martedì 9 gennaio 2018

A proposito di “opera d’arte” - di Fagiano Giancarlo


A proposito di “opera d’arte”

 Note a margine della lettura
 di un saggio di Giorgio Agamben


N.B. = L’idea iniziale era di pubblicare un commento in calce alla sintesi del seminario sul movimento Bauhaus, ma la lettura del saggio di Agamben ha talmente arricchito le scarne impressioni personali originali da rendere le dimensioni di queste note incompatibili con lo spazio di un commento. Preciso che le parti in corsivo blu sono estratti testuali dal testo di Agamben

Nel corso dell’ottima relazione tenuta da Valter Alovisio sulla esperienza artistica del movimento Bauhaus, e del successivo dibattito, è stato giustamente richiamato il saggio di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica”. Un saggio che a molti decenni dalla sua pubblicazione ancora mantiene la capacità di offrire una importante chiave di lettura sul concetto di “opera d’arte” così come è radicalmente evoluto nella nostra epoca.
E’ con evidente richiamo all’opera di Benjamin che Giorgio Agamben (A) ha intitolato il suo ultimo, breve ma come sempre molto denso, saggio “Creazione ed anarchia – l’opera nell’età della religione capitalistica”.
A differenza di Benjamin A. pur partendo dallo specifico dell’ “opera d’arte” -  il primo capitolo del saggio è infatti intitolato “Archeologia dell’opera d’arte” - allarga la sua riflessione, va da sé prettamente di ordine filosofico, al più generale concetto di “opera” (umana).
Ne presento qui una sintesi limitata però sulle sue riflessioni attorno al concetto di “opera d’arte” per dare seguito agli stimoli di approfondimento sicuramente sorti nei presenti al seminario “Tutto in una sola forma”  in particolare proprio sulla diffusa (?) difficoltà, sicuramente mia, nel realizzare cosa oggi si possa e si debba intendere per “opera d’arte”.
Si è detto del titolo del primo capitolo “Archeologia dell’opera d’arte”; colpisce l’uso del termine “archeologia”, ma la spiegazione viene fornita già nelle primissime righe ……..l’idea che guida queste mie riflessioni sul concetto di opera d’arte è che l’archeologia è la sola via di accesso al presente…….
Rafforzano questa considerazione la ripresa di una affermazione di Michel Foucault: l’indagine sul passato non è che l’ombra portata di una interrogazione rivolta al presente (in fondo è, molto immodestamente, la ragione che ha fatto intitolare l’attuale programma di Circolarmente “memoria ed emergenze”!) ed il richiamo che A, fa all’Europa dei nostri giorni….l’uomo europeo può accedere alla sua verità solo attraverso un confronto con il suo passato, solo facendo i conti con la sua storia……
Poco più avanti rafforza questo richiamo portandolo proprio nell’ambito artistico…..e se l’arte è diventata oggi per noi una figura, forse LA figura, eminente di questo passato allora la domanda è: qual è il luogo dell’arte nel presente?......
Lo stile di A. è basato sull’uso sapiente del porre domande, del seminare dubbi, introdotti con lucida logica ad crescendum per costruire le proprie tesi. Non a caso quindi arriva un interrogarsi sul senso stesso della denominazione di “opera d’arte”……persino da un punto di vista grammaticale il sintagma “opera d’arte” non è facile da intendere, perché non è affatto chiaro se si tratta di un genitivo soggettivo (l’opera è fatta dall’arte e ad essa appartiene) o oggettivo ( l’arte dipende dall’opera e riceve da essa il suo senso)……
Domanda più che legittima specie in un’epoca, come quella attuale, che ha visto l’opera d’arte spostarsi dalle forme nelle quali era tradizionalmente considerata nei territori della “performance”, dell’attività concettuale, al punto che sempre più spesso appare possibile sostenere che….oggi l’arte si presenta come una attività senza opera……
Secondo A. questa trasformazione si è potuta realizzare (in aggiunta ai meccanismi ed alle logiche evidenziate da Benjamin nel suo saggio) proprio perché non è mai stato affrontato, e quindi sciolto, il nodo di cosa si debba, in ultima essenza, intendere con “opera d’arte”.
In questo senso A. propone un percorso storico dell’evoluzione di questo concetto articolato su tre passaggi a suo avviso determinanti.

Il primo si colloca nella Grecia del V secolo a.C.. al tempo di Aristotele.

Siamo in un’epoca nella quale l’artista viene considerato, alla stregua di un qualsiasi artigiano, ……fra coloro che praticando una tecnica producono cose…..
Aristotele, riflettendo proprio sull’attività del produrre, pone le basi per la prima interpretazione del sintagma “opera d’arte”.
L’attività di “produzione” è per Aristotele di norma costituita dall’insieme di due componenti che in essa si unificano: il momento in sè della produzione (l’atto del produrre)  e il prodotto finale (l’’opera prodotta)….. in tutti i casi in cui viene prodotto qualcosa altro oltre all’uso (l’atto del produrre) l’energeia (termine aristotelico che indica qualcosa che è in opera, in attività, ossia l’atto, e che raggiunge il suo fine proprio, la finalità per cui si è messa in moto, ossia il risultato dell’atto) risiede nella cosa fatta, come l’atto del costruire è nella casa costruita, e quello del tessere nel tessuto …….
Solo nelle attività che non producono opere, quali il vedere, l’udire, il meditare, l’intera essenza della produzione  resta in capo al soggetto che la sta compiendo…..quando non vi è opera allora l’energeia, l’essere in opera, risiederà  nei soggetti (che la compiono) come ad esempio la visione nel vedente……
Tornando allo specifico della produzione artistica non sorprende quindi sapere che, anche sulla base di queste interpretazioni aristoteliche, per i Greci …….l’attività produttiva (artistica)  non risiede nell’artista ma nell’opera e comprendiamo quindi perché i Greci non tenessero in molta stima l’artista (considerato come si è detto alla stregua di qualsiasi artigiano)…………ciò non significa ovviamente che essi non vedessero la differenza fra un calzolaio e Fidia ma, ai loro occhi, entrambi avevano il loro fine fuori di sé stessi, nella scarpa il primo nelle statue del Partenone il secondo….
L’artista non poteva di conseguenza vantare la perfezione di coloro, quali ad esempio i pensatori, i filosofi,  che, contrariamente al suo realizzarsi nell’opera, possedevano in sé stessi, incorporavano in sé stessi, il proprio fine…..l’energeia perfetta è senza opera e ha il suo luogo in chi la pone in atto…..Non a caso erano considerata superiori le attività artistiche senza opera, quali la danza, la musica, la rappresentazione teatrale, rispetto a quelle che sfociano in un’opera (ovviamente da intendersi come “manufatto”), come la pittura e la scultura
Appare però evidente che la concezione di consegnare l’essenza della “produzione” all’agente, incorporandola cioè nell’autore dell’atto e slegandola dal risultato dell’agire, dall’opera realizzata, implica l’insorgere di una possibile contraddizione, peraltro intuita dallo stesso Aristotele.
Se, come si è visto l’artigiano e l’artista, produttori di manufatti, stanno, come conseguenza di questa concezione, un gradino al di sotto di quelle figure di agenti, musicisti e pensatori, che trattengono in sé stessi l’essenza della energeia, si chiede Aristotele,……esiste qualcosa che definisca (l’energeia) dell’uomo come taleoppure l’uomo come tale è privo di energeia….? Aristotele lascia però cadere questa domanda ovvero fornisce una risposta…..l’opera dell’uomo (in quanto tale) è l’energeia dell’anima secondo il logos……che riporta in capo ad una “attività senza opera” la possibile via d’uscita, di fatto non sciogliendo l’aporia, la contraddizione.
Appare infatti evidente che il calzolaio, e l’artista, sarebbero condannati in questo modo a vivere una sorta di scissione…….perchè vi sarebbero in lui due opere diverse una, interiore, che compie in quanto uomo e un’altra, esteriore, che gli compete in quanto produttore…..
(N.B. = le idee aristoteliche sul rapporto fra artista ed opera, al di là dellae loro condivisione o critica, forniscono vari e notevoli spunti di riflessione: Per restare nello specifico della produzione artistica, in particolare quella di manufatti artistici ancora attuata in forme più o meno tradizionali, si possono utilizzare per comprendere il rapporto, soggettivamente intimo, fra artista ed opera? Il suo separarsene da essa dopo la produzione? E quindi, in ultima istanza, il senso dello stesso mercato dell’arte? E cioè la produzione artistica finalizzata al e regolata dal gioco di domanda ed offerta? E qui scatterebbe immediato il collegamento con il saggio di Benjamin sulle trasformazioni indotte dalla “riproducibilità tecnica” dell’opera d’arte. Ma in senso molto più ampio, operazione che per molti versi compie lo stesso Agamben negli altri capitoli del saggio, possiamo utilizzarle per analizzare il senso dell’intera produzione di opere? Delle logiche sottostanti l’atto del creare? Ed ancora, entrando nello specifico della produzione capitalistica, in che rapporto potremmo immaginarle con i concetti marxiani del lavoro alienato? Dell’espropriazione dei mezzi di produzione e del prodotto finale del lavoro? Ovviamente impossibile affrontare, anche solo marginalmente, temi così complessi qui nello spazio di un semplice post già sovraccarico del suo)
La concezione aristotelica dell’opera d’arte, per quanto opinabile, mantiene a lungo una sua egemonia, certamente per tutta l’epoca classica.
L’irruzione rivoluzionaria del Dio cristiano, del legame fra l’unico Dio e l’uomo sua creatura, pongono lentamente le basi per una svolta radicale, fino al suo completo affermarsi nel tardo Medioevo e nel Rinascimento: l’artista vale in quanto tale, finalmente si prende il centro della scena……nella teologia medioevale si fa strada la concezione secondo cui l’arte non risiede nell’opera ma nella mente dell’artista, e più precisamente nell’idea guardando la quale egli realizza la sua opera….
La forza di questa concezione, che pare capovolgere l’idea di opera d’arte, sta nel suo stretto parallelo con la stessa creazione divina. San Tommaso lo spiega ricorrendo a questo esempio ……..come la casa preesiste in forma di idea nella mente dell’architetto così Dio ha creato il mondo secondo l’idea che stava nella sua mente…..
Immediato scatta il collegamento con il ruolo che l’architettura ha avuto nell’esperienza Bauhaus!
Ma,ben al di là di questa considerazione a margine,  la raggiunta indipendenza dell’artista dalla sua opera, il superamento della concezione aristotelica, hanno un prezzo, una ricaduta non meno vincolante.
L’avvenuta separazione fra artista ed opera, con l’energeia che risiede compiutamente nella sua mente, rende paradossalmente l’opera una conseguenza accidentale della sua arte, una semplice testimonianza, per quanto ammirevole ed ammirata, del suo genio creativo ……mentre in Grecia l’artista è un residuo imbarazzante dell’opera nella modernità è l’opera che diventa un residuo imbarazzante dell’attività creativa……
Ma qual è allora il significato di opera d’arte che risulta dalla sua prima interpretazione presa in esame? cosa resta al termine di questo percorso iniziato con Aristotele e concluso da San Tommaso? Secondo A. questa concezione, che ha improntato l’idea di opera d’arte dall’antichità fino agli inizi del Novecento, e che continua a persistere nelle forme tradizionale di produzione artistica, ci consegna un’idea di opera d’arte nella quale, indipendentemente dall’inversione dei fattori, il connubio fra artista, operazione di produzione artistica, opera prodotta resta indissolubile, non smembrabile; l’opera d’arte diventa cioè un unico insieme nel quale….non è possibile svincolare uno dei tre elementi che la compongono senza rompere irrevocabilmente (l’insieme)

Il secondo passaggio si realizza nella Germania degli anni Venti (quelli del Bauhaus e di Benjamin).

Nel 1923 un oscuro monaco pubblica un’opera, “La liturgia come festa misterica”, destinata a creare il cosiddetto “movimento liturgico”.
La prima parte del Novecento è stata non a caso definita “l’età dei movimenti”. Ad esempio così si autodefiniscono, o sono stati definiti, il movimento fascista e quello nazista, il movimento operaio, quello socialista, sindacale, piuttosto che quello psicoanalitico (definito tale da Feud in persona). Lo è anche in campo artistico, come abbiamo visto, c’è il movimento Bauhaus, e “movimento” sono tutte le correnti che si agitano sulla scena.
Il movimento liturgico si muove in ambito strettamente religioso, ecclesiastico, ma ha un provato rapporto con molte avanguardie artistiche. Esso si propone di recuperare l’intima spiritualità del primo cristianesimo alleggerendolo del peso delle costruzioni dogmatiche e permeandolo del coinvolgimento vitale che avevano i “misteri” antichi, quali quelli eleusini che si celebravano nell’antica Grecia.
Ad esempio secondo Casel, così come scrive nella sua opera, il sacrificio eucaristico nella messa ha il suo significato non nella commemorazione della morte di Cristo ma nel fatto stesso di rappresentarla, di riviverla………per questo l’azione liturgica agisce per il fatto stesso di essere compiuta in quel momento e in quel luogo indipendentemente dalle qualità morali del  celebrante…..
Esiste una connessione fra questa concezione “misterica” e le avanguardie artistiche che in quegli stessi anni Venti stanno per stravolgere il concetto di “opera d’arte”? Secondo A. questo legame esiste e non solo per le conoscenza e la vicinanza di alcuni artisti verso di esso.
Lo era già in nuce qualche decennio prima nella scelta stessa del nome che alcuni movimenti si sono dati, scegliendo per l’appunto nomi alquanto vaghi quali “simbolismo”, “ estetismo”, “ decadentismo”.
Ma nel momento storico in cui, Benjamin docet, la produzione artistica assume i caratteri di “serialità”, di riproducibilità tecnica, si afferma una sorta di reazione che porta artisti (non solo pittori e scultori, ma anche poeti, A, cita ad es. Mallarmè) a vedere la loro pratica artistica……come la celebrazione di una liturgia…in quanto comporta una dimensione in cui sembra essere in questione la salvezza spirituale dell’artista….in .quanto (rappresenta) una dimensione performativa in cui l’attività creativa assume la forma di un vero e proprio rituale…..
Così come per il movimento liturgico la liturgia vale per sé stessa in quanto rappresentazione del movimento salvifico del cristianesimo così l’azione dell’artista, e conseguentemente il concetto di opera d’arte, inizia ad assumere i caratteri di una liturgia che coincide con la propria celebrazione.
Ancora una volta A. fa comparire in scena Aristotele, il quale aveva distinto il fare, che mira alla produzione, all’opera, dal fare che ha in sè stesso il suo fine (la praxi); fra questi due idee del fare, il movimento liturgico e le avanguardie che puntano alla   performance ….insinuano un ibrido terzo in cui l’azione stessa (il fare stesso) pretende di presentarsi come opera…..

Il terzo momento si presenta non in ordine cronologico, ma come sviluppo logico: occorre infatti  tornare alla New York del 1916.

E’ qui, ed in questo anno, che Marcel Duchamp inventa il ready-made (presto-fatto).
……cosa fa Duchamp per far esplodere la macchina opera-artista-operazione?......ossia quella idea di opera d’arte che a suo avviso stava bloccando la stessa creazione artistica? Quella…..macchina artistica che (stava per raggiungere) nella liturgia delle avanguardie la sua massa critica (il suo limite esplosivo)…..?
Conosciamo l’operazione compiuta da Duchamp: prendere un qualsiasi oggetto, una qualsiasi opera, della quotidianità (il famoso orinatoio) e attribuirgli, esponendolo in un museo, il rango di “opera d’arte”.
Come legge A., attraverso i suoi filtri filosofici, questa operazione di ulteriore, definitiva, ridefinizione del concetto di “opera d’arte”?
 …..Duchamp non agisce come artista, ma come filosofo, come (così si autodefiniva) uno che respira…..l’opera d’arte così reinterpretata non sta più né nell’opera, né nell’artista, nel nell’atto di realizzarla, ma soltanto nella sua istituzionalizzazione, nel collocarla in un luogo che del suo le conferisce un tale rango, l’’opera d’arte è quindi un luogo…..il museo che acquista a questo punto un rango ed un valore decisivi…..
Era inevitabile che questa radicale trasformazione si prestasse, per le sue stesse caratteristiche, a stravolgimenti di scarso valore, tanto consapevoli dei fini mercantilistici di guadagno, quanto inconsapevoli del significato vero dell’operazione. Per realizzare, in un modo piacevolmente ironico e divertente, il senso di questa definizione di “opera d’arte” si consiglia la visione del film “The square”, recentemente uscito dopo aver meritatamente vinto la Palma d’Oro a Cannes.
Quale considerazione finale ci consegna a chiusura Agamben?
Quella di…… abbandonare la macchina artistica al suo destino…..e con essa l’idea che vi sia una suprema attività umana (la produzione artistica) che tramite un soggetto (l’artista) si realizza in un’opera (l’opera d’arte) in una energeia che traggono da essa un incomparabile valore……
In parole povere, quelle però di un filosofo, l’arte, l’’opera d’arte, intesa come “atto straordinario”, di fatto non esiste!!!!!
Spogliata della sua “aura” (concetto che Benjamin abbina a quella tradizionale)  l’opera d’arte recupera forse una sua “umanità” più accessibile e più comprensibile. Perlomeno per me.

Fagiano Giancarlo

mercoledì 3 gennaio 2018

La parola del mese - Gennaio 2018


La parola del mese
 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni


Gennaio 2018

Fra pochi mesi gli elettori italiani saranno chiamati a votare per il nuovo Parlamento e, conseguentemente, per il muovo Governo. E’ molto lungo e complesso l’elenco delle questioni sul tappeto - in campo economico, sociale, politico, interne ed internazionali - sulle quali dovrebbe avvenire il confronto elettorale fra i partiti e le coalizioni. L’augurio è ovviamente quello di un dibattito magari acceso ed aspro ma decisamente orientato ad “entrare nel merito”, ossia il più possibile capace di fornire sullo specifico di tali questioni elementi utili agli elettori per capire le diverse proposte politiche e, su queste basi, per esprimere un voto “ragionato”. Va da sé che è presso che impossibile che la prossima compagna elettorale risponda a questo augurio.  Sono già iniziati il balletto delle promesse, insostenibili ed irrealizzabili, il gioco a “demolire l’avversario”, magari ricorrendo alle “bufale” (Parola del Mese di Dicembre 2016), la personalizzazione della proposta politica incentrata sulla figura del “leader”. Si muovono in questo quadro, per altro in linea con quello di buona parte delle democrazie occidentali, alcune tendenze di fondo che da tempo sembrano caratterizzare le crescente crisi della democrazia, delle istituzioni, delle forme di rapporto tra elettori ed eletti, dei meccanismi di creazione e raccolta del consenso. Una di queste tendenze, l’Oclocrazia, è stata la Parola del Mese di maggio 2017. Lo è anche la parola scelta per questo mese di Gennaio 2018:



Gentismo

gentismo (dal Vocabolario on-line Treccani) = s. m. (derivato dal s. f. gente con l'aggiunta del suffisso -ismo.) Atteggiamento politico di calcolata condiscendenza verso interessi, desideri, richieste presuntivamente espressi dalla gente, considerata come un insieme vasto e, sotto il profilo sociologico, indistinto

per meglio entrare nei risvolti del suo significato abbiamo raccolto alcuni stralci di opinioni ed interpretazioni seguendone l’evoluzione nel tempo

·      Il 'populismo' sarebbe però diventato in realtà, e non solo in Italia, per usare un orrendo neologismo, 'gentismo', e cioè trionfo dell'indistinto, dell'omogeneo sempre mutevole, del 'senza radici'. Si sarebbe infatti affermato, secondo i sociologi, che già da tempo ragionano di "folla solitaria", il regno della moltitudine, frutto della globalizzazione (o mondializzazione) che fa implodere le masse, affossa le appartenenze, deterritorializza, produce sradicamento e spaesamento. (Bruno Bongiovanni, Treccani.it, Enciclopedia delle scienze sociali, 1996, s. v. Populismo)

   Oggi si tratta di blandire la gente, di parassitarne gli umori, di imitarne le pulsioni. Il gentismo è la vera e trionfale novità introdotta da Berlusconi in politica, tal quale il Mike Bongiorno ritratto da Eco egli è in grado di far sentire intelligente e utile anche l'ultimo dei fresconi. Si chiamava demagogia, ora si chiama marketing. (Michele Serra, Repubblica, 8 maggio 2002, p. 14, Prima Pagina)

   Il gentismo, malattia infantile del populismo, è tutto intorno a noi. Ormai ha colpito pure Matteo Renzi, fra il taglio alle poltrone ai politici in campagna elettorale per il referendum e il “lavoro di cittadinanza” di oggi. (David Allegranti, Foglio.it, 1° marzo 2017).

·      La neolingua capitalistica procede in modo solo apparentemente paradossale. Per un verso, inaridisce e sterilizza il lessico, in quanto impone una galassia semantica composta da un “numero chiuso” di termini il cui scopo è sempre il medesimo: glorificare i rapporti di forza sempre più asimmetrici del capitalismo liquido-finanziario e ostracizzare aprioricamente ogni possibilità di pensare e dire altrimenti. Per un altro verso, in modo apparentemente antitetico, viene arricchendosi di sintagmi e locuzioni che rinsaldano sempre più l’ordine simbolico egemonico di santificazione del nuovo ordine reale del capitalismo americano-centrico globalizzato post-1989. E, così, nel proliferare delle nuove locuzioni con cui viene arricchendosi la neolingua liberista v’è un termine di nuovo conio su cui vale la pena soffermare l’attenzione, sia pure cursoriamente: “gentismo” è la nuova figura concettuale forgiata dai padroni delle grammatiche dominanti. Organica alla Destra liberista-finanziaria del Danaro, la Sinistra liberal-libertaria del Costume ha, per questa via, coniato una nuova categoria per demonizzare ogni anelito delle classi nazionali-popolari dei lavoratori: “gentismo” è la nuova etichetta con cui il pensiero unico politicamente corretto ostenta il suo disprezzo per la gente comune, per i lavoratori, per le masse nazionali-popolari, irredimibilmente colpevoli di volere un posto di lavoro e dignità sociale, protezionismo economico e più Stato, e poco attente ai matrimoni gay,  al culto dell’immigrazione di massa, al veganesimo modaiolo, al genderismo militante e alle richieste femministe. “Gentismo” dice il disprezzo della aristocrazia finanziaria dominante per la gente comune, proprio come “populismo” esprime l’odio palese che suddetta aristocrazia mondialista prova per il popolo realmente dato. È bene decostruire la neolingua, svelando gli occulti rapporti di forza che essa nasconde e legittima. (Diego Fusaro – Il Fatto Quotidiano del 14/10 /2017)

·      La rete è ormai precipitata sulla terra. L’uso superficiale del mix di linguaggi vecchi e nuovi – che chiamiamo per semplicità web 2.0 – è arrivato in strada, ha contagiato un pezzo di mondo intellettuale, colonizzato il confronto politico mainstream, ha smesso di essere soltanto una bolla virtuale. Di questi fenomeni si occupa La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, libro con cui il giornalista Leonardo Bianchi raccoglie anni di studi e osservazioni di un fenomeno che, adottando una definizione ancora sperimentale ma urgente, viene chiamato «gentismo». Bianchi parla di un tema globale, è impossibile non pensare alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Ma nel paese che ha inventato la Lega e Berlusconi, questa storia assume caratteri peculiari. Il titolo rimanda direttamente a «La Casta», il mega-seller figlio di una campagna stampa messa in piedi anni fa dal Corriere della Sera. Secondo alcuni testimoni, il tutto era funzionale alla discesa in campo dell’ennesimo imprenditore da contrapporre ai «politici di professione». Come è noto, se ne avvantaggiarono Grillo e Casaleggio, che rimodularono la loro comunicazione sui temi degli sprechi della politica corrotta. Se già è difficile definire il concetto di populismo, non è affatto semplice cogliere l’essenza del gentismo. Obbligati ad una certa approssimazione, diremmo che se il populismo è la capacità di costruire un popolo sul quale poi esercitare sovranità, il gentismo è una sua variante. Muove i primi passi nelle piazze microfonate inventate da Michele Santoro ai tempi di Tangentopoli e poi traslocate nei preserali a tema unico (immigrati e rom) di Mediaset come dai comizi su YouTube di leader autoproclamatisi voce della «gente». Il capo gentista usa i media per dialogare col suo popolo, ma è al tempo stesso consapevole del fatto che il suo discorso è impossibile da disarticolare perché non ha, e non può avere, nessuna linearità. È una narrazione sincretistica e disarmonica, priva di ogni consequenzialità. Solo così, ad esempio, è possibile spiegare per quale motivo Yair Netanyahu, figlio del premier israeliano, abbia potuto diffondere via social la paccottiglia antisemita sul miliardario ebreo Soros come burattinaio occulto del mondo. O capire come, per tornare in Italia, ad un convegno sui beni comuni si sia finiti a discutere anche della bufala della Hazard Circular, una lettera tra banchieri scritta al tempo dell’abolizione della schiavitù negli Usa, che conterrebbe il disegno del governo della moneta come forma più sottile e subdola di sottomissione. Il gentista può infischiarsene delle contraddizioni, attinge dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, si appiglia ai cardini del liberalismo e al tempo stesso sventola lo spettro di una qualche dittatura stalinista e/o nazista. Grazie alle micro-nicchie di cui è composto l’audience cui ogni gentista si rivolge, il suo argomentare sarà composto da brandelli di storie rimescolate alla bisogna. Siamo oltre le fake news: è lo spappolamento della verità.  Il tema comporta due rischi, opposti e speculari, che Leonardo Bianchi evita con perizia. Da un lato, si potrebbe cedere alla tentazione di porsi su di un piedistallo, inarcare il sopracciglio e giudicare con scalpore lo sgrammaticare della «ggente». D’altro canto, c’è il pericolo parallelo di blandire questa parodia della rivoluzione. Questo secondo atteggiamento, a ben vedere, è ancora più elitario del primo, è animato dalla pretesa di indirizzare gli umori della gente dall’alto di una qualche posizione d’avanguardia, manovrando le leve della comunicazione e della tattica. Bianchi bada all’osso, come quando ripercorre l’origine del fantomatico Piano Kalergi, volto a sostituire le popolazioni occidentali con masse di schiavi meticci. Fino a pochi anni fa argomento da neonazisti, oggi quel testo viene citato con piglio serioso dal sedicente marxista Diego Fusaro (vero filosofo del gentismo, apprezzato da xenofobi e indignati qualunque, ben introdotto nei salotti televisivi e pubblicato dalle grandi case editrici progressiste). Si sarà capito: questo non è un libro sul web o sulla comunicazione, contiene pagine scritte sull’asfalto rovente, che raccontano il tentativo neofascista di prendersi le periferie romane modulando il discorso gentista. Dulcis in fundo, documenta le tattiche gentiste sul web di certa comunicazione renziana. Ennesima prova del fatto che i primi gentisti non erano bizzarri agitatori ma pionieri esponenti di una nuova mutazione della politica dopo la fine della rappresentanza (Giuliano Santoro – Il Manifesto del 24/12/2017,  articolo di presentazione del libro La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, di Leonardo Bianchi)