venerdì 23 febbraio 2018

Una miniera di geni indiani - articolo segnalato da Antonietta Fonnesu


Una miniera di geni indiani

Articolo di Silvia Bencivelli – Le Scienze del 10/02/2018

Le banche dati genetiche rappresentano soprattutto europei e statunitensi, per questo l’indiano Sumit Jamuar, co-fondatore e amministratore delegato di Global Gene Corporation, vuole sequenziare il DNA dei suoi connazionali. Il suo obiettivo è "democratizzare la genomica" e riequilibrare le disuguaglianze nell'accesso ai risultati della ricerca medica più avanzata



Sulla Terra, un essere umano su cinque è indiano. Ma nelle banche dati genetiche, è indiano solo un DNA su 500. Anche Sumit Jamuar è indiano: co-fondatore e amministratore delegato di Global Gene Corporation, ha deciso di porre rimedio a questa clamorosa diseguaglianza e di cominciare a sequenziare il DNA dei propri connazionali. E non si fermerà lì. C’è una parte di umanità poco considerata, tagliata fuori dai vantaggi della ricerca medica avanzata, sostiene Jamuar. Se questo non sembra abbastanza ingiusto, prosegue, è bene sapere che la democratizzazione della genomica dà grandi vantaggi anche alla parte ricca dell’umanità. Abbiamo incontrato Jamuar al Web Summit di Lisbona e ci siamo fatti spiegare il perché.


Sumit Jamuar partiamo dalla situazione indiana: che cosa significa non essere rappresentati nelle banche dati genetiche?

Possiamo dire che cosa significa essere rappresentati! Significa essere parte di quella fetta di umanità su cui si sta disegnando la medicina di precisione, cioè su cui sta nascendo la medicina del futuro, che dall’attuale modello one size fits all, impreciso e approssimativo, avrà più informazioni sulla predisposizione alle malattie, su come prevenirle, su come scegliere i trattamenti migliori paziente per paziente. Sono queste le grandissime potenzialità che offre oggi la genomica: in particolare si parla di malattie croniche, che sono quelle su cui attualmente, contenute le malattie infettive, si sta investendo sempre di più. Le informazioni raccolte su una parte limitata di umanità potrebbero non funzionare per tutti. In più abbiamo già cominciato a notare che avere un puzzle incompleto è svantaggioso sia per chi è escluso dalle banche dati sia per chi vi è dentro.

Che cosa intende dire?

Ve lo spiego con un esempio. Nel raccogliere i primi dati abbiamo considerato una coorte di indiani sani e ne abbiamo studiato il DNA. Bene, è venuto fuori che il 96 per cento aveva una mutazione che, nella letteratura medica, è considerata tra le cause dell’epilessia. Ma nessuno di loro aveva mai avuto una crisi epilettica! Che cosa significa? Che probabilmente non ci abbiamo capito niente. Che studiare parti omogenee di umanità, e avere banche dati in cui l’80 per cento del DNA è di provenienza caucasica, può portare a errori. Questi sono dati preliminari, tuttavia ci stanno mostrando chiaramente che, anche con le tecniche migliori del mondo, se non hai i dati giusti ti puoi ritrovare coi risultati sbagliati.
Per questo lei sostiene che è arrivato il momento di rimediare.
I numeri sono questi. Il DNA del 60 per cento dell’umanità rappresenta il cinque per cento di quello custodito nelle banche dati del DNA: è il DNA di africani, indiani, altri asiatici, sudamericani. Ma solo quattro o cinque anni fa rappresentava a malapena l’uno per cento, segno che le cose possono cambiare. Noi abbiamo cominciato in India quattro anni fa: non possiamo ancora rendere pubblici i nostri risultati, ma si consideri che più o meno abbiamo già raccolto 10.000 genomi insieme ai relativi dati clinici e consensi informati, e lo abbiamo fatto grazie a importanti collaborazioni con ospedali ed enti di ricerca. Dopo l’India andremo in Sud America, Africa e così via. È il momento giusto per farlo

Perché?
Perché oggi la genetica ha abbattuto i costi: sequenziare il primo genoma è costato circa 2,7 miliardi di dollari. Oggi bastano quattro ore e 1000 dollari, e via via che le tecnologie avanzano le cose si fanno più semplici ed economiche: presto il prezzo sarà intorno ai 100 dollari a persona. Non solo: avanzano le nostre conoscenze nell’ambito dell’intelligenza artificiale, quindi migliorano i nostri strumenti informatici e sappiamo sempre meglio come usare i dati.
Il momento è giusto anche per investire, dunque. Global Gene Corporation è nata nel 2013, ha sede a Singapore e ha il centro di ricerca e sviluppo a Cambridge, in Regno Unito, nel Wellcome Trust Sanger Institute. Perché non in India?

Abbiamo anche una sede in India, a Mumbai: io sono indiano, ho studiato in India e ho investito nel mio paese. Abbiamo anche una sede negli Stati Uniti, a Boston. Tuttavia la nostra è un’azienda e per costruire un’azienda che funzioni c’è bisogno delle professionalità migliori. E il Sanger Institute è uno dei luoghi chiave della ricerca genetica al mondo. Inoltre a Cambridge ho modo di lavorare con professionalità altissime di diversi settori. È una delle cose più belle della genomica, che mette insieme fisici, biologi, informatici e medici.
Lei però non è né genetista né niente di quello che ha nominato: laureato in ingegneria chimica, ha sempre lavorato nella finanza. Perché si è buttato in questa impresa?

Perché sono rimasto affascinato dalle potenzialità della genomica, e mi entusiasma l’idea di che cosa si può fare con questi dati, del salto che potrà fare l’assistenza medica e la prevenzione, la sanità in generale, e anche del fatto che oggi circa il 40 per cento dei farmaci che somministriamo è inefficace; un giorno tuttavia saremo capaci di usarli con precisione. Tra dieci o vent’anni avremo il DNA di tutti i neonati e tutti saranno sequenziati. Nel frattempo dobbiamo costruire banche dati che ci dicano, per esempio, quanto è probabile che un farmaco funzioni o meno. Prendiamo il tumore al polmone non a piccole cellule: se è presente una mutazione del gene EGFR, la chemioterapia funziona circa tre volte su quattro. Se quella mutazione non è presente, funziona solo nel cinque per cento dei casi. Bene, si è scoperto che nelle popolazioni asiatiche la mutazione è più frequente rispetto agli europei, quindi le terapie funzionano meglio. Osservazioni come questa possono aiutare a indirizzare meglio gli investimenti farmaceutici e la ricerca.

Che cosa fate con i dati raccolti? Cioè, l’obiettivo generale è democratizzare la genomica, va bene. Ma in pratica perché un indiano dovrebbe regalarvi il DNA?

Considerate che esistono altre iniziative per la raccolta dei dati genetici nelle parti del mondo finora escluse, ovvero tutte tranne Europa, Stati Uniti e Giappone, ma soprattutto l’Africa. Noi di Global Gene Corporation siamo consapevoli di essere parte di un ecosistema complesso, insomma. Quindi facciamo parte di una coalizione internazionale chiamata Global Alliance for Genomics and Health (GA4GH), che ha più di 500 partner al mondo e che sta lavorando proprio alla ricerca di standard scientifici, ma anche legali ed etici, per usare nel modo migliore i dati genetici dell’umanità. Questo a garanzia di tutti.


Sumit S. Jamuar è presidente e amministratore delegato di Global Gene Corporation (GGC), considerata tra le Next Big Thing dal Cambridge Network.
Prima di assumere gli incarichi alla GGC, Jamuar è stato amministratore delegato di SBICAP (UK), la sussidiaria europea della banca d’investimento affiliata alla State Bank of India, direttore generale di Lloyds Banking Group e consulente per McKinsey & Company. È stato co-presidente dell’iniziativa per l’inclusione finanziaria e il miglioramento della consapevolezza e della protezione dei consumatori promossa dall’agenzia specializzata delle Nazioni Unite per le telecomunicazioni (ITU) in collaborazione con la Bill & Melinda Gates Foundation. Si è laureato in ingegneria chimica all’Indian Institute of Technology di Delhi e ha un MBA dell'INSEAD di Fointainebleau.

Relazione sull’incontro con il professor Maurizio Balistreri a cura di Enrica Gallo


IL FUTURO DELLA PROCREAZIONE

                                          

Nel presentare il relatore, professore di bioetica all’Università di Torino, Massima Bercetti ricorda come sia stato già gradito ospite dell’associazione nella fase iniziale del suo percorso, per trattare argomenti di grande importanza (dai cosiddetti “superumani” alla clonazione) collegati al tema che verrà affrontato nella serata.

Ricorda ancora che questa iniziativa, con quella che seguirà e in cui avremo modo di discutere con la dottoressa Mirella Rostagno di questioni attinenti all’identità sessuale, si colloca all’interno del progetto “Impronte”: un progetto che è stato avviato alcuni anni fa da Rossella Morra, allora assessore alle Pari Opportunità, e che ora viene portato avanti dall’attuale amministrazione allo scopo di proporre riflessioni sulla condizione femminile, attivando buone pratiche di sostegno alle donne.

Dal canto suo, CircolarMente intende mettere in luce in questo primo incontro, grazie alla competenza del relatore e alla sua attitudine al confronto, alcuni scenari che si stanno configurando, in modo che le nostre scelte come cittadini possano avvalersi delle conoscenze necessarie a produrre una maggiore consapevolezza. Ringrazia per questo il pubblico, numeroso nonostante la serata fredda e il cambio di data, notando con piacere la presenza di alcuni studenti e insegnanti.        

                              

 N.B. = per chi volesse approfondire gli argomenti della serata, ricordiamo il testo  pubblicato di recente dal prof. Balistreri: “Il futuro della procreazione umana”– ed. Fandango  



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GLI SCENARI POSSIBILI:



Con un’esposizione particolarmente chiara ed efficace, il prof. Balistreri ha fatto il punto su quello che sta accadendo, o che possiamo ipotizzare come futuribile nel campo della procreazione umana, condividendo col numeroso pubblico le conoscenze e le riflessioni che hanno accompagnato la stesura del testo a cui Massima Bercetti ha fatto riferimento.

Da quel giorno dell’ormai lontano luglio 78 in cui è venuto alla luce la prima bambina concepita in provetta*, risultante cioè non da un rapporto sessuale ma dalla fecondazione in vitro di una cellula uovo da parte di uno spermatozoo, le tecnologie riproduttive hanno avuto un avanzamento impressionante in cui è possibile riscontrare, secondo il prof. Balistreri, alcune linee di tendenza che aprono scenari completamente nuovi: esse paiono infatti portarci non solo verso una sempre maggiore separazione della riproduzione dalla sessualità, già evidente nella cosiddetta riproduzione assistita, ma ancora -  se pensiamo all’ipotesi dell’utero artificiale, lontana per ora dal suo  realizzarsi ma non concettualmente impossibile – ad un vero e proprio sganciamento della riproduzione dal corpo, senza contare la possibilità di concepire da soli, che potrebbe essere resa fattibile dalle ricerche sui gameti artificiali, ottenuti cioè dalle cellule del corpo.

Seguiamo dunque il percorso illustrato dal relatore, che ci presenta quelle nuove tecniche riproduttive che  potrebbero in futuro rendere del tutto realistiche queste possibilità:

1. La possibilità di separare la  riproduzione  dalla sessualità

Cominciamo dal primo punto. Sappiamo bene che dopo quella nascita che è apparsa allora tanto foriera di speranze quanto di sgomento e che ha suscitato pertanto un dibattito molto intenso (alle preoccupazioni per la salute dei bambini così concepiti si accompagnavano infatti, almeno in una parte dell’opinione pubblica, oscuri timori di una  loro riduzione a oggetti), le resistenze sono andate via via scemando, tanto è vero che la riproduzione assistita è diventata oggi una pratica non solo socialmente accettata ma relativamente comune, anche se ancora la maggior parte dei concepimenti  deriva  direttamente da un rapporto sessuale.

Il prof. Balistreri ritiene peraltro che in un futuro non troppo lontano potremo considerare la riproduzione assistita decisamente più adeguata e vantaggiosa per il nascituro. Ad aprire questo nuovo scenario è sicuramente lo sviluppo dell’ingegneria genetica che permette (o per meglio dire potrebbe presto permettere, visti i risultati della sperimentazione sugli animali) di intervenire sul codice genetico dell’embrione, per correggerne le eventuali anomalie, renderlo più resistente a certe malattie o alla fatica, o ancora per potenziare alcune capacità cognitive o empatiche.

Anche oggi in effetti abbiamo già la possibilità di controllare lo stato di salute dell’embrione attraverso una diagnosi prenatale, rendendo possibile un’eventuale interruzione di gravidanza nel caso si riscontrino gravi anomalie; quando poi si ricorre alla procreazione assistita, dove la legislazione lo permette è possibile produrre un certo numero di embrioni e selezionare quelli che non presentano anomalie, o che mostrano di avere il migliore corredo genetico.  

La possibilità di intervenire puntualmente sul codice genetico del nascituro aprirebbe peraltro scenari completamente inediti, facendo emergere l’idea che la riproduzione in laboratorio potrebbe essere in effetti più vantaggiosa di quella sessuata (si può agire nel momento stesso del concepimento,  senza fare interventi invasivi all’interno del grembo materno). Si potrebbe giungere addirittura in futuro a considerare scarsamente responsabile chi scegliesse di riprodursi sessualmente, esponendo il nascituro a rischi maggiori (a questo proposito il prof. Balistreri apre una parentesi letteraria ricordando come ne “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley – uno dei più famosi racconti distopici della narrativa novecentesca - solo i selvaggi che abitano nelle zone più remote del pianeta continuino a concepire sessualmente, mentre gli abitanti del mondo civilizzato vengono letteralmente “coltivati” in appositi laboratori in modo da evitare qualunque esposizione al caso).

2.  La possibilità di concepire da soli

Con il tema dei gameti artificiali - cioè dei gameti che possono essere ottenuti a partire da una qualunque cellula del nostro corpo - il prof. Balistreri apre un secondo importante scenario, a cui nel suo testo ha dedicato una particolare attenzione.

Come sappiamo, fino ad oggi le persone che non hanno a disposizione cellule uovo o spermatozoi adatti alla riproduzione devono dipendere da un donatore esterno. Ci potrebbe essere invece in futuro la possibilità di ottenerli direttamente dal proprio corpo: le sperimentazioni condotte finora sugli animali hanno infatti dato  ottimi risultati (il prof. Balistreri cita la recente nascita di alcuni topolini in cui a fecondare la cellula uovo sono stati gli spermatozoi ottenuti dalla coda di altri topi).

In effetti, se è vero che ancora non abbiamo la possibilità di produrre gameti maturi utilizzabili per la riproduzione assistita a partire da cellule prese da una qualunque parte del corpo umano, si immagina che un giorno questo possa davvero diventare fattibile, consentendo a ciascuno di noi, uomo o donna,  di poter contare su di una scorta inesauribile di gameti, vita natural durante; e ancora, si ipotizza, sempre a partire dalle ricerche in corso, che si possano produrre non solo gameti del nostro stesso genere, ma anche dell’altro sesso (sia spermatozoi che cellule uovo, dunque). In questo modo il nascituro deriverebbe il proprio codice genetico da un’unica persona (già con la clonazione del resto questo è possibile, consistendo essa nel trasferimento del DNA nucleare di una cellula del corpo in una cellula uovo privata precedentemente del suo DNA).

Questo significa che una donna, lasciando trasferire il suo DNA nucleare in una cellula del suo corpo, potrebbe concepire da sola, avendo a disposizione le sue cellule uovo: cosa che per gli uomini non sarebbe possibile, perché si dovrebbero utilizzare cellule uovo che pur private del DNA nucleare conserverebbero comunque alcuni geni legati al DNA mitocondriale. Ma in futuro?

Qui si aprono davvero scenari fino ad ora impensabili, osserva il prof. Balistreri: se diventasse possibile ottenere delle cellule uovo dalle cellule del corpo di un uomo, anche gli uomini potrebbero concepire da soli,  passando ai figli un corredo genetico derivato esclusivamente da loro. La parità dei sessi, dunque, diventerebbe sotto questo aspetto effettiva! Certamente tutto questo cambierebbe completamente il nostro stesso concetto di genitorialità. In futuro a genitorialità singolari, fino ad ora impensabili, si potrebbero infatti affiancare anche forme multiple di genitorialità, perché ci potrebbero essere più persone che contribuiscono al codice genetico del nascituro dando magari vita a genitorialità “allargate”, gestite cioè da più persone disposte a condividere un progetto genitoriale.

Sono cambiamenti che possono apparirci alquanto inquietanti, ma secondo il prof. Balistreri alcune di queste tecnologie che oggi magari ci sembrano incompatibili con la nostra umanità potrebbero assumere ai nostri occhi, in futuro, una valenza socialmente ed eticamente accettabile, com’è accaduto nel caso della fecondazione assistita. Detto questo, discutere sulla liceità etica di queste pratiche e sui problemi che ne possono derivare è non solo opportuno ma necessario, anche se prima di affrontare tali questioni c’è ancora un altro importante scenario da prendere in considerazione.

3. La possibilità di separare la riproduzione dal corpo

 Fra le possibilità che potrebbero cambiare fortemente il nostro modo di pensare e di attuare la riproduzione, quella del cosiddetto “utero artificiale” non si limiterebbe a separare la riproduzione dalla sessualità, come già avviene nella riproduzione assistita - in cui l’embrione prodotto in laboratorio viene comunque reinserito nel corpo della donna che porterà a termine la gravidanza - ma verrebbe a determinare un vero e proprio “sganciamento” della riproduzione dal corpo.

Si tratta di una prospettiva possibile? E se tale, quali vantaggi o problemi potrebbe recare?

Seguiamo ancora il prof. Balistreri che illustra questo nuovo scenario, pur considerando che l’utero artificiale sembra essere una prospettiva alquanto lontana. Se peraltro consideriamo da un lato, come il relatore ci invita a fare, quanto sta avvenendo nella pratica medica, in cui grazie allo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate è possibile ora far sopravvivere feti molto prematuri (scendendo al di sotto del limite di quelle trenta settimane che fino a pochi anni fa sembrava non superabile), e dall’altro osserviamo quanto si sta facendo nei laboratori dove si seguono le fasi iniziali della vita embrionale, questa possibilità appare decisamente meno remota.

Per adesso, spiega il prof. Balistreri, noi siamo in grado di tenere in vita un embrione separato dal grembo materno per un periodo di circa quattordici giorni: un termine che peraltro potrebbe in linea di massima aumentare, se questo non fosse tassativamente vietato dalla legge per motivi etici, nonostante sia stata fatta da parte di molti ricercatori la richiesta di prolungare il termine a 21 giorni per permettere la ricerca su embrioni più maturi.

In linea teorica dunque potremmo anche considerare fattibile la possibilità di tenere gli embrioni in vita  più a lungo, colmando questa distanza: se si riuscisse a far crescere in laboratorio embrioni di tre o quattro settimane, e se dall’altro lato si accorciassero ancora i tempi di sopravvivenza dei prematuri, l’utero artificiale diventerebbe possibile, dal momento che le difficoltà maggiori in genere si verificano nelle prime fasi di un percorso, per poi decrescere (alcuni esperimenti fatti su animali  verrebbero a confermare  la possibilità di far crescere un feto in un ambiente diverso da quello materno: il prof. Balistreri cita in particolare  il caso del feto di una pecora, estratto molto prematuro dal corpo della madre, che è stato fatto sopravvivere per alcuni giorni, fino alla nascita, in una sacca piena di una sorta di liquido amniotico).

Naturalmente possiamo, anzi dobbiamo chiederci quali conseguenze porterebbe lo schiudersi, accanto a quelli delineati in precedenza, di questo ulteriore scenario in cui la riproduzione si separa addirittura dal corpo. Se questo avvenisse, osserva il prof. Balistreri, si realizzerebbe intanto una piena uguaglianza riproduttiva fra uomini e donne: potrebbero infatti, i primi, decidere di avere un figlio come e quando vogliono, senza dipendere da una donna, mentre le seconde non sarebbero più costrette ad affrontare da sole la responsabilità di mettere al mondo un figlio per la coppia. Si aprirebbero inoltre possibilità finora impensabili per le coppie dello stesso sesso, che se maschili devono ricorrere non solo alle cellule uovo di una donatrice, ma al corpo di una donna disponibile a portare avanti la gestazione, mentre le donne devono comunque ricorrere ad un donatore esterno. Pensiamo ancora, e non come cosa ultima, alla possibilità che un utero artificiale offrirebbe alle donne che hanno difficoltà nel condurre la gestazione…

Se questi vantaggi, secondo il prof. Balistreri, non devono essere sottovalutati, non possiamo certo evitare di porre la nostra attenzione sui rischi e sui problemi che queste pratiche potrebbero comportare. Per questo  affronta ora questo piano del discorso, chiarendo in primo luogo qual è la situazione attuale di alcune delle ricerche cui si è fatto accenno.

UN QUADRO DI GRANDE COMPLESSITA’:

C’è anzitutto da considerare il problema della sicurezza delle tecnologie, su cui si fonda parte dei timori per quello che potrebbe accadere a chi nasce grazie ad esse.

Pensiamo, per fare un esempio, alla clonazione che benché sia una tecnica ormai ampiamente collaudata sugli animali, con buone percentuali di successo, non è ancora considerata abbastanza sicura per essere applicata nel concepimento di un essere umano, pur essendoci virtualmente la possibilità di impiantare degli embrioni prodotti per clonazione nel corpo di una donna. In effetti, come spiegherà più oltre il prof. Balistreri in risposta ad un intervento del pubblico, non si può escludere che qualcuno ci abbia già provato, dal momento che noi non abbiamo il controllo di quanto avviene in laboratori situati in paesi dove l’obbligo della trasparenza scientifica può essere disatteso o aggirato (bisogna dire peraltro che sulla parola “clone” gravano a suo giudizio alcune idee non corrette: se anche ci fosse in alcuni il desiderio di riprodurre il codice genetico di altre persone, in realtà non è possibile “ricrearle”: chi nascerà lo farà in un contesto diverso, avrà altre relazioni significative,  non sarà mai identico ad un altro, né sul piano fisico né sul piano della personalità).

Ma torniamo al discorso sullo stato dell’arte delle tecnologie riproduttive su cui si sta lavorando. Per alcune di esse – pensiamo in particolare alla partenogenesi umana, cioè alla possibilità di far sviluppare un essere a partire dal solo ovocita – non ci sono ancora risultati apprezzabili, tanto è vero che questo tipo di ricerca è stato per il momento accantonato. Non si è dato infatti il caso di alcun embrione prodotto solo da una cellula uovo che sia stato in grado di svilupparsi in un individuo adulto: è dunque qualcosa che assomiglia ad un embrione, senza esserlo compiutamente.

Proprio  per la loro caratteristica di incompiutezza si è pensato qualche anno fa, in un laboratorio milanese,  di poter utilizzare gli embrioni ottenuti stimolando una cellula uovo, denominati “partenoti”, per produrre cellule staminali embrionali, dal momento che la nostra legislazione non consente  la ricerca sugli embrioni completi perché essa comporterebbe la loro distruzione (il prof. Balistreri ricorda che le cellule embrionali staminali sono considerate assai preziose, perché possono essere coltivate e moltiplicate all’infinito producendo tutti i tipi di tessuto). E’ proprio su tali questioni, in effetti, che è possibile rendersi conto dell’estrema complessità del quadro su cui si sta lavorando. Se un tempo definire l’embrione era facile – il prodotto della fecondazione di una cellula uovo da parte di uno spermatozoo – ora è assai difficile farlo, perché in realtà c’è pochissima differenza fra una cellula uovo fecondata e una qualunque cellula del nostro corpo. In entrambe è presente infatti un codice genetico completo, che nelle giuste condizioni potrebbe dare vita ad un nuovo individuo (pensiamo, dice il prof. Balistreri, a quelle contenute nei nostri capelli, che in effetti non abbiamo alcun problema a tagliare, non pensando certo di stare uccidendo degli embrioni…).

Fatte salve queste considerazioni, il relatore conviene sulla necessità di muoversi, in questo campo, con la giusta circospezione, ma senza eccessi di paura. Occorre a suo giudizio porre fiducia nella plasticità della nostra natura, nella capacità che abbiamo di confrontarci con scenari nuovi valutando i vantaggi che tecniche per ora inconsuete potrebbero portare alla procreazione, tenendo conto dell’evoluzione della mentalità  che abbiamo noi stessi potuto riscontrare in questi ultimi anni (pensiamo a quanto sarebbe apparsa impensabile, fino a non molti anni fa, una legge di civiltà come quella che consente ora a due persone dello stesso sesso di convivere legalmente e di adottare, in qualche caso di poter avere figli che comunque nasceranno ormai in questo nuovo scenario culturale e il cui il modo di rapportarsi con tali questioni sarà certamente diverso dal nostro).



IL DIALOGO CON IL PUBBLICO:



Dopo questa introduzione, in cui sono stati forniti molti e importanti elementi di discussione, il prof. Balistreri apre il dialogo con un pubblico che lo ha seguito con grande attenzione e che ora lo sollecita, attraverso domande e riflessioni, a rispondere alla richiesta già posta in prima battura dalla presidente dell’associazione: quella cioè di chiarire, rispetto alle pratiche, alle tecnologie, alle trasformazioni in atto, se esse siano da considerare solo come cose che “emergono”, cioè che accadono e di cui dobbiamo semplicemente prendere atto, o se invece si profilino dei pericoli e in questo caso, quali criteri di giudizio ci può fornire il discorso bioetico. Ci permettiamo qui di riassumere, accorpandoli, sia gli interventi del pubblico che le riflessioni del relatore, non potendo trasferire nel testo scritto la ricchezza del confronto reale.

Le questioni poste:

C’è stato intanto, soprattutto da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle le lotte che le donne hanno condotto per separare la sessualità dalla riproduzione, il riconoscimento positivo delle opportunità che sono venute dalla ricerca sulla procreazione assistita, anche se a chi ormai ha una certa età può accadere di considerare con un certo sgomento l’idea di una molteplicità di figure familiari, per come si è configurata nel discorso del prof. Balistreri…

Nella maggior parte degli interventi vengono comunque evidenziati i vari problemi che si presentano, perché è soprattutto rispetto ad essi che si desidera il confronto con il relatore. In particolare viene posto il tema del controllo decisionale, che si trova a fronteggiare un quadro globale di grandi disuguaglianze nelle condizioni di vita, nel tasso di crescita demografica, nell’orientamento politico e sociale. Sappiamo bene che ci sono paesi molto diversi dalle nostre democrazie occidentali, in cui le scelte governative possono anche non tenere conto di particolari vincoli (pensiamo in particolare alla Cina, la cui politica del figlio unico imposta per legge ha condizionato pesantemente le scelte riproduttive, per produrre poi guasti difficilmente sanabili; o ancora, per riportarci a noi – come viene messo in rilievo da un altro intervento -  il fatto che manchi un quadro legislativo unitario anche a livello europeo,  per cui si può tranquillamente fare appena fuori dai nostri confini ciò che magari non è consentito in Italia). Ci si interroga quindi su come si possono far crescere i meccanismi decisionali, tanto più importanti in un momento in cui le tecnologie stanno diventando sempre più potenti: tecnologie, fra l’altro, che tendiamo a considerare come “neutre”, in modo asettico, senza in realtà ben sapere chi le attua, chi le controlla, quali interessi economici le muovono…

E ancora, si sottolinea la necessità di regolamentare le molte questioni sul tavolo, cominciando dalla sperimentazione sugli animali che è ora un campo totalmente aperto, ponendo attenzione alla direzione che potrebbe prendere la ricerca, soprattutto quella legata all’ingegneria genetica (si cita a questo proposito un recente e corposo provvedimento dell’Unione Europea in cui si cerca di regolamentare gli interventi sull’intelligenza artificiale). In linea con quest’ultimo tema, altri interlocutori richiamano la necessità di costruire un modello di ragionamento sulla liceità di certi interventi, facendo crescere la responsabilità morale di fronte ad una ricerca che di per sé non si arresta e che ha oggi possibilità prima impensabili: cosa che chiama in causa, come giustamente viene ricordato da un successivo interlocutore, il controllo dell’evoluzione della nostra specie, la cui direzione è sempre meno affidata alla natura.

Gli interventi del relatore:

Nella sua risposta, o per meglio dire nei successivi interventi che via via si snodano attraverso il dialogo con i vari interlocutori, il prof.  Balistreri accoglie le loro sollecitazioni cercando di chiarire non solo la sua posizione personale, ma anche di indicare qual è in generale la direzione del dibattito bioetico.

Più che discutere sulla naturalità o meno di certi procedimenti, che è ormai questione annosa, si pone oggi una particolare attenzione sui problemi di giustizia che vengono necessariamente a determinarsi con queste nuove tecnologie, a suo parere portatrici di grandi opportunità, ma comunque non facili da arginare, qualora lo si volesse, per le forti aspettative e gli interessi in campo. La preoccupazione bioetica si appunta pertanto soprattutto sulla loro accessibilità: se noi pensiamo alle tecniche di intervento sul genoma umano, che potrebbero essere usate per correggere le anomalie genetiche, evitare certe malattie, ma anche – almeno così si ipotizza – per potenziare le nostre risorse fisiche e mentali, dobbiamo avere ben presente il rischio che solo una parte della popolazione possa goderne i benefici. Non è irrealistico infatti pensare che esse potrebbero determinare invece un ulteriore aggravamento delle disuguaglianze già presenti, e addirittura produrre un sistema castale, dando luogo a prospettive di vita fortemente differenziate. Il problema è enorme, e giustamente è stato richiamato il tema del controllo sulla nostra evoluzione come specie.

Come gestiremo – si domanda il prof. Balistreri – queste nuove opportunità a livello globale? Come potremo garantire l’accesso di tutti alle cure e a una condizione genetica senza precedenti?

Domande inquietanti ma ineludibili, che peraltro richiedono a suo giudizio un’ulteriore precisazione su cosa è oggi in grado di fare l’ingegneria genetica, che è stata giustamente chiamata in causa in alcuni interventi:

Per ora, spiega il relatore, se è consentito nella riproduzione assistita selezionare l’embrione più adatto alla vita, non è ancora possibile intervenire sul codice genetico. E’ stata peraltro recentemente approvata dal governo inglese una legge, non ancora applicata, che permette di correggere quelle anomalie del DNA mitocondriale che potrebbero determinare gravissime malattie degenerative (ricordiamo che il DNA mitocondriale è posto con i suoi 35 geni attorno al DNA nucleare, che sta al centro della cellula). Esiste infatti una tecnica ormai collaudata che consente di trasferire il DNA mitocondriale in una cellula uovo che non presenta difetti, rappresentando a questo livello una soluzione più evoluta rispetto ad altre tecniche già sperimentate anche a Torino, in cui si interveniva semplicemente inserendo il DNA mitocondriale sano di un’altra cellula uovo nell’embrione, nella speranza che esso prendesse il sopravvento o che comunque la situazione si bilanciasse.

Il problema della giustizia peraltro non riguarda solo l’accesso alle cure, ma anche la libertà di scelta che secondo il prof.Balistreri presenta dilemmi etici altrettanto rilevanti, dal momento che da un lato noi rivendichiamo sempre più la libertà di decidere in piena autonomia della nostra vita, dall’altro dobbiamo contemperare questo diritto con le esigenze della collettività. Che cosa accadrà – si chiede il relatore - quando le tecnologie riproduttive che abbiamo presentato saranno davvero operanti? Potremo scegliere, come donne, di condurre ancora la gravidanza nel nostro corpo? Se permettere o no, come genitori, l’intervento genetico sui nostri embrioni? (pensiamo a quanto è accaduto di recente nel caso dei vaccini, in cui sono venuti a scontrarsi la libertà di scelta e l’interesse della salute pubblica). Bisognerà ben riflettere su ciò che è malattia, su cosa è diversità, qual è il nostro margine di scelta…

Non c’è dubbio che dilemmi etici non indifferenti si presenteranno al legislatore, oltre che alla nostra coscienza, anche qualora partissimo dal presupposto che queste pratiche possano essere tanto vantaggiose quanto moralmente accettabili: il problema del CHI DECIDE COSA è già ora, e lo diventerà sempre di più, assolutamente centrale.

Parimenti non è certo da sottovalutare la questione della gestione delle tecnologie e della proprietà intellettuale delle scoperte, che è stato sollevato in uno degli interventi.  Esistono centri di ricerca pubblica, ma molti degli studi che vengono condotti in questo campo sono finanziati da aziende private, e sono pertanto legati alla possibilità di avere dei brevetti che diano il diritto esclusivo di utilizzo sul mercato delle conseguenti scoperte, come avviene già per i farmaci.

Non è facile, conclude il prof. Balistreri, il percorso che dovremo affrontare. Non sappiamo ancora che cosa faremo, nel momento in cui non solo sarà possibile eliminare una malattia degenerativa da un embrione ma anche modificarlo in modo da renderlo diverso (magari più morale, più capace di empatia? L’ipotesi può apparirci inquietante, e certo lo è: pensiamo tuttavia, tanto per fare un esempio, alla possibilità per un soggetto affetto da forme psicotiche gravi di poter condurre una vita normale), e certo non possiamo nascondere il fatto che queste ricerche comportano spesso sofferenza animale.

Cosa guadagneremo, e cosa perderemo della nostra umanità?  Indubbiamente dovremo porci, ad ogni passo e in un quadro di continua trasformazione, il problema delle scelte, per cui ci vorrà davvero un surplus di conoscenza e di consapevolezza delle questioni in gioco tale da permettere un’attenzione ancora più mirata sui meccanismi decisionali. Sarà comunque importante, a giudizio del relatore che nutre una profonda fiducia nella plasticità umana, mantenere un buon equilibrio fra l’eccesso di speranze e di aspettative e l’eccesso di paure, con una circospezione “giusta”.



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N.B.= come sempre abbiamo cercato di restare il più possibile fedeli al discorso del relatore, pur sintetizzando alcuni passaggi argomentativi, per evitare errori di interpretazione: ci assumiamo comunque la responsabilità di eventuali fraintendimenti

Per CircolarMente - Enrica Gallo

venerdì 9 febbraio 2018

Demografia e Borse


Demografia e Borse
di Fagiano Giancarlo

Sono comparse sui media due notizie all’apparenza difficilmente collegabili: l’andamento demografico italiano nell’anno 2017 ed una nuova, consistente, perdita delle Borse mondiali, in particolare quella americana di Wall Street. Eppure una qualche riflessione al riguardo può offrire interessanti collegamenti. Almeno così a me pare. Iniziamo dai dati demografici italiani, fonte ISTAT, qui riportati, per chi non avesse avuto modo di vederli, con un grafico che li riassume in modo efficace:

Molti di questi dati meriterebbero una specifica attenzione, ma per restare in tema è utile soffermarci sul dato macro della popolazione diminuita anche nel 2017, a conferma di un trend che dura da diversi anni. Al 1° gennaio 2018 si stima infatti che la popolazione italiana ammonti a 60 milioni 494 mila residenti, quasi 100 mila in meno sull'anno. Non è certo una dato soltanto italiano, analoghe tendenze, relativamente alla popolazione “indigena”, ossia quella al netto dei flussi migratori, sono da tempo in atto in tutti i paesi dell’Occidente, USA compresi. Se si considera inoltre l’età media della popolazione (indigena) in questa parte del mondo, appare evidente che il processo di diminuzione, anche significativa, della popolazione è, salvo clamorose inversioni di tendenza, al momento non rilevabili, destinato a proseguire ed anzi ad accentuarsi ulteriormente, sia in Europa che negli States. Così passati nell’altra sponda dell’Atlantico diventa possibile occuparci dei “tonfi” di Wall Street che stanno trascinando a cascata le Borse mondiali. Con una premessa d’obbligo: per quanto la scuola economica mainstream, quella prevalente di chiara impostazione neo-liberista, si ostini a considerare l’economia una scienza esatta, gestibile con formule ed algoritmi, appare al contrario evidente che molti fenomeni economici, ed in particolare proprio quelli finanziari, si basano su di una così vasta serie di possibili fattori da rendere problematica, se non impossibile, una loro gestione “scientifica”, e  la stessa individuazione esatta dei motivi scatenanti. Non a caso molti economisti assegnano un ruolo determinante agli aspetti “psicologici” dei comportamenti, individuali e collettivi, dei protagonisti dell’economia. In particolari molti vedono nell’impennarsi improvviso di acquisti e vendite in Borsa il peso di aspettative, ottimistiche o pessimistiche, determinate in misura tanto decisiva quanto incontrollabile, da fattori emotivi slegati dai dati economici “reali”. Si tenga poi conto che molte transazioni in Borsa sono ormai gestite da “cervelli elettronici” che, anche in questo caso sulla base di fantomatici algoritmi, reagiscono automaticamente alle fluttuazioni di fatto accentuandole spesso oltre misura. Ciò premesso molti autorevoli commentatori (personalmente ho trovato molto chiaro e convincente un recente intervento sul tema del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz) ritengono che dietro le turbolenze di Wall Street si celi il timore, accentuato dalle dinamiche psicologiche di cui si è detto, di un rallentamento dell’economia collegato proprio ai dati demografici, in questo caso americani. Molti operatori di Borsa starebbero infatti iniziando a temere una sorta di corto circuito fra la diminuzione della popolazione “indigena” e la crescita dell’economia che sembra al contrario tornata a buoni livelli. Negli USA in effetti da diversi anni, prima grazie alle politiche di sostegno all’economia avviate dall’amministrazione Obama e ora grazie all’effetto, per altro da valutare sui tempi lunghi, della consistente riduzione delle tasse e delle politiche protezionistiche adottate da Trump, l’economia va bene, persino troppo bene, lo dimostra innanzitutto il dato dell’occupazione: a livelli così alti da consentire di parlare di “piena occupazione”. Ed è proprio qui che potrebbe scattare il corto circuito: l’economia di mercato, come già diceva il buon Carletto Marx, è costituzionalmente condannata alla crescita continua pena l’innesco di spinte recessionistiche, obiettivo però non semplice e tanto più difficile da conseguire quanto più è sostenuta la crescita stessa. Per farlo tutti i fattori che concorrono a crearla devono essere disponibili e funzionare al loro meglio. Ma come fare a disporre di ulteriore manodopera, di più lavoratori, di più forza lavoro direbbe Carletto, se la popolazione tende a diminuire? Se diminuisce quella indigena e, al contempo, si pensa - e si inizia a fare - di fermare i flussi immigratori? Se stanno ormai per uscire dal mondo del lavoro i baby boomers indigeni, i tantissimi americani nati negli anni sessanta, e al contempo si vuole allontanare i baby dreamers, i nati degli ultimi decenni da famiglie immigrate che hanno ancora lo status di clandestini (calcolati in un milione e seicentomila individui, giovani)? Questo dubbio agita i sonni degli operatori di Wall Street e potrebbe spiegare, almeno in parte, le turbolenze di questi giorni. Non siamo per altro di fronte a problematiche “nuove”, da tempo molti insistono sulla necessità di riflettere, in modo razionale e lungimirante, sul rapporto fra dati demografici e sostenibilità dell’economia. Qui in Europa la Germania è da anni capofila in queste considerazioni e le misure di accoglienza adottate dalla Merkel, a costo di perdita di consensi elettorali, sono una miscela di valutazioni etiche di solidarietà e di concretezza politica. Ovviamente qui in Italia siamo molto lontani da tutto ciò, la campagna elettorale gioca sul tema dei migranti ben altre considerazioni che quella del collegamento fra dati demografici e tendenze economiche. Vero è che siamo ben lontani dalla piena occupazione, che la ripresa è perlomeno fragile ed incerta, che in questo contesto le politiche di accoglienza sono ancor più complicate, ma una politica meno urlata, e meno cialtronamente dedita a parlare alla “pancia” del paese, qualche riflessione sugli orizzonti lunghi di un paese sempre più vecchio, sempre meno popolato dovrebbe iniziare a farla. Senza attendere altri tonfi delle Borse o i dati Istat del prossimo anno.

giovedì 1 febbraio 2018

La parola del mese - Febbraio 2018


La parola del mese


 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni


Febbraio 2018


E’ un termine nato da molto poco ma che in brevissimo tempo è diventato di uso comune a livello mondiale vista “l’esplosione” del fenomeno ad esso collegato. Se praticamente tutti, o quasi, ne hanno sentito parlare, sono decisamente pochi (noi compresi) quelli che ne hanno una conoscenza adeguata. E’ quindi utile cercare di comprendere meglio cosa c’è dietro la parola


bitcoin/Bitcoin 


bitcoin = termine di nuovo conio (2008/2009) (simbolo: ₿; codice: BTC o XBT), formato dalle due parole inglesi “bit” (l’unità minima di informazione dei programmi informatici, ma bit vuol già anche dire del suo “pezzo/pezzettino-monetina–spicciolo”) e “coin” (moneta), pertanto significa, ed è, (una) “moneta, monetina virtuale”, (una) moneta, spicciolo, che vive e vale nel mondo della Rete. Lo si trova scritto sia con l’iniziale maiuscola (Bitcoin), in questo caso si riferisce alla tecnologia informatica che lo ha creato e che lo sostiene ed all’ambiente Internet in cui si muove, sia con l’iniziale minuscola (bitcoin), e in questo caso si intende la valuta virtuale in sé vera e propria.

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Stante la rilevanza che il “fenomeno” bitcoin sembra aver assunto sotto diversi aspetti e vista la complessità “tecnica” del mondo Bitcoin questa sintetica definizione richiede di essere integrata limitandoci tuttavia agli aspetti essenziali di un “sistema” tanto semplice nella sua concezione iniziale quanto decisamente complicato nella sua successiva articolazione.…………

-Il bitcoin nasce come risposta concreta ad una esigenze cresciuta in Rete nel corso dei primi anni del nuovo millennio, nell’ambito di un “dibattito aperto” al quale hanno contribuito operatori economici, in gran prevalenza attivi in settori già del loro costituzionalmente operativi in Internet, informatici puri, teorici delle potenzialità rivoluzionarie della Rete

-Il tema era quello di superare le difficoltà di sviluppo delle relazioni commerciali in Rete pregiudicate dalle forme di pagamento ad esse collegate troppo condizionate dalla rigidità del sistema delle valute ufficiali e dei pagamenti in forme tradizionali. L’idea che progressivamente prese forma fu quella di immaginare la creazione, in Rete, di una moneta virtuale, ma vera e riconosciuta, senza controlli e controllori centrali, ma autogestita in Rete, in grado di conciliare idealità e praticità, con la quale gestire i pagamenti delle relazioni commerciali fra operatori che avessero deciso di aderire alla piattaforma digitale di supporto

-La crisi mondiale del 2077/2008 e le collegate turbolenze nel mercato delle valute diventa l’occasione per rompere gli indugi

-A gennaio 2009 nasce ufficialmente la rete Bitcoin e debutta la moneta virtuale bitcoin. Il “papà” del sistema operativo di supporto e gestione è tal Satoshi Nakamoto, nome di fantasia dietro al quale si nasconde un personaggio misterioso a tutt’oggi ancora sconosciuto nella sua vera identità

-Il software gestionale e l’ambiente Bitcoin ideati da Nakamoto rispondono perfettamente ai parametri auspicati di solidità, controllo, parità ugualitaria degli operatori, trasparenza delle transazioni, anonimato. Il bitcoin nasce con le conseguenti caratteristiche di “criptomoneta” ossia una moneta “virtuale” che attribuisce un “valore monetario convenzionale” ad uno scambio di informazioni digitali fra due o più operatori che aderiscono ad una piattaforma digitale condivisa, è in parole molto povere uno scambio di “bit” in rete che ha un valore concordato di “coin”

-Il termine “cripto” deriva dalla caratteristica, indispensabile per un sistema gestionale aperto in Rete, di “segretezza” utile a garantire controllo, serietà e solidità gestionale. La crittografia è da sempre stata utilizzata nella storia umana proprio per proteggere, rendendolo “nascosto”, uno scambio di informazioni “delicate”. L’inchiostro simpatico, la scrittura di Leonardo, il codice “Enigma” usato dall’esercito tedesco nella Seconda Guerra (decifrato dal matematico inglese Alan Turing conisderato proprio per questo il padre dei moderni computer) sono alcuni esempi di crittografia che, con l’avvento della Rete, viene intensivamente usata per “proteggere” informazioni “riservate e sensibili”. La crittografia informatica in particolare consiste in algoritmi che, sulla base di una chiave segreta, modificano i caratteri digitati trasformandoli in un linguaggio riservato solo ai possessori di tali chiavi. Detto in modo molto sintetico chiunque entra nel mondo Bitcoin diventa proprietario di un suo specifico “portafoglio” (wallet), all'interno di ogni portafoglio c'è una coppia di chiavi crittografiche: la chiave pubblica, la si può immaginare come il codice IBAN di un conto corrente,  cioè l'indirizzo che fa da punto di invio o ricezione dei pagamenti, e la chiave privata, ossia la vera e propria  firma digitale del singolo utente, la chiave che gli consente di leggere il linguaggio crittografico di Bitcoin.

-Il bitcoin conosce un successo immediato tanto da dare l’avvio ad una vera e propria esplosione di “criptomonete informatiche” (attualmente se ne contano circa duecento!)

-E’ sempre difficile individuare le ragioni del successo di iniziative decisamente innovative, sicuramente concorrono diverse ragioni e spiegazioni, quel che è certo è che la piattaforma Bitcoin ha sostanzialmente mantenuto una forte coerenza con le caratteristiche auspicate alla sua nascita.

-Ad esempio la parità ugualitaria fra i suoi operatori è garantita dall’uso della tecnologia peer-to-peer (P2P) (da pari a pari), la stessa utilizzata per lo scambio più o meno legale che si fa in Rete di file musicali, film e software: ossia tutte le comunicazioni fra gli utenti Bitcoin avvengono sulla base del principio “da pari a pari”, in questo modo non esiste al sua interno alcuna autorità centrale,  la gestione delle transazioni e l'emissione di bitcoin viene effettuata collettivamente dalla rete. In sintesi: Bitcoin è open-source,  la sua progettazione è pubblica, nessuno possiede o controlla Bitcoin e ognuno può prendere parte al progetto.

-Il controllo della sostenibilità e del buon esito delle transazioni è affidato alla rete Bitcoin stessa, alla sua strutturazione ed al sistema informatico gestionale ideato da Nakamoto. Che qui riassumiamo a grandi linee, stante la sua indubbia complessità, per coloro che, del tutto digiuni al riguardo, volessero farsi comunque un’idea, invocando al contempo comprensione ed indulgenza da parte dei veri esperti della materia:

-ogni transazione in bitcoin è pubblica e memorizzata nei computer di tutti coloro che possiedono un portafoglio; la struttura dell’ambiente Bitcoin è articolata per pezzi, per singole caselle, chiamate “nodi”, all’interno di questi nodi la catena degli utenti opera, a salire dal nodo più basso a quello più alto, tutte le operazioni di controllo, validazione, interfaccia per dare seguito operativo alle attiviità di pagamento/trasferimento dei bitcoin

-i bitcoin possono pertanto essere spesi solo da chi ne possiede la relativa chiave privata: se questa viene smarrita, i bitcoin associati non potranno più essere spesi e il relativo importo diverrà indisponibile. (nel 2013 un utente ha lamentato la perdita di 7.500 bitcoin, all'epoca del valore di 7,5 milioni di dollari, per essersi accidentalmente sbarazzato di un hard disk che conteneva la sua chiave privata)

-quando un utente A trasferisce criptovaluta a un altro utente B, attraverso una connessione diretta da computer a computer (il peer-to-peer), aggiunge alle proprie monete la chiave pubblica di B (cioè l'indirizzo del destinatario, il suo "iban") e autorizza la transazione firmandola con la propria chiave privata (la propria "firma"). La transazione viene inviata sulla rete peer-to-peer, dove viene controllata e registrata da tutti i nodi che partecipano alla rete direttamente coinvolti.

-Il processo di validazione avviene risolvendo, per ogni transazione, un complesso set di operazioni matematiche che richiede una grande potenza di calcolo ma che garantisce la validità e univocità dell'operazione. Il metodo definito ed elaborato da Nakamoto garantisce cioè che A disponga veramente della quantità che sta trasferendo a B e che quella stessa quantità non sia già stata utilizzata in altri scambi.

-Quando la validità della transazione viene confermata, l'informazione viene aggiunta al database distribuito, chiamato blockchain, cioè catena di blocchi: a questo punto ogni nodo della rete peer-to-peer viene a conoscenza dell'avvenuta transazione.

-Quindi il sistema Bitcoin prevede e garantisce la massima trasparenza e conoscenza. La blockchain contiene tutti i movimenti di tutti i bitcoin generati a partire dall'indirizzo pubblico del loro creatore fino all'ultimo proprietario.

-Questo permette di evitare che una quantità già spesa possa essere utilizzata nuovamente dalla stessa persona: ogni punto della rete sa tutto di ogni singola moneta.

-La potenza di calcolo necessaria, sempre più consistente, viene garantita dalla stessa comunità Bitcoin. Gli utenti , chiamati miner, che mettono a disposizione i computer, sono ricompensato in criptovaluta.

- I bitcoin così creati sono generati e accreditati sei  volte l'ora in maniera automatica: il mining è quindi un'attività che consente, a chi la pratica, di generare criptovaluta.

-Il sistema Bitcoin prevede però un limite massimo di bitcoin creabili. Il numero massimo di bitcoin che il sistema è in grado di sostenere e gestire è infatti fissato in 21 milioni di bitcoin: in base alle attuali stime sugli scambi, questo limite verrà raggiunto nel giro di 130 anni circa. Il fatto che non possano essere effettuate iniezioni di moneta da parte di un ente esterno, per esempio una Banca Centrale, è  da un certo punto di vista una "garanzia di stabilità" e mette il bitcoin al riparo dal rischio di inflazione.

-il satoshi (il nome di Nakamoto)è la più piccola frazione di bitcoin, pari a 1 centomilionesimo di bitcoin (0,00000001 BTC).Il che dà già l’idea del valore unitario altissimo ormai raggiunto dal bitcoin

-Il software è aggiornato e manutenuto dalla stessa comunità Bitcoin, cioè da appassionati e sviluppatori che con il loro lavoro contribuiscono a rendere il protocollo sempre più efficiente.

Completiamo questo quadro informativo (scusandoci ancora per la sua inevitabile “osticità”) con alcune considerazioni più generali:

-a differenza delle valute convenzionali, il cui valore è associato alle variabili macroeconomiche dello Stato (o della Comunità) che le emette, il valore del bitcoin dipende esclusivamente dalle aspettative di chi li scambia. Il loro valore è cioè determinato esclusivamente dalla legge della domanda e dell'offerta, un po' come per il prezzo dell'oro, dei diamanti e delle materie prime.

-Il fatto che il sistema Bitcoin preveda la creazione controllata di nuovi bitcoin ha sicuramente contribuito, proprio per il gioco domanda-offerta a fronte di una massa “finita” di pezzi, all’esplosione apparentemente incontrollata del suo valore

-Il clamore attorno all'aumento del valore del bitcoin che si è generato negli ultimi mesi ha innescato una corsa all'acquisto, che a sua volta ha contribuito a incrementarne il valore: per esempio, il 13 gennaio 2017 un bitcoin valeva circa 777 euro, il 13 dicembre 2017 era salito a 14.475 euro. Negli ultimi 12 mesi il valore del bitcoin è aumentato del 1900%

-A meno di volersi dedicare all'attività di mining, l'unica alternativa per procurarsi dei bitcoin è quella di acquistarli online su una delle tante piattaforme di trading che oggi li trattano alla stregua di azioni, obbligazioni e altri strumenti finanziari. Un buon modo per iniziare è verificare tutte le possibilità su bitcoin.org  (disponibile anche in italiano).

-L'economia  basata sui bitcoin è ancora molto piccola, se paragonata a economie stabili da lungo tempo (anche se, ad esempio, già nel 2013 ha raggiunto il 21% del totale delle operazioni di cambio in Cina) e il software è ancora in uno stato di beta realese (in costruzione), tuttavia sono già commercializzati in bitcoin merci e servizi reali quali, ad esempio, automobili usate o contratti di sviluppo software. I bitcoin vengono accettati sia per servizi online sia per beni tangibili. Sono moltissimi ormai gli enti, le organizzazioni e le associazioni che accettano donazioni in bitcoin, ad esempio: dal novembre 2013 l'Università di Nicosia, a Cipro, accetta il bitcoin come mezzo di pagamento delle tasse universitarie. A partire dal primo luglio 2016, nella città di Zurigo, capitale di uno dei Cantoni più ricchi della Svizzera, era, è possibile pagare in bitcoin alcuni servizi pubblici, tra cui la sanità e i trasporti. Alcuni commercianti, utilizzando siti di cambio, permettono di cambiare bitcoin in diverse valute, ivi compresi dollari statunitensi, euro, rubli russi e yen giapponesi. E' di questi giorni la notizia flash della prima auto venduta con pagamento in bitcoin

-Tra gli scenari previsti per un possibile fallimento di Bitcoin, vi sono un processo di svalutazione della moneta (il cui valore è cresciuto a dismisura per l’eccesso di domanda, a puri fini speculativi, slegata dal suo reale utilizzo di moneta virtuale di pagamento di vere transazioni commerciali) oppure una pesante restrizione della base di utenti, oppure ancora un attacco repressivo frontale al sistema da parte dei governi (sollecitati da alcune associazioni dei consumatori che hanno lamentato il fatto che il bitcoin sia di fatto diventato una sorta di catena non virtuosa, come quelle, tecnicamente chiamate “sistema Ponzi”, che promettono forti guadagni a patto di reclutare continuamente nuovi investitori premiando però di fatto solo i primi della catena)

-Nouriel Roubini, professore di economia e business internazionale, diventato celebre per aver previsto per primo la crisi finanziaria del 2008, in un'intervista rilasciata pochi giorni fa ha sottolineato come il bitcoin sia solo un'altra gigantesca bolla, destinata a scoppiare e lasciare sul terreno diversi nuovi poveri.

-Esistono ormai dei punti Bancomat di bitcoin, anche in Italia (il primo installato in Italia, e terzo in Europa  dopo quelli di Helsinki  e Zurigo, ha cominciato a operare a Udine  nel 2014) chiamati  ATM (Automated Teller Machine) sono separati e non integrati con Visa, MasterCard,  o altri circuiti di pagamento utilizzati dagli istituti bancari, ma dai quali è possibile prelevare contanti (in euro) da un proprio conto in bitcoin o viceversa. Ci sono anche carte di credito emesse dai normali gestori ma appoggiate a wallet in bitcoin

-Il potenziale di anonimità delle transazioni ha reso le criptovalute, come il bitcoin, la moneta preferita anche per gli scambi illegali di denaro. Inoltre la possibilità che molte agenzie del settore offrono di acquistare bitcoin con pagamento in contanti sta di fatto offrendo pericolose occasioni di riciclaggio di denaro sporco. L’anonimato offerto dal sistema Bitcoin rende inoltre di fatto impossibile la tassazione degli eventuali guadagni da speculazioni di ordine finanziario sulla criptomoneta.