attrae il turista? La risposta a questa domanda è quella che distingue il viaggiatore dal turista, l’eccezionale dal banale. Viviamo in un’epoca in cui non è più possibile differenziare in modo preciso cosa cerca, e vede, l’uno, e cosa cerca, e vede, l’altro. Il turista è anche lui, come il terrorista, un essere secolarizzato, scrive Calasso. Nessuna possibilità di cavarcela, se lo seguiamo su questa strada. Il problema, come ci ricorda D’Eramo, è che in questi ultimi cinquant’anni non è cambiata solo la nostra relazione con il tempo (tempo di lavoro e tempo libero), ma anche e soprattutto la relazione con lo spazio. Un gruppo di uomini e donne seduti nella sala di aspetto di un aeroporto, in attesa di salire su aereo di linea e di dirigersi nel medesimo luogo, da cui poi dipartirsi verso ulteriori e differenti mete, non è davvero nel medesimo luogo. Le tecnologie digitali le rendono abitanti (o turisti) di realtà diverse: multidimensionali. Una sta ascoltando un brano musicale di un cantante caraibico, l’altro conversa con la cugina australiana, un altro guarda la partita di calcio sul visore del suo smartphone, un altro ancora legge un quotidiano di Città del Capo. Bello o brutto, giusto o sbagliato che sia, viaggiamo in un mondo plurimo, pluriverso, molto lontano da quello che Calasso postula nel suo libro, un mondo, il nostro, dove l’idea di “contatto” è declinata in forme nuove rispetto al passato. Non necessariamente il nuovo è migliore, ma in ogni caso è. Questo è il punto. L’universo entro cui si chiude Calasso – un mondo a suo modo spazioso – non è il nostro stesso mondo. Per capire questa differenza basta leggere la seconda parte del libro, intitolata La società viennese del gas. Si tratta di una serie di brevi pezzi disposti in sequenza temporale, dal gennaio 1933 al maggio 1945, ciascuno scandito da una data e con un racconto: puro storytelling. Una sequenza in cui l’autore descrive “l’autoannientamento” che l’umanità ha tentato, il tutto compreso tra l’ascesa al potere di Hitler e la fine del secondo conflitto mondiale. Qui davvero siamo agli “ultimi giorni dell’umanità”. Sono pagine bellissime, abbacinanti, dove il genio per il dettaglio di Calasso brilla per rapidità, capacità di sintesi, e anche per indugio, pausa, sosta. Sono decine di micro-storie che danno da pensare, ma che fanno anche capire la prospettiva storica, e dunque temporale, con cui questo autore pensa al futuro. Viviamo oggi sospesi in un mondo penultimo, quello dominato da Donald Trump, il più farsesco dei personaggi storici apparsi negli ultimi 70 anni. Le pagine di Calasso non lo nominano, ma il suo faccione sgarbato e la capigliatura color polenta fa capolino nelle pagine di L’innominabile attuale (che sia lui l’Innominabile?), pagine sinistre: stiamo precipitando nel medesimo baratro del 1933? Davvero un piccolo paese come la Corea del Nord è in grado di scatenare le follie di un insano dottor Stranamore? L’attuale non è però innominabile. Al contrario: è perfettamente nominabile. Ci sono altri pensatori e altri libri che ci possono venire in soccorso, altre parole per rispondere alla provocazione di Calasso che finisce per definire quest’epoca, la nostra, inconsistente. Nonostante tutto consiste. Nonostante i terroristi e i turisti. Anzi forse proprio grazie a loro.

lunedì 25 settembre 2017

Passeggiata nei luoghi aviglianesi di Primo Levi


Straordinario il successo di partecipazione alla passeggiata nei luoghi aviglianesi di Primo Levi!



Neppure la questura, sempre cauta nel fornire le cifre di cortei e manifestazioni, potrebbe smentire una presenza calcolabile attorno alle duecento persone (vabbè facciamo centottantadue).

Ma è stata una partecipazione bella, e confortante, non solo come numeri, ma anche per la “qualità” dei presenti, tutti attenti e coinvolti, partecipi e consapevoli del valore dell’iniziativa.

Circolarmente può legittimamente essere orgogliosa di questo successo, che speriamo sia di buon viatico per i successivi appuntamenti del programma 2017 – 2018, a partire ovviamente dal convegno di Venerdì 13 Ottobre che, completando l’iniziativa del 24 Settembre, avrà come titolo “Primo Levi ad Avigliana”.

Le targhe che ricordano nel dettaglio i “luoghi di Primo Levi” restano come testimoni di quanto fatto per fissare un ricordo non episodico.

Un ringraziamento doveroso al Sindaco, Andrea Archinà, nominato sul posto “guida ufficiale” della camminata, per il coinvolgimento sincero e a sua volta riconoscente dell’impegno di Circolarmente per il successo dell’iniziativa.

Il non indifferente lavoro di preparazione dell’iniziativa è stato in larga misura coperto dalla straordinaria dedizione messa in campo dalla nostra socia, e membro del Direttivo, Fonnesu Antonietta. Il conforto di una così bella partecipazione è stato sicuramente il “grazie” più giusto per il suo appassionato impegno


venerdì 1 settembre 2017

La parola del mese - Settembre 2017


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

SETTEMBRE  2017





SERENDIPITA’



serendipità s. f. (dall’inglese serendipity,)
coniato nel 1754 dallo scrittore Horace Walpole che lo trasse dal titolo della fiaba The three princes of Serendip (’antico nome dell’isola di Ceylon, l’odierno Srī Lanka), in cui  si narrano le avventure di tre principi dotati di uno strano dono che permetteva loro di realizzare scoperte per caso. Da qui è passato ad indicare la capacità, o la fortuna, di fare per caso inattese e felici scoperte, specialmente in campo scientifico, mentre si sta cercando altro



Un gruppo di ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma, in collaborazione con la Fondazione Santa Lucia, ipotizza di avere individuato le basi neurali di questo meccanismo misterioso di cui aveva parlato tra i primi il fisiologo Walter Bradford Cannon definendolo come “la facoltà di trovare le prove a sostegno di un’ipotesi in modo del tutto inaspettato, o la capacità di scoprire nuovi fenomeni o relazioni tra fenomeni diversi senza avere avuto l’esplicita intenzione di scoprirli”.  L’esperimento dei ricercatori è consistito nel sottoporre un gruppo di volontari ad alcuni tipici test sull’attenzione presentando su uno schermo, in un punto fisso, una serie di lettere a brevissimi intervalli di tempo. Come è ben noto in questo settore di studi, le persone hanno difficoltà a percepire uno stimolo, per esempio le lettere A ed X, quando sono presentate a un intervallo di tempo inferiore alla soglia di 300 millisecondi da un precedente stimolo. I ricercatori hanno osservato, per la prima volta, che la capacità di percepire coscientemente stimoli che normalmente sfuggirebbero migliora a certe condizioni. In particolare, se gli stimoli “facili” da vedere, quelli dopo l’intervallo di tempo di 300 millisecondi, venivano presentati in modo imprevedibile, senza una particolare regolarità, i volontari miglioravano notevolmente nel percepire anche quelli “difficili”. In pratica, quando non ci sono regole in quello che osserviamo, quando non abbiamo particolari aspettative, diventiamo più bravi a vedere anche quello che di solito non riusciamo a vedere, così come illustrato in estrema sintesi da Fabrizio Doricchi, docente di neuropsicologia e coordinatore della ricerca.  Dalle misurazioni elettrofisiologiche, i ricercatori hanno osservato che il cervello, quando manca la regolarità (per esempio gli stimoli non appaiono a intervalli fissi) mantiene più a lungo la traccia sensoriale del secondo stimolo. L’immagazzinamento e l’elaborazione degli stimoli nella corteccia visiva dura di più. Un po’ come se il cervello mettesse in atto questo trucco di aumento dell’attenzione per ovviare al fatto che non sa bene cosa aspettarsi. E questo sarebbe proprio il legame con le descrizioni della serendipità che sono state fatte anche da un punto fisiologico: uno stato di attenzione vigile e ricerca attiva, ma senza aspettative precise. Quando cerchiamo ma senza sapere bene che cosa, è più facile che ci accorgiamo di qualcosa che altrimenti ci sarebbe sfuggito.